Green pass e dintorni: le scelte della politica
La strategia che stiamo adottando nell’affrontare il Covid, fondata sulla “coercizione morbida” del Green Pass, è inaccettabile sul piano etico e irresponsabile su quello politico. Questo giudizio dipende da tre ordini di ragioni. In primo luogo ci troviamo nel mezzo di una campagna aggressivamente moralistica che ha lacerato il paese. Questa campagna è stata adottata come complemento alla “volontarietà” di sottoporsi alla vaccinazione. Il Green Pass è infatti un’operazione di persuasione obliqua, che si finge una misura per ridurre i contagi, ma che in effetti serve a spingere a vaccinarsi. Si tratta naturalmente di un segreto di Pulcinella.
Quando eminenti politici sostengono pubblicamente che i tamponi (di per sé la miglior garanzia di non essere contagiosi) devono essere nasali e onerosi, perché altrimenti la gente non si vaccinerebbe, non c’è molto da aggiungere. Questo carattere finzionale del Green Pass, giustificato
con motivazioni diverse da quelle reali, è una sorta di peccato originale.
Da questa doppiezza discende una tendenza alla distorsione e un avvelenamento generale del discorso pubblico, dove esperti e giornalisti si sentono legittimati ad esercitare forme di “terrorismo psicologico”, mentre uomini di scienza si sentono parimenti giustificati a esprimersi come tifosi e moralisti, omettendo o distorcendo tutto ciò che ritengono utile omettere o distorcere. Quest’operazione di manipolazione si ritiene giustificata in quanto sarebbe fatta “a fin di bene”, laddove il “bene” sarebbe il perseguimento di una vaccinazione universale.
La necessità di forzare i comportamenti senza ricorrere all’obbligo formale di legge comporta il ricorso a bacchettate moraleggianti ai più alti livelli: vaccinarsi è diventato così un “dovere morale”, un “atto d’amore”, mentre non vaccinarsi significherebbe “morire e far morire” (cioè: uccidere). Che
si tratti di falsità conclamate per mille motivi – a partire dal fatto che i vaccini disponibili, diversamente dal tampone, non escludono che si possa essere contagiosi – è considerato irrilevante. Si sta mentendo, certo, ma “a fin di bene”. E a questo punto, come sempre accade, se legittimi la massa ad esercitare il proprio diritto all’odio nei confronti di una categoria di “nemici pubblici” le conseguenze non tardano a presentarsi. È stata creata dapprima una categoria sociale farlocca (il subumano “No Vax”) dove è stato arruolato d’ufficio chiunque non partecipi con entusiasmo allo “sforzo
bellico” centrato sui vaccini.
Dunque sono diventati “No Vax” anche scienziati che formulano critiche, filosofi che sollevano dubbi, semplici cittadini che cercano di pensare con la propria testa. Il “No Vax” (così inclusivamente definito) viene dipinto nel migliore dei casi come un ignorante terminale, ma in alternativa come un pazzo, un demente, un sociopatico, un fascista, qualcuno che sta tradendo la patria nello sforzo santo contro il Nemico, e che perciò merita di essere escluso dal voto, di girare con un cartello al collo, di essere espulso da ogni forma di vita sociale, qualcuno che ci si augura di vedere malato, intubato, qualcuno che infermieri e sanitari possono minacciare e rampognare, che se malato può essere esposto al pubblico ludibrio, e cui si chiede di pentirsi.
Non c’è niente di casuale in questa dinamica. Si tratta di un dispositivo di distruzione morale del “nemico interno” che di solito caratterizza le situazioni di guerra e che qui viene attivato per far funzionare un’iniziativa sanitaria non altrimenti giustificabile. La gravità di questo avvelenamento dall’alto della vita pubblica è difficile da sopravvalutare.
Il secondo punto critico in questo processo è dato dall’avvenuta distorsione del ruolo della “classe medica”, cui viene attribuito di fatto un nuovo ruolo tecnocratico, alternativo alle procedure democratiche. Dopo aver passato anni di studio su volumi di patologia comparata e anatomia generale un
selezionato numero di rappresentanti della classe medica avrebbe apparentemente acquisito le qualifiche di maître a penser, e, forte del proprio principio d’autorità, si esprime sui media spiegando che il Green Pass sarebbe una “questione di civiltà”, auspicando che ai refrattari al vaccino vengano fatte pagare le spese ospedaliere, discettando mattina e sera su questioni di sociologia, diritto, etica ed epistemologia su cui hanno le stesse competenze di Fedez. E tutto ciò potrebbe far sorridere, se non fosse l’indice di uno spostamento culturale gravido di conseguenze.
Oggi gli appelli politico-mediatici all’esperto, al tecnico, allo specialista, allo scienziato hanno una funzione essenzialmente antiscientifica, antirazionalista e, soprattutto, antidemocratica. Questi appelli vengono brandeggiati, da una classe dirigente che opera fuori scena, come dei capolinea argomentativi, dove ragioni e dubbi devono avere un termine, dove non si deve procedere oltre. Si tratta di un’operazione di tipo sacrale: il “popolo”, il “laico” che pretendesse di andare più in là è posto come per definizione irragionevole (blasfemo), e il suo atteggiamento è per definizione “populista”.
Qui l’appello alla “scienza” è naturalmente l’appello ad un sottoinsieme qualificato e preselezionato del mondo scientifico, e serve a coprire un’operazione essenzialmente antidemocratica: non potendo in un regime democratico richiamarsi ad un principio di autorità politica per dare ordini, si ricorre a quel monstrum che è il “principio di autorità scientifica”. In passato questo tipo di soluzioni è stato adottato spesso chiamando a sostegno la scientificità degli “esperti economici”, ma l’occasione della pandemia ha spinto alla cooptazione di esponenti del mondo medico. Nella fattispecie corrente questi appelli alla “comunità scientifica” sono serviti a sostenere una serie infinita di tesi incredibili e di strategie irresponsabili. Si è ripetuto con la faccia seria che vaccini approvati con procedure emergenziali, svolgendo le fasi sperimentali in simultanea e non in successione, usando tecnologie mai approvate prima per la somministrazione vaccinale, testati solo sopra i 16 anni, privi di analisi di genotossicità e cancerogenicità, senza indagini sull’interferenza con altri farmaci, senza sperimentazione sulle donne in gravidanza, dovevano senz’altro essere utilizzati serenamente su bambini in crescita e donne in gravidanza, magari improvvisando spiritose combinazioni
cocktail di vaccini diversi.
Qui tutti i principi di deontologia, ogni principio di precauzione, ogni metodologia sperimentale consolidata sono stati dichiarati d’ufficio orpelli stantii, fastidiose piccinerie che non dovrebbero ostacolare le disposizioni
dall’alto. Questo grande gioco d’azzardo, questa roulette russa sulla pelle di soggetti che correvano un rischio da Covid insignificante, è stato promosso nel nome della “scienza”. E chi in ambito scientifico vi si è opposto è stato minacciato, silenziato, denigrato. E queste manganellature morali sono
avvenute nel nome della ragione e della scienza. (E dopo aver contemplato queste distorsioni, si chiede alla popolazione di affidarsi fiduciosa ai controlli della farmacovigilanza). Si arriva così al terzo, decisivo, punto. Quale strategia generale è sottesa a questa operazione? Vi è in generale una
strategia? O si tratta piuttosto solo della somma di improvvisazione, sciatteria e arroganza? Questo è il punto di più difficile interpretazione, nel senso che più di una spiegazione è aperta, anche se esse sono mutuamente compatibili.
La prima possibilità, e la più semplice, è quella dell’analogia
fuorviante: si sarebbe diffusa nelle classi dirigenti di molti paesi occidentali l’idea erronea che la meta sia l’eradicazione definitiva del virus attraverso la vaccinazione di massa, sul modello del vaiolo. Questa tesi è in effetti ripetuta frequentemente, e da presunti esperti, nonostante sia del tutto insostenibile sulla base delle migliori conoscenze che abbiamo a disposizione. Il modello del vaiolo era quello di un virus la cui forma letale per l’uomo non era presente in altre specie animali, e in cui sia il vaccino che il contatto con la malattia davano immunità pluridecennale (studi retrospettivi lo hanno confermato). Nel caso del Covid abbiamo a che
fare con un virus diffuso globalmente, contagiosissimo, a diffusione aerea, presente come serbatoio in altre specie animali (pipistrelli, mustelidi, ecc.) e il cui vaccino dà immunità incompleta e limitata nel tempo (6-12 mesi?). Come si possa pensare che, stante le condizioni attuali, si sia nelle condizioni per determinarne l’eradicazione rimane misterioso, visto
che bisognerebbe vaccinare nell’arco di durata temporale dell’immunizzazione l’intero pianeta, inclusi gli animali serbatoio,
e sperando che la copertura (85%?) sia sufficiente per definire una globale ‘immunità di gregge’. Dunque la prima possibilità da considerare è che si tratti semplicemente di un clamoroso errore di strategia: si agisce per perseguire un obiettivo che però così facendo appare destinato a sfuggirci
per sempre.
Questa possibilità però è almeno in parte insoddisfacente.
Che un congruo numero di persone, anche in posizioni politiche apicali, possa commettere clamorosi errori di valutazione è ben possibile e la storia ce lo ricorda continuamente. Ma sembra improbabile che si tratti soltanto di un grande errore collettivo. Se un travisamento è commesso da numerosi politici e in diverse nazioni, è assai plausibile che ci siano ottime motivazioni a voler credere in quell’errore. Il motto guida della strategia sanitaria in molti paesi occidentali (Italia in particolare) sembra essere extra vaccinum nulla salus. L’intera strategia si è concentrata sull’obiettivo
di una vaccinazione a tappeto – sia pure con vaccini scarsamente sperimentati e approvati con procedure emergenziali e inedite – mentre lo sviluppo delle terapie sintomatiche, e soprattutto della tempestività degli interventi, è stato lasciato drammaticamente indietro. Questa concentrazione sulla vaccinazione ha una chiara spiegazione economica e gestionale: mettere in piedi la catena di montaggio per somministrare
centinaia di migliaia di vaccini richiede solo uno sforzo organizzativo
iniziale, e poi si svolge con tassi di competenza bassissima, alla portata di chiunque. Taylorismo sanitario.
La spesa è significativa, ma è concentrata sull’acquisto del farmaco. Non c’è bisogno di aggiornare protocolli, di assumere personale, di riorganizzare i servizi, non c’è bisogno di impegnarsi in niente che abbia un impatto duraturo sul servizio sanitario nazionale.
Ed in effetti questo è il punto più evidente, nella sanità come altrove: a quasi due anni dall’inizio della pandemia in Italia tutti i comparti strategici, dall’istruzione ai trasporti alla sanità, sono alle prese con gli stessi problemi dell’inizio, se non più gravi. La strategia vaccinale si presenta dunque sì
come un gioco d’azzardo sulla pelle dei cittadini, ma è anche una scommessa che, se vinta, permetterebbe il ritorno al business as usual senza aver dovuto metter mano a niente di strutturale: senza investimenti a lungo termine, senza sforzi di miglioramento sistemico. Dunque si può capire come vi sia un grande interesse a credere all’idea che la vaccinazione di massa sia la soluzione, anche senza mettere in campo le
“capacità persuasive” delle case farmaceutiche. Nel breve periodo si può far fare il lavoro grosso a un generale dell’Esercito e a neolaureati con contrattini volanti, e se la scommessa si vince si è ottenuta la ripartenza del paese in autunno con poca spesa, poco ingegno e nessun investimento strutturale. Se la scommessa dovesse fallire (e in qualche misura fallirà certamente) ci sarà tempo per trovare capri espiatori, o per lasciare
il cerino in mano a governi successivi.
C’è infine un terzo livello esplicativo, più profondo, dove è possibile rintracciare motivazioni di lungo periodo per questo tipo di strategie. Non dobbiamo dare per scontato che la priorità di un governo sia “risolvere i problemi del paese”. Anche senza eccedere in machiavellica malizia è opportuno ricordare che una priorità di ogni esecutivo, e di ogni classe politica, è innanzitutto la gestione e il mantenimento del potere, in quanto tale. Ora, il caso dell’attuale strategia sanitaria è solo un esempio di una casistica più generale, e crescente da tempo nelle democrazie occidentali.
È almeno da quando le conclusioni della Trilateral Commission (1975) stabilivano la difficoltà di gestire un “eccesso di democrazia” che l’Occidente è alle prese con il problema di come limitare le pretese del ‘demos’ e silenziarne le istanze. La soluzione ideale a questo problema, senza dover passare attraverso un abbandono formale della democrazia, si è trovata con il continuo ricorso alle dinamiche dell’emergenza. Di fronte a un’emergenza, che sia una catastrofe naturale, una minaccia terroristica, una crisi finanziaria, una pandemia o altro, il ceto politico al governo acquisisce una legittimazione straordinaria, una legittimazione ad operare in forme arbitrarie e forzate che mai avrebbe in condizioni normali. L’emergenza, reale o presunta non importa, consente di tagliare corto con gli “orpelli democratici” e di trovare una giustificazione per distorsioni, omissioni, menzogne vere e proprie. Il refrain dell’emergenza è “Non c’è tempo, bisogna fare presto!”; chi si pone troppe domande su cos’è che si starebbe facendo presto è automaticamente una zavorra, un nemico; chi
lamenta la gestione tecnocratica, dall’alto, viene liquidato come “populista”.
La gestione della presente pandemia, al di là delle sue specificità, è un caso, l’ennesimo, in cui questo meccanismo di gestione tecnocratica del potere emerge in primo piano. Il ricorso ad un ceto (accuratamente preselezionato) di “esperti”, di “tecnici” viene giustificato con la necessità di
fornire una risposta massimamente efficace a un problema riconosciuto come evidente (l’emergenza). Il sottinteso è che gli esperti sceglieranno i “mezzi migliori” per risolvere il problema, e che dunque non siamo più sul piano dove la scelta politica e democratica sarebbe rilevante: un mezzo è il migliore o non lo è, e l’esperto è colui il quale è deputato a dire qual è la via migliore, l’unica via (there is no alternative). La democrazia è perciò quella cosa che si usa nei giorni di festa, mentre per tutto ciò che conta c’è la tecnocrazia. La pluralità politica dei mezzi, delle vie, delle strategie viene rimossa dal tavolo come irrilevante.
Ecco, nel contesto dell’odierna gestione pandemica, questa motivazione profonda non spiega la natura delle specifiche scelte, ma spiega perché strategie sciatte e motivazioni di corto respiro possano imporsi così facilmente. Il vero obiettivo non è affrontare un problema nel modo più adatto al bene comune, ma nel modo più performante per le classi dirigenti.
Una volta compreso questo ordine di priorità, ciò che alla base della piramide sociale può darsi come una soluzione irragionevole e pericolosa, al vertice della piramide può apparire come una scommessa promettente e vantaggiosa.
E questo è in ultima istanza il punto di sintesi nelle vicende correnti: siamo di fronte ad una grande scommessa sulla nostra pelle, a qualcosa che ai gruppi di potere consolidati appare come un promettente gioco d’azzardo, le cui eventuali perdite non saranno loro a pagare, mentre per la maggioranza della popolazione rappresenta piuttosto una roulette russa, i cui eventuali esiti sfortunati subiranno senza sconti.
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