Genova oltre la Diaz

Per chi era lì è un colpo al cuore, ai polmoni, alle reni, alle ossa, agli occhi, al cervello questo ventennale su Genova 2001. Sono ferite, in senso fisico e metaforico, che non si rimarginano e che appena si sfiorano riprendono a sanguinare. Ma ci sono ferite molto più profonde di quelle che vengono comunemente richiamate alla memoria, sono le ferite di chi vede intorno a sé la rovina di un mondo che non ha ascoltato quelle voci. I podcast, i servizi, gli articoli, le testimonianze ripercorrono quei giorni, quelle ore. Fanno rivivere i fumogeni, la violenza, il sangue, gli scudi, i manganelli e soprattutto lo smarrimento di chi era nato con la Costituzione e non poteva nemmeno immaginare che ne venisse fatta carta straccia in modo così programmatico. Il mondo capovolto. Si fece strada la sensazione che “un altro mondo è possibile”, ma che non era per nulla quello sognato dai manifestanti. È possibile una dittatura, è possibile non poter più esprimere le proprie idee, è possibile essere incarcerati, picchiati, torturati senza aver fatto nulla di illegale. E non, come purtroppo accade o sempre è accaduto, per la follia di un gruppetto, per il fascismo che cova in una singola caserma. No, no: qui il fascismo era strutturale, pianificato, progettato per colpire, distruggere un movimento.
È importante ricordare tutto questo, necessario, ma è altrettanto necessario sottolineare che si sta correndo un rischio. Il rischio della mitizzazione. “Internazionale”, “Repubblica”, la Rai… un po’ tutti l’hanno corso in questo 2021. Genova è stata spesso raccontata come i 3 giorni di una battaglia, una battaglia che di bocca in bocca, di testimonianza in testimonianza, di docufilm in docufilm si è cristallizzata in momenti, luoghi, personaggi, episodi topici, mitici appunto. Elencarli è quasi superfluo, visto che come i veri miti fanno ormai parte della conoscenza collettiva di tutti – di quelle cose che si sanno e basta senza sapere come mai facciano parte del nostro bagaglio di conoscenze – Bolzaneto, Diaz, Carlo Giuliani, tute bianche, Piazzale Kennedy, il figlio del giornalista famoso, il ragazzo inglese, la costruzione delle prove false, i black bloc… Le inchieste della magistratura hanno contribuito a cristallizzare questi episodi, a renderli verità giudiziaria prima e storica dopo. Hanno rappresentato autorevoli fonti per sceneggiatori, giornalisti, scrittori. Ma Genova 2001 è stata una miriade di episodi, direi onde di un mare, impossibili da ricostruire e da restituire con esattezza. A partire dal numero dei partecipanti che era davvero impressionante: mentre domenica in una strapiena Piazza De Ferrari, cuore della città, si tenevano i comizi che concludevano la manifestazione, il corteo si snodava ancora fino oltre a Boccadasse 5 km più a est. Quante persone ci stanno in una piazza e in un corteo lungo 5 e più km su viali a 6 corsie? Tutti, ma proprio tutti, quelli che sono stati lì hanno da raccontare una propria personale Genova 2001, altrettanto ricca di storie ed episodi, il mosaico sarà sempre difficile da ricostruire per intero. Anche vedere la questione in questo modo “diaristico” ha però dei rischi: prima di tutto quello del “reduce”. “Io c’ero e ho visto cose che nessuno ha mai raccontato….” L’ “io c’ero” è un’altra trappola da cui sfuggire, da tenere in serbo per i nipoti che leggeranno di Genova nei libri di storia.
Il passo da fare oltre la mitizzazione e il reducismo è di ricostruire, ri-comprendere, rileggere quello che era stato quel movimento. Non che qua e là anche nelle rievocazioni del ventennale questo non avvenga, anzi. Non si vuole qui stilare l’elenco dei bravi e dei meno bravi, tanto più che una certa mitizzazione è necessaria e inevitabile. Ma il passo oltre va fatto con decisione. Prima di tutto rileggere le ragioni, i protagonisti, le stagioni di quel movimento a vent’anni di distanza significa capire anche che cosa siamo diventati noi oggi, da che parte si è mosso il mondo. Inoltre, per chi “stava lì”, non sempre era chiarissimo in quel periodo riconoscere un tratto logico comune, progettuale, un disegno di fondo nel complesso delle sigle, delle istanze, delle lotte (le più svariate in effetti) che le numerose anime del World Social Forum portavano avanti. Ecco, già dall’etichetta si capisce quanto quel fenomeno sia stato variegato e complesso: “no global” è un nome dato dai media, nel quale non si sono mai identificate le anime di quell’esperienza, ma che alla fine è il termine che è passato alla cronaca e alla storia. Eppure: l’internazionalizzazione dei diritti, il disastro ambientale imminente, le politiche sugli spostamenti mondiali delle popolazione, lo sfruttamento di tutti i lavoratori: non erano temi globali quelli che si proponevano? Altro che “no global”.
Non è forse necessario qui ricostruire con minuzia tutte le sigle che si sentivano parte di quel mare, di sicuro si andava dagli scout, dalle parrocchie e gruppi religiosi di taglio più “sociale” ai black bloc di matrice anarchica. E in mezzo l’ARCI, i sindacati, le reti pacifiste di varia natura, i centri sociali più o meno portati allo scontro di piazza, il variegato mondo ecologista, gli economisti critici, la Tobin Tax, quasi tutte le associazioni del Terzo Settore: un mondo intero in grado di mobilitare tantissime coscienze e senza nessuna rappresentanza politica. La stessa presenza di leader più o meno ambiziosi, alcuni in cerca di una carriera politica, Vittorino Agnoletto, Luca Casarini, Tom Benettollo, per citare i più in vista, non ha contribuito a rendere chiaro in tempo reale il disegno complessivo di quel fenomeno. Che sia stato spazzato via dai manganelli è lapalissiano, ma è anche vero che forse solo a distanza di tempo, o addirittura solo ora, è possibile ricostruire il mosaico che in questo caso ha forma e soggetto. Mentre ci si era dentro ognuno alla fine seguiva e conosceva bene il suo pezzetto. Le manifestazioni del sabato, quelle delle piazze tematiche, in cui le diverse anime si sono divise, hanno rappresentato in modo chiaro questa frammentarietà, questa fluidità. D’altra parte i temi sul campo erano così vasti che sarebbe stato impossibile costruire “il manifesto” di Genova 2001, la piattaforma della manifestazione.
Susan George, scrisse: “È il primo movimento di massa della storia che non chiede nulla per sé, ma vuole giustizia per il mondo intero”. 20 anni di Genova siano allora sì l’occasione per radicare il mito che è necessario per non dimenticare e per cementare un blocco comune di senso che ci permetta di dire: “mai più”, ma sia anche lo stimolo per riprendere quei temi e quelle parole.
Oggi, diradata la nebbia dei fumogeni, il disegno si vede, eccome. Di sicuro tutto sembra più chiaro anche perché il mondo, muovendosi in modo disastroso nella direzione opposta a quella indicata da quelle diverse anime, ha reso oggi urgenti e attuali quelle idee, quelle critiche, quelle parole. Si è trattato di un movimento profetico. Se guardiamo oggi al ritiro (la sconfitta?) delle truppe americane dall’Afghanistan, la carneficina in Siria, come non ricordare le parole dei pacifisti della Rete Lilliput con le mani dipinte di bianco in Piazza Manin (e riempite di sangue dai manganelli della polizia)? Dobbiamo parlare della crisi del 2008 e andare a risentire che cosa dicevano le Cassandre degli economisti “No Global”? La crescita esponenziale dell’economica cinese e il rischio che egemonizzasse il mercato ha dato una spallata ai trattati di Doha sulla globalizzazione che prevedevano la più totale libertà dei commerci e miravano a Stati completamente in mano ai privati se non per giustizia e forze dell’ordine. Il Covid ha mostrato l’imprescindibile necessità di una forte presenza pubblica nella sanità. Le disparità tra i più ricchi e i più poveri, mostruose nel 2001, sono diventate grottesche oggi. La Tobin tax che prevede la tassazione dell’uno per mille delle transizioni finanziarie non sembra più così peregrina e oggi si sta finalmente ragionando su come imporre una tassa ai colossi del web. Lo sfascio del mondo del lavoro ha proseguito la sua corsa e oggi ancora ci ritroviamo a indignarci per braccianti che muoiono di fatica in Italia per tre euro l’ora, mentre le maquilladoras messicane e centro americane continuano a sfruttare a pieno regime. Le politiche restrittive sull’immigrazione registrano quotidianamente da sempre il proprio fallimento. Tralasciamo di ricordare le questioni ambientali discusse in quegli anni, tanto è sotto gli occhi di tutti che le grida di allarme e le idee del 2001 sono attuali oggi e prese in considerazione dai più importanti governi mondiali. Ora più che allora, o almeno ora con più evidenza e in modo più diffuso, è chiaro che tutti questi aspetto sono interconnessi e legati tra loro che si tratti di Amazon, dei contadini boliviani, del consumo di suolo, delle politiche agricole, dell’inutilità della guerra, della ridistribuzione delle ricchezze, di Wall Street come del trasporto delle merci… Sono i temi del Social Forum di quegli anni.
Profetico quel movimento lo è stato non solo perché ha previsto, ma perché ha indicato strade, proposte, alternative, idee concrete e possibili che oggi iniziano, seppur timidamente e tardivamente, a fare capolino nella agende mondiali: ma come diceva il poeta “bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà”. Non so quante altre manifestazioni di protesta di popolo siano state più preparate, colte, propositive, utili, concrete. Sono stati coinvolti e ascoltati esperti scientifici ai più alti livelli, lo studio, l’analisi, la progettualità hanno dettato la via all’ideologia e non viceversa. Susan George, scrisse: “È il primo movimento di massa della storia che non chiede nulla per sé, ma vuole giustizia per il mondo intero”. 20 anni di Genova siano allora sì l’occasione per radicare il mito che è necessario per non dimenticare e per cementare un blocco comune di senso che ci permetta di dire: “mai più”, ma sia anche lo stimolo per riprendere quei temi e quelle parole. Dove è finita quell’energia? Dove quelle persone? Le questioni sono tutte ancora sul tavolo, chi ha la forza per riprenderle, o per prenderle da capo con i modi, i tempi, i riti del nostro tempo? Dobbiamo rassegnarci alla piattezza di un mondo senza conflitti e ripiegato sui soli diritti individuali che può permettersi la parte più ricca della popolazione mondiale? I volti di oggi hanno il marchio della rassegnazione, dell’individualismo, del solipsismo da social, dell’indifferenza, ma forse pian piano bisogna iniziare a chiedersi se un’altra Genova non sia possibile, non la Genova dei manganelli, dei limoni, dei fumogeni, del dolore e del sangue, o delle assurde pretese di violare manu militari qualche zona rossa, ma quella delle idee, delle proposte, della vitalità, della voglia e del bisogno di avere un nuovo pensiero globale, fatto di questioni e diritti universali, un vero e nuovo pensiero global che contrasti almeno un poco l’inerzia di un mondo che rotola verso l’abisso.