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Finanza etica: come evitare green, social e ethical washing

1 Giugno 2022
Laura Prota Peru Sasia

Incontro con Laura Prota

Di fronte alla crescente e diffusa presa di coscienza delle responsabilità del settore finanziario nel co-generare e ampliare gli effetti delle crisi globali, particolarmente a svantaggio dei più deboli, è sempre più urgente operare una svolta verso una vera finanza etica e sostenibile. I segnali sembrano incoraggianti. Dopo la crisi finanziaria del 2008, le banche etiche e sostenibili hanno superato di gran lunga i risultati del sistema bancario europeo in termini di redditività, volatilità, crescita dei crediti alla clientela e del patrimonio netto. Le stesse istituzioni europee sembrano riconoscere la finanza etica e sostenibile come modello da sostenere e tutelare. La Commissione europea ha emanato nel marzo 2018 un “Piano d’azione per la finanza sostenibile” che ha lo scopo di riorientare il capitale privato verso obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale di lungo periodo, prima di tutto in supporto al Green Deal. Il piano prevede delle linee-guida per la pubblicazione di informazioni sugli impatti sul clima e sulla rendicontazione e trasparenza in materia ambientale, una classificazione armonizzata (tassonomia) delle attività sostenibili, e nuovi standard per i green bonds.

Va tutto bene, quindi? Non proprio, secondo la Federazione europea delle banche etiche e alternative (Febea, di cui è membro anche Banca Etica). Pur riconoscendo l’importanza del percorso europeo, nel giugno del 2021 Febea ha pubblicato un position paper sul Piano d’azione Ue con otto proposte per una “vera finanza sostenibile che combatta il cambiamento climatico e l’inuguaglianza”. Quali sono gli elementi fondanti della “vera” finanza etica e sostenibile, e come evitare che lo sforzo di regolamentazione europeo apra la strada a operazioni di “green, ethical e social washing” da parte dei grandi operatori finanziari globali?

Ne abbiamo parlato con Pedro “Peru” Sasia, presidente di Febea e vicepresidente del Consiglio di amministrazione di Banca Etica. Peru viene da una famiglia di tecnici e ingegneri. Inizialmente interessato a capire “come funziona il mondo in termini meccanici”, dopo un dottorato in chimica delle macromolecole lavora per vari anni come manager e direttore di ricerca in grandi aziende globali fra le quali Dow Chemicals che – come ci ricorda lui stesso – fu il principale fornitore di napalm durante la guerra del Vietnam. Nel tempo gli diventa sempre più chiaro che l’economia permea tutto ed è necessario “guardare all’economia” per capire fenomeni apparentemente diversi come lo sport, le guerre, la cultura. La sua ricerca evolve combinando entrambe le prospettive per chiedersi non solo come funziona il mondo, ma anche “cosa è bene, cosa è male, e perché”: i fondamenti dell’etica. Oggi è professore e ricercatore del Centro di etica applicata dell’università di Deusto (Bilbao) e autore di numerosi libri e articoli sull’etica economica, l’economia solidale e l’etica delle organizzazioni. Presentiamo di seguito un sunto dell’intervista (L.P.)

La forza della finanza etica e sostenibile è la creazione di valore come risposta innovativa ai bisogni concreti di una società sempre più complessa. Il nostro settore si propone di mobilitare il risparmio privato per finanziare e accelerare la transizione verso una società ecologicamente sostenibile e socialmente inclusiva. Questi obiettivi sono raggiunti investendo in economie virtuose volte a creare valore più che a generare profitti.

Il “Quarto rapporto sulla finanzia etica e sostenibile in Europa” di Fondazione Finanza Etica evidenzia le differenze strutturali tra la finanza etica e il settore finanziario convenzionale. Le banche etiche raccolgono liquidità principalmente attraverso i depositi dei risparmiatori (73, 2% dei debiti) per poi reinvestirla nell’economia reale concedendo crediti alle aziende (76,4% dei crediti). Questo meccanismo è molto diverso dall’intermediazione che caratterizza le banche convenzionali.

La deregolamentazione dei mercati finanziari degli anni Novanta ha permesso alle banche di generare profitti tramite speculazioni sempre più rischiose che sono poi state pagate a caro prezzo dall’intera società, soprattutto dai più poveri che hanno perso tutto nella crisi finanziaria del 2008-2009. Proprio la crisi finanziaria ha spinto le istituzioni europee a cambiare le regole per favorire una maggiore “biodiversità” nel settore finanziario. Le piccole casse rurali, le banche cooperative, le banche etiche rappresentano una parte importante di questa biodiversità, contribuendo a stabilizzare il complesso del sistema finanziario.

Per tornare al confronto, a più di dieci anni dalla crisi il settore bancario convenzionale investe in media solo il 39% dei crediti nell’economia reale, mentre il restante 61% va in strumenti finanziari complessi. Allo stesso modo, la liquidità non si fonda sui depositi, ma in larga parte (59%) su debiti interbancari e titoli di debito complessi. Il risultato è che i profitti delle banche convenzionali sono soggetti alla volatilità del mercato. Considerando una media di 10 anni, le banche etiche hanno ottenuto risultati di gran lunga migliori; sia la redditività del capitale proprio (Roe) che la redditività dell’attivo (Roa) sono circa il doppio di quelli delle banche convenzionali. In pratica, investire nell’economia reale paga. In termini di crescita, il contrasto è ancora più netto: le banche etiche sono cresciute in media del 10% all’anno, mentre il settore convenzionale solo del 0.82%.

I risultati delle banche etiche non si basano su scommesse formulate applicando acriticamente modelli teorici. Sono invece il frutto di una conoscenza capillare delle aziende, di studi approfonditi di settore e di un rapporto personale e duraturo con le persone e le comunità su cui investiamo. Conoscere il settore non significa solo saper leggere i dati e gli indicatori di performance. Ovviamente queste analisi sono la base; ma in più, noi conosciamo da vicino le aziende, i processi e le comunità che costituiscono il tessuto vivo di quelle economie.

La forza della nostra crescita si basa, quindi, sul significato più proprio del principio del credito: ti conosco, ho fiducia in te, quindi ti offro il mio supporto. L’intermediario finanziario non è una parte terza, distante e impersonale, interessata solo a massimizzare le sue commissioni e il profitto degli shareholders. L’intermediario deve invece attivamente favorire l’incontro tra i portatori di valore (value holders), ovvero coloro che creano valore e benessere nella comunità attraverso i loro progetti, e i portatori di interesse (stakeholders) ovvero coloro che sono interessati a essere coinvolti nella realizzazione di queste idee imprenditoriali innovative perché rispondono ai bisogni concreti che loro sentono.

Il successo del nostro approccio ha attratto grande interesse sia istituzionale che di mercato. A livello istituzionale, la Commissione Ue ha adottato nel 2018 un Piano d’azione per la finanza sostenibile cui hanno fatto seguito i primi regolamenti attuativi: il Regolamento Ue 2019/2088 sull’informativa di sostenibilità dei servizi finanziari, e il Regolamento Ue 2020/852 sull’istituzione di un quadro che favorisca gli investimenti sostenibili (la “tassonomia”). Molto rilevante è anche il Social Economy Action Plan adottato dalla Commissione nel 2021, che riconosce il ruolo fondamentale dell’economia sociale nel favorire la transizione verso modelli economici più equi, sostenibili e resilienti. Il Piano sottolinea l’importanza e l’esperienza della finanza etica nel supportare l’economia sociale, nel quale infatti si concentra gran parte delle nostre iniziative.

Ancora 10 anni fa, pochi nelle istituzioni Ue sapevano cosa fossero l’economia sociale o la finanza etica; oggi, figure di alto profilo come Nicolas Schmit, Commissario per il lavoro e i diritti sociali, vi fanno spesso riferimento. Sono passi enormi verso una maggiore rilevanza e legittimità della finanza etica in Europa. Il processo Ue ha sicuramente alcuni punti di forza, se non altro perché riconosce il bisogno di sostenere anche politicamente la finanza etica come principio leva per tutto il comparto del credito in quanto, senza una attiva mobilitazione del risparmio privato, la crisi ambientale ed economica non potrà essere affrontata. Ancora prima del Covid-19, l’Oecd stimava la carenza di finanziamenti per raggiungere i Sustainable Development Goals a 2.500 miliardi di dollari l’anno solo per i paesi in via di sviluppo. Come notato da un vice-presidente della World Bank durante un convegno nella mia università, il capitale privato non è interessato a investire negli Sdg perché può ottenere profitti maggiori in altri settori.

Queste tendenze potranno cambiare solo cambiando il quadro istituzionale a livello europeo. Siamo stati coinvolti nel processo di regolamentazione e alcune delle nostre richieste sono state recepite. Da parte del mercato, si stanno però moltiplicando i tentativi di diluire la portata di tali cambiamenti, confondendo il risparmiatore con prodotti che servono solo ad allinearsi alle nuove regole senza cambiare fondamentalmente approccio. In questa fase, occorre quindi fare attenzione ai potenziali rischi non solo di greenwashing, ma anche di ethical and social washing.

Il position paper di Febea evidenza otto punti da considerare per evitare tali rischi; voglio soffermarmi su tre punti cruciali. Il primo è la necessità di valutare il comportamento complessivo di un’organizzazione e non il singolo prodotto. Anche se oggi quasi tutte le banche offrono prodotti “etici”, questi rappresentano in molti casi neanche l’uno percento del portafoglio complessivo. Chiediamo che si adotti un principio olistico, secondo il quale una banca etica deve esserlo coerentemente in tutte le sue operazioni. Oltre a definire le attività che “non arrecano danno”, occorre identificare le attività non compatibili con la natura etica di una banca per evitare un approccio compensativo secondo il quale si possono piantare alberi per bilanciare gli investimenti fatti per riaprire una miniera di carbone. L’approccio da noi proposto è più vicino a quello adottato in Italia con l’articolo 111 bis del Testo unico bancario, che considera il comportamento complessivo dell’istituzione e non il singolo prodotto. In Italia, per essere classificati come banche etiche e sostenibili, occorre devolvere almeno il 20% del portafoglio crediti a imprese sociali o non a scopo di lucro; avevamo chiesto il 100%, ma il legislatore ha potuto ottenere solo questo.

Il secondo punto è il rapporto con le comunità. Le banche etiche sono organizzazioni profondamente radicate sul territorio. Nate come banche di comunità locali molto piccole, le banche etiche sono presto divenute realtà nazionali in molti paesi europei. Oggi essere vicino alle comunità non significa essere geograficamente vicini; i servizi online permettono di accedere ai servizi ovunque. Piuttosto, significa mantenere una relazione personale e diretta con i nostri membri attraverso reti sociali consolidate. La nostra è una comunità di intenti più che una comunità geografica. Un chiaro esempio di questo legame è la collaborazione che abbiamo instaurato con le reti dell’economia sociale in tutt’Europa.

Il terzo punto è la governance, ovvero le regole che stabiliscono come vengono prese le decisioni. Il modello di governance etico promosso dal neoliberismo è quello della responsabilità sociale d’impresa, secondo il quale le organizzazioni possono decidere volontariamente di devolvere parte dei profitti a iniziative ambientali o sociali. La decisione resta, tuttavia, nelle mani del management e la durata dell’intervento è generalmente breve. Così, quando il ciclo economico è espansivo, i progetti di responsabilità sociali sono finanziati; ma proprio quando arriva la recessione e le comunità avrebbero più bisogno di supporto, i progetti finiscono. Il profitto aziendale resta l’obiettivo primario da tutelare.

Al contrario, in Banca Etica il processo attraverso cui si decide dove e per cosa investire si articola su due linee di valutazione complementari e fra loro indipendenti. La prima è il “risk appetite framework” (Raf) richiesto dalla banca centrale per tutte le istituzioni finanziarie, che prevede la valutazione dei rischi e delle misure di mitigazione in base ad alcuni indicatori tecnici. Questa valutazione è fatta da tecnici formati e ha lo scopo di minimizzare i rischi il più possibile. Ecco perché generalmente le banche convenzionali non finanziano operazioni di lungo periodo con una alta componente di innovazione sociale.

Oltre al Raf le decisioni di Banca Etica sono guidate da una seconda linea che noi chiamiamo l’“impact appetite framework” (Iaf), ovvero la valutazione degli obiettivi e impatti che vogliamo ottenere: creazione di lavoro, riduzione delle emissioni di carbonio, inclusione di genere, etc. Lo Iaf è formulato sulla base dei dati ricevuti dai membri volontari di Banca Etica esterni alle strutture operative dell’organizzazione; sono membri specializzati e formati nelle valutazioni sociali e ambientali. Ogni tre mesi il nostro Consiglio di amministrazione riceve i risultati ottenuti sugli indicatori di performance (Kpi) associati allo Iaf, che aiutano a guidare i nostri investimenti considerando non solo la minimizzazione dei rischi ma anche la massimizzazione dell’impatto sociale ed ecologico.

Nel profondo, la differenza tra il Raf e lo Iaf riflette la distinzione tra una “etica dei minimi” e una “etica dei massimi”, tra deontologia e la teleologia della finanza etica. L’approccio “non arrecare danno” ha caratterizzato la prima generazione della finanza etica: siamo etici perché non investiamo in attività collegate alla guerra, al tabacco e così via. Ciò equivaleva a un’etica dei minimi, incentrata sulle basi di ciò che tutti obbligatoriamente dovremmo fare per poterci considerarci etici, ovvero la deontologia della finanza etica. Ben presto abbiamo capito che bisognava andare oltre, chiarendoci quale impatto volevamo ottenere per costruire una società migliore. Questo ragionamento porta a interrogarsi sulle virtù, sulla felicità – in essenza, sulla teleologia della finanza etica, su ciò che vogliamo ottenere per produrre cambiamenti sociali positivi, oltre che sulle linee rosse che non possiamo oltrepassare per evitare impatti negativi.

Per operare un vero cambiamento sociale, le banche etiche devono quindi contribuire a un cambiamento culturale e alla diffusione di un nuovo modo di approcciare le decisioni economiche. Tornando al quadro normativo Ue, è chiaro che quando ci sono grandi capitali in ballo è facile che ci si attivi una forte opera di lobbying e quindi di negoziazione tra interessi contrapposti, piuttosto che un processo di deliberazione etica. Gli obiettivi etici restano pertanto in secondo piano. Il problema è che anche i politici sono soggetti all’influenza di modelli economici ormai palesemente sbagliati, fondati su dogmi derivati da nozioni meccaniciste superate.

Mi sorprende che ancora oggi nelle università si insegni che il mercato lasciato libero di operare senza regole sia il modo migliore di organizzare l’economia. Per superare il paradigma neoliberale, occorre un forte sforzo culturale a livello dell’intera società. Di fronte alle sfide che il nostro tempo ci impone, non possiamo continuare a fondare le scelte collettive su modelli economici dogmatici e obsoleti; considerare gli effetti extra-economici delle decisioni economiche è un passo fondamentale verso un’etica della responsabilità e della sostenibilità. Bisogna ripensare i modelli economici partendo dalle evidenze raccolte dai sociologi, dagli antropologi, dai filosofi, dagli psicologi, dai fisici in un’ottica realmente umanistica e multidisciplinare.

Per approfondire come funziona la finanza etica in pratica rimandiamo a Fondazione Finanza Etica, Case Studies Febea in Pandemics


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