Femminile popolare nell’Italia di oggi
di Fulvia Antonelli

Christa Wolf nel suo libro Cassandra parla della condanna della profetessa Cassandra a non essere mai creduta a causa del suo rifiuto di concedersi al dio Apollo e degli eventi che precedono la disfatta di Troia.
Cassandra è una donna divisa tra il peso di un ruolo di potere e prestigio nella comunità dei troiani da lei fortemente desiderato – il potere della veggenza – e la frustrazione per la sua condizione – l’essere considerata folle e per questo isolata dalla comunità. L’aver rinunciato all’amore e a una vita più libera dal tormento della veggenza, trasformata dalla Wolf in una forma di coscienza ed autocoscienza che non lascia scampo agli inganni che servono ai troiani a vivere dentro uno stato di guerra permanente, rendono Cassandra una donna che si interroga sul destino delle donne e sulla loro subalternità dentro una società maschile segnata dalla guerra, dalla violenza e dall’aspetto illusorio dei suoi valori eroici. Cassandra osserva affascinata le rabbiose Amazzoni guidate da Pentesilea, che si uniscono alla guerra dei troiani contro i greci in una disperata vendetta contro il maschile rappresentato da Achille e finiscono per soccombere fino a subire la violenza più oltraggiosa, lo stupro di Pentesilea in fin di vita da parte di Achille “la bestia”. Invidia e disprezza invece la sorella Polissena, Elena e le donne che della bellezza e della seduzione hanno fatto un’arma, ma sono rimaste ingenuamente vittime anch’esse del gioco maschile della guerra.
Comprende infine che l’unica via di salvezza è fuori dal palazzo di suo padre, il re Priamo, e dalle sue trame, e dentro il margine delle comunità femminili segrete nelle grotte del fiume Scamandro, dove un gruppo di donne dissidenti rifiutano l’ethos eroico e si dedicano alla costruzione di una comunità fondata sulla pace, sulla vita semplice, lontana dagli incubi del potere e della guerra.
Chi lavora nel sociale, con le donne e le ragazze in particolare, può sentirsi a volte condannato come Cassandra a osservare l’incessante prodursi e riprodursi, dentro le biografie delle persone, di destini che sembrano compiersi senza che l’intervento sociale possa opporvi alternative. E dentro queste biografie femminili ci sono la violenza, l’onore, la famiglia, la sottomissione e la ribellione tragica e individuale, ci sono le Pentesilea, le Polissena, gli Achille, c’è il fanatismo dei troiani a condurre un conflitto senza motivazioni ideali e la brutalità dei guerrieri greci. Queste ultime comunità contrapposte in cui il furto, il rapimento, lo stupro e la schiavitù delle donne, l’inganno, un infantile senso dell’onore, un senso del valore maschile costruito sulla capacità di infliggere dolore e di scempiare i corpi, sono gli indicibili motori di ogni azione.
Christa Wolf descrive la violenza strutturale che dà forma al mondo e struttura i soggetti – maschili e femminili – che lo abitano. In questo mondo di violenza Cassandra vede il tragico avverarsi dei suoi presagi di sventura che rendono lei stessa – nel suo vaticinarli – maledetta agli occhi degli altri.
E la violenza strutturale – quella che nasce dalle condizioni di disuguaglianza sistemica – è anche il piano all’interno del quale si muove l’intervento sociale, stretto fra la riproduzione di logiche che dal welfare al mercato non fanno che alienare la persona riducendola in parti o lasciando proliferare le sue identità, e un tentativo di trovare scampo alle profezie che si autoavverano che hanno l’incisività di un lenitivo e che non hanno quindi la forza di costruire comunità alternative.
Un esempio di come agisce la mercantilizzazione nel campo del welfare è il paradosso delle identità multiple spesso legate al catalogo di quello che il soggetto non possiede o che possiede in una maniera ritenuta insufficiente. Quando a scuola un educatore lavora con un ragazzo in difficoltà deve sapere se è italiano o di origine straniera. Se è straniero potrebbe essere “di seconda generazione” oppure un Nai – Neo arrivati in Italia. Se è di seconda generazione sarà opportuno capire se possiede la cittadinanza italiana o se non la possiede, perché questo differenzia non solo il suo status giuridico ma anche il modo attraverso cui un insegnante o un educatore interpreta le motivazioni delle sue azioni o difficoltà le strategie familiari in cui è inserito. Inoltre se è di origine straniera e senza cittadinanza potrebbe essere un minore straniero non accompagnato Msna e, a seconda della sua provenienza e delle sue modalità di arrivo in Italia, potrebbe essere contemporaneamente anche un richiedente asilo. In questo ultimo caso il ragazzo potrebbe essere collocato in una comunità per minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo o protezione internazionale appartenente al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati Sprar e non in una ‘normale’ comunità minorile. Nel primo caso lavorano con il minore soprattutto gli educatori, nel secondo caso prevalentemente operatori dell’accoglienza: due tipi di lavoratori sociali con formazioni diverse e concezioni spesso diverse del proprio ruolo, così come con una diversa presenza e appartenenza al territorio e alla struttura dei servizi nel suo complesso.
Oltre a queste caratteristiche un operatore che lavora con un ragazzo in difficoltà dentro la scuola deve anche sapere se il ragazzo possiede qualche tipo di certificazione – handicap H – o etichetta – disturbo specifico dell’apprendimento Dsa o Bisogno educativo speciale Bes – e sapersi quindi districare nella giungla di quello che con il ragazzo è possibile o non è possibile fare, in quali condizioni e con quali figure specialistiche a lui dedicate bisogna relazionarsi nella scuola – insegnante di sostegno, funzione strumentale agio/disagio o dispersione scolastica, psicologo, gruppo operativo, neuropsichiatra, etc. Senza considerare che, nella scuola, nella categoria dei Bes sono ricompresi gli alunni con disabilità (H), gli alunni con disturbi evolutivi specifici (Dsa ovvero dislessia, disprassia, discalculia, disgrafia, disortografia), gli alunni con Adhd, disturbo da deficit di attenzione/iperattività che possono essere certificati – e quindi avere un sostegno – oppure no.
A ogni frammento dell’identità che viene trattato all’interno dei servizi di welfare corrisponde un segmento operativo di intervento, professionisti e professionalità specializzati nell’operare con tali frammenti, un tipo di inquadramento lavorativo dei professionisti e un repertorio di pratiche e di ethos di interventi differenti.
Chi lavora nel sociale finisce per essere “parlato” dalle categorie che sembrano dirci la verità sui soggetti. Siamo collusi con tale linguaggio, con le tassonomie e classificazioni che producono e riproducono il mondo sociale – e le sue gerarchie – così come è, con gli effetti di realtà che queste creano nella vita reale delle persone.
Per le ragazze e le donne in condizioni di esclusione socioeconomica le categorie – e i copioni esistenziali che esse implicano – si costruiscono passo passo, dall’adolescenza alla vita adulta, dentro la relazione fra le persone, le loro condizioni di vita e le situazioni di povertà e violenza alle quali sono esposte. Potremmo dire che l’esclusione non è che la lenta incorporazione della violenza strutturale – in termini di malattia fisica e psichica, di abitudine all’assoggettamento – sperimentata nelle loro biografie e degli immaginari sociali di sé – la donna incapace, la madre inadeguata, la donna moralmente squalificata – che introiettano lungo il corso della loro relazione con i servizi e con le istituzioni, quando queste ultime agiscono ingabbiando le possibilità di azioni delle persone piuttosto che liberarle. Quando la condizione femminile si compone con specifiche condizioni di esclusione e marginalità e si impiglia nelle maglie dei servizi sociali, si producono situazioni dove sono sempre il corpo delle donne e la maternità a diventare spazi di conflitto e resistenza. E così la realtà della questione femminile per le classi popolari è quella delle gravidanze precoci, dell’accesso o il non accesso all’aborto, del ruolo subalterno della donna all’interno della famiglia – che riproduce nelle figlie e nei figli stili di rapporti e immaginari che lasciano poco spazio a modelli differenti -, di un lavoro inteso come merce e precario che incatena le donne agli scalini più dequalificati, meno organizzati e meno gratificanti del lavoro di cura o dei servizi.
Le traiettorie di vita dei ragazzi problematici, esclusi dalla scuola e alle prese con esperienze di devianza in età minorile generano nello spazio pubblico allarme sociale, e quindi interventi di contenimento e correzione (la denuncia, il carcere, il collocamento in una comunità). Queste stesse biografie hanno però in sé delle possibilità di ricomposizione dell’equilibrio, per quanto precario: per molti ragazzi che ho incontrato un percorso di istruzione professionale di recupero ai mancati anni scolastici, un lavoro magari dequalificato nella logistica ma in cui è possibile costruirsi spazi di lotta e identità collettive, un contratto di lavoro che consente di accedere a un permesso di soggiorno, qualche spazio di realizzazione di sé nel formare una famiglia e nel coltivare le proprie passioni. Nella vita delle ragazze invece quello che più spesso ho osservato come testimone inerte sono state relazioni sentimentali distruttive e improntate a una violenza maschile di cui le donne diventano dipendenti sin da giovanissime, mentre chiamano amore l’annullamento di sé; gravidanze inconsapevoli che interrotte provocano stigma, vergogna e senso di colpa, e quando non interrotte portano con sé abbandoni, sofferenze inflitte ai figli o traumatiche sottrazioni di minori che creano voragini affettive insanabili; una patologizzazione del proprio corpo, dove emergono le sofferenze interiori e psichiche, attraverso l’abuso di farmaci di uso comune – antidolorifici, anestetici – utilizzati per il mal di testa costante, gli effetti delle mestruazioni, le fatiche della gravidanza, il peso della cura degli altri; un lavoro che è sempre una forma di sopravvivenza, sufficiente a integrare il sussidio sociale più che un vero e proprio salario. Tutte esperienze, quelle delle donne, che rimangono private, individuali e invisibili.
C’è uno specifico della sofferenza femminile dentro i mondi dell’esclusione sociale. Modi di soffrire e modi di reagire, di farsi del male, di introiettare la sconfitta e di ribellarsi a essa diversi da quegli degli uomini e diversi fra le donne stesse. Le donne reagiscono in modo obliquo allo stigma che portano con sé le categorie sociali attraverso le quali diventano visibili ai servizi di welfare sociale, sottraendosi all’azione e alla relazione con la scuola, i servizi, gli educatori, difendendo il proprio ruolo materno e barricando la propria casa all’intrusione esterna, fingendo di non capire o rifiutando di apprendere la nuova lingua se straniere. Altre volte la loro resistenza alle forme di controllo che i servizi attuano su di loro attraverso l’aiuto assistenziale diventa aggressiva, isterica, un litigio continuo, e le assistenti sociali – le donne altre da loro per classe sociale, istruzione, cultura, estetica – diventano il bersaglio di una accesa contesa femminile, quasi una rivalità, che permette a tutte di non pensare agli elementi politici e di potere implicati nella relazione assistente-assistita.
C’è però anche uno specifico della forza femminile dentro i mondi dell’esclusione sociale che le categorie attraverso le quali come operatori guardiamo al mondo ci impediscono di vedere. Così come le categorie attraverso le quali come attiviste pensiamo la politica ci impediscono di leggere l’esperienza di queste altre donne, che non occupano lo spazio pubblico in modo organizzato e che conducono in solitudine le loro battaglie – quella per la casa, per l’unità delle loro famiglie, per il diritto alla salute, per un lavoro meno simile alla servitù.
Questa forza femminile ha a che fare con la capacità di stare in relazione, di stringere solidarietà e reti di mutuo appoggio, di rendere il proprio quotidiano e la disuguaglianza subita uno spazio di antagonismo attraverso micropratiche di conflitto con le istituzioni a loro più prossime. Tale forza si osserva nei sistemi di mutuo aiuto economico e sociale che le donne mettono in pratica fra di loro, ad esempio nel porto sicuro a cui ritornare rappresentato dalle case delle madri e delle nonne, nel ricorrente affidamento dei bambini alle nonne in una maternità sociale che travalica i confini della riproduzione biologica, nelle amiche che assistono le donne più anziane nella quotidianità dei rapporti di vicinato. Nella capacità di risparmio, riutilizzo e trasformazione di materie semplici, quanti pranzi messi insieme con pochi ingredienti, i meno costosi. Nel considerare il tempo dedicato a se stesse un tempo da passare con altre donne, nel saper fare più insieme che da sole, nel saper proteggere i propri figli dalla sofferenza da loro sperimentata, attraverso la trasmissione, attraverso l’amore e la cura, di un senso di dignità e di rispetto di sé.
In un mondo del welfare sociale dominato dalle donne in termini di operatrici che lavorano nei servizi e di persone che più frequentemente a loro si rivolgono, le visioni che ispirano questo incontro sono però tutte di stampo patriarcale: tese cioè a vedere le donne come manchevoli di risorse personali e soggettive e quindi vulnerabili, da rendere oggetto di “empowerment”, piuttosto che come persone che vivono specifiche dimensioni di genere della divisione di classe.
Le comunità dissidenti sulle rive del fiume Scamandro non sono facili da creare, hanno bisogno di tempo, spazio e conoscenza reciproca al di fuori del ruolo, delle categorie, del potere.
Cassandra conclude il suo monologo – in cui analizza se stessa e la società dentro le dinamiche di potere, violenza e destino, dicendo: “Termino qui, impotente, e niente, niente di quello che avrei potuto fare o non fare, volere o pensare, mi avrebbe condotto a una meta diversa”.
Riconosce però che le scelte sono possibili: “Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere”, cioè cambiare noi e il mondo insieme.
Da leggere
Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro, Crimini di pace: ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi 1975.
Johan Galtung, “Violence, Peace, and Peace Research” Journal of Peace Research, Vol. 6, No. 3 (1969), pp. 167–191.
Christa Wolf, Cassandra, e/o 1984.
Bell Hooks, Elogio del margine, Feltrinelli 1998.