Fachinelli grottesco
I. Appena laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì nel 1953 a Milano, dove lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia così descritta quasi mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora giornalista del quotidiano socialista L’Avanti!:
Il ritrovo dove ci si vedeva più spesso era la trattoria di Poldo, in via Borgospesso, dove costituivamo un gruppetto abbastanza fisso e piuttosto affiatato: c’era e c’è il mio Virgilio, Luciano Amodio, guida assatanata e indistruttibile, non solo di me medesimo (per lui conobbi i Solmi, Vittorini, Fortini, Basso, Chiara Robertazzi, le tre sorelle Bortolotti, Giancarlo Majorino, Michele Ranchetti, Ettore Capriolo, Sergio Caprioglio che se n’è andato appena un mese fa, Antonino Tullier fra Dada e surrealismo, scomparso già da molto tempo) ma di tutta la giovanissima intellighenzia milanese in quegli anni, almeno così a me pareva allora e ne sono convinto ancora, e c’era Elvio Fachinelli, che non c’è più da troppo tempo.
In un dibattito riportato su «Il Tempo» del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
era sorta l’idea di fare una rivista, che si chiamasse «Borgospesso», perché mangiavamo tutti in via Borgospesso. C’erano Elio Pagliarani, Gianni Bosio, Amodio, Giuseppe Bartolucci e tanti altri. E c’era, telefonato, Fortini. Verso l’ora del profiterol infatti arrivava un cameriere, chiamando Amodio al telefono. Grande irritazione di tutti, sia verso Amodio, che era il prescelto, che con Fortini, che telefonava per «dare la linea», per farci sapere cosa andava, e cosa no.
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
In una saletta, davanti a una decina di ricchi, Fortini dice: «Per anni, siamo vissuti di discussioni». Muove le mani a semicerchio, a cabrata lenta d’aereo, sott’occhi d’incantamento – la rivoluzione del costruttivismo rimane nei gesti.
II. Entriamo nella seconda metà degli anni Cinquanta: nel mondo, crisi del modello sovietico dopo la morte di Stalin e rivolta d’Ungheria; in Italia, inizio del boom economico con Milano apripista. E nel nostro gruppetto di area socialista, due ali che si divaricheranno col tempo sempre più, per forma mentis ancor prima che per idee politiche: Fortini e Amodio da un lato, Pagliarani e Majorino dall’altro.
Coetanei questi ultimi di Fachinelli, poeti d’avanguardia entrambi con interessi sociali preminenti: Majorino esordì nel 1959 per l’editore Arturo Schwarz con La capitale del Nord, un poemetto sulla Milano industriale; Pagliarani si affermò nel 1960 su «Il Menabò» di Vittorini con La ragazza Carla, poemetto che ha a protagonista una dattilografa milanese.
Pagliarani aveva iniziato a comporlo nel 1954, e l’idea primigenia era stata di farne un soggetto cinematografico da presentare a Zavattini e De Sica.
In quello stesso anno Fachinelli iniziò come inviato speciale al Festival di Venezia una collaborazione a «Cinema nuovo», rivista di area marxista che si batteva per un rinnovamento critico del neorealismo; e sempre nel 1954 pubblicò sotto pseudonimo in vari settimanali racconti brevi di vita moderna che sono interpretabili a tutti gli effetti come soggetti cinematografici.
Interessante infine, sempre a proposito di Pagliarani, l’esergo dubitativo che l’autore pose alla riedizione mondadoriana del 1962 de La ragazza Carla e altre poesie:
Un amico psichiatra mi riferisce di una giovane impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino al lunedì. Ha un senso dedicare a quella ragazza questa «Ragazza Carla»?
L’amico è Fachinelli, e l’aneddoto è perfettamente in linea con quelli riportati qui in Grottesche, come il lettore avrà modo di constatare.
III. In effetti il 1962 fu un anno decisivo per Fachinelli: neospecializzato in neuropsichiatria, inizia a lavorare sotto la direzione di Gaddo Treves alla casa di cura «Villa Turro». Enzo Morpurgo, psichiatra e psicanalista amico di entrambi, così descrive quel particolare rapporto lavorativo:
Elvio ebbe come grande amico e maestro Gaddo Treves […] un uomo che portava nel suo lavoro di psichiatra una vitalità e una generosità straordinarie, unite alla passione politica di sinistra e a un grande senso dell’umorismo. Ebbene, Elvio fu allievo di Gaddo e lavorò lungamente a Villa Turro con lui e con Franco Fornari. Villa Turro era una clinica privata per le malattie mentali, molto avanzata per i tempi, come apertura all’approccio psicodinamico. Elvio a Villa Turro si occupò tra l’altro di terapia dell’anoressia nervosa.
Quando Gaddo morì, troppo presto, di malattia cardiaca, Elvio gli dedicò un necrologio che cominciava con le parole: «A Gaddo Treves, mio ironico maestro». Certamente l’ironia apparteneva più a Elvio, che era di temperamento controllato e distaccato, come si conviene a chi è ironico, che non a Gaddo che era passionale anche nella sua vis comica.
Ad accomunare i due fu pure la passione per il cinema, che spinse il più anziano a partecipare come esperto in materia al telequiz «Lascia o raddoppia?» oltreché a recitare, diretto da De Sica, nel film del 1961 Il giudizio universale.
Sempre nel 1962 Fachinelli inizia un’analisi didattica con lo psicanalista Cesare Musatti e in contemporanea traduce con la moglie Herma Trettl L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud.
Aprendosi al campo psicanalitico, avrà certo incrociato o ripreso Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito, due classici freudiani strettamente imparentati anche dal punto di vista formale, in quanto sono gli unici a presentare una serie nutrita di aneddoti gustosi – che in fondo è la struttura di Grottesche.
E un altro spunto può averlo fornito il Diario fenomenologico di Enzo Paci, uscito per Il Saggiatore verso la fine del 1961: ugualmente alieno da connotazioni strettamente private, rispetto al diario di Paci quello di Fachinelli, da cui provengono le Grottesche, si sarebbe tentati di chiamarlo un diario psicosociologico, nel cui primo quaderno a risaltare è il valore emblematico che singoli aneddoti assumono riguardo al passaggio epocale da una realtà agricola a una industriale – una fenomenologia del miracolo economico insomma, con un’attenzione particolare per le tensioni paradossali che esso immette nei costumi degli italiani.
IV. Sta di fatto che a metà 1963 Fachinelli inizia a redigere il suo diario a spron battuto, tant’è che a fine 1964 ha già collezionato circa duecento annotazioni.
Come vedrà il lettore dalle mie note al testo, le annotazioni hanno tutte una rispondenza reale, si riferiscono cioè a fatti realmente accaduti.
Da ciò la ricerca di uno stile piano, zavattiniano potremmo dire, che si avvale di metariferimenti al margine sporadici ma precisi: Baudelaire («Trouver la frénésie journalière»); Jules Renard («La creazione vera, cioè povera»); Montaigne («Je n’ay pas plus faict mon livre que mon livre m’a faict, livre consubstantiel à son autheur, d’une occupation propre, membre de ma vie»).
E decisivo comunque, come messa a punto stilistica, è un appunto sparso del 18 marzo 1964:
Nello scrivere: la spontaneità di se stesso, la chiarezza. L’una proporzionale all’altra. Il febbrile, l’ubriacatura: cioè come intendevo una volta lo scrivere. Era forzare se stesso; porsi dall’esterno rispetto a un compito, come fosse davanti, anziché, penso ora, interno, già fatto per così dire. Donde la tensione, la frase scolpita, e insieme lo schematismo, il ragionamento a fil di ferro, il ritmo ridondante. Essere come sono, accettarmi. Non il cipiglio, il freddo marmo (alla Fortini); non il poetico ultra-intelligente (alla Leonetti) oscuro-claudicante. Il discorso.
V. Il diario rallenta nel decennio 1965-74, ma non si arresta e anzi guadagna in qualità. Complice l’affinamento dell’approccio psicanalitico, la scelta dei fatti si orienta sul loro carattere paradossale, e ciò ha effetto sullo stile, che volge più decisamente all’aforisma, con una sensibilità particolare per la pointe.
Anche qui traspaiono abbastanza nette due sollecitazioni «estreme», proprie cioè di territori estranei alla letteratura canonica: da una parte la frequentazione di raccolte kōan della tradizione zen, da cui Fachinelli trascrive lietamente sorpreso; dall’altra la fonte inesauribile dell’infanzia.
Come noto, all’inizio degli anni Settanta Fachinelli fu tra gli animatori di un asilo nido autogestito, ma anche dopo fu sempre ricettivo agli echi che venivano dalla scuola primaria, come dimostra appunto una raccolta di temini delle elementari che comparve sul numero di marzo-aprile 1975 de «L’erba voglio» con titolo redazionale L’occhio storto – storto appunto, capace cioè di scoperchiare la realtà da un’angolatura eretica, come questi due «pensierini» di Lucia e Bernardo che riporto perché del tutto assonanti con gli aforismi di Grottesche:
Un sabato il maestro portò a scuola un disco su cui era incisa della musica di Beethoven e precisamente l’introduzione del Coriolano. Appena la ascoltammo, io dissi: «Signor maestro, ma quella è la musica dell’amaro Petrus».
Mio fratello si è arruolato in finanza e ora sta a Milano. Il lavoro di mio fratello si svolge nel laboratorio di medicina della Carlo Erba dove controlla la lavorazione dell’Eroina e della Morfina. Io quando mi farò grande mi arruolo anch’io perché mi piace essere armato di mitra e di pistole.
Per tutti gli anni Ottanta infine prende corpo nel diario una vena epigrammatica spesso e volentieri caustica, che prende a bersaglio la figura dell’intellettuale in tempo di riflusso.
VI. Verso la fine del 1985 Fachinelli riprende in mano i quaderni del diario e inizia a trascrivere gli aforismi più significativi lì contenuti in un nuovo quaderno recante a titolo Grottesche.
La scelta del titolo, a metà tra il letterale sostantivato delle decorazioni antico-romane e il metaforico aggettivato del genere letterario ottocentesco, si capisce da sé; ma è interessante notare come nel corpus freudiano la categoria di grottesco, pur così imparentata con l’altra fondamentale di unheimlich, sia del tutto assente.
Assai lunga, in ambito critico, la sfilza di sinonimi o limitrofi per circostanziarlo: il comico, il paradossale, il parodico, il caricaturale, il bizzarro, il macabro… o, a tentare una dinamica: quando il comico diviene inquietante, e il paradossale assurdo…
Ma vale forse restare all’instar omnium ovvero al dato bruto, riprendendo l’esempio segnalato da Pagliarani nel suo esergo: cosa rende grottesca la giovane impiegata? Prendere un sonnifero che la inchioda in catalessi al letto da sabato sera a lunedì mattina, ossia che annulla il tempo libero, di svago, del piacere. Grottesca è l’assenza totale del Lustprinzip, grottesco il dominio assoluto del principio di realtà, che riduce la ragazza a un automa. Il grottesco insomma è iperrealismo puro, realizzato (iperrealizzato, verrebbe da dire, se non rasentassimo così anche noi il grottesco), un raddoppiamento della realtà che è poi un altro modo per definire la ripetizione col suo Zwang.
Jean Paul, il primo e forse massimo teorico-pratico del grottesco, dette una definizione icastica del tema: «Antropoliti: uomini impietriti» .
Ma per tornare a Fachinelli: che in questo senso andasse anch’egli, lo possiamo desumere dal fatto che la categoria di grottesco gli si presenta a metà anni Ottanta in contemporanea con l’altra di estatico.
E pure questa seconda categoria fuoriesce dal dizionario freudiano, in direzione opposta al grottesco, quasi a formare due condizioni-limite dell’umano: da una parte l’iperrealtà orrida della pietra, dall’altra l’irrealtà sublime della brezza marina.
Dario Borso nel 2019 ha curato Grottesche di Elvio Fachinelli per la casa editrice ItaloSvevo.