Esercizi critici. Gli amici di Maria De Filippi
di Federica Lucchesini
Ha senso occuparsi degli effetti educativi di una trasmissione di Maria De Filippi oggi che la televisione è guardata sempre meno, sempre con meno attenzione dai ragazzini e dalle ragazzine? La musica, le serie, i reality si trovano sul web, su mille canali on demand e la cattura dell’attenzione e il reticolo formativo sono così estesi e compositi che parrebbe quasi di voler insistere contro un bersaglio facile e a suo modo ingenuo… Invece no, abbiamo voglia di insistere perché Amici e Uomini e donne sono ancora tra i programmi seguiti da ragazzini e ragazzine, perché se si domanda in una scuola media a chi piace Maria De Filippi, più di metà classe se ne dirà ammiratrice entusiasta. Lei è seria, professionale, è bravissima!
Uomini e donne va in onda da quasi quindici anni in un orario strategico, le due e mezza, immediato dopopranzo per chi esce da scuola verso le due e vuole riposarsi. Ovviamente dieci anni fa era più seguito, le ragazzine ma anche i maschi a scuola lo citavano, se ne parlava e oggi non è più così ma questo programma, così come Amici (il talent giovanile condotto sempre da MDF), continuano ad essere dei dispositivi di formazione, delle macchinette che attirano tempo, attenzione e immaginazione di molte e molti. Che lasciano tracce nel linguaggio e nell’immaginazione.
Ne vorremmo parlare e vorremmo farlo con serietà, senza la superiorità di chi vuole magnanimamente liberarsi della sua superiorità… Infatti questo è il modo in cui certa critica culturale – chi dovrebbe o potrebbe fare critica culturale – tende a trattare i fenomeni di intrattenimento di massa. Cioè facendo mostra di evitare la posizione high brow, sostenendo che sia un errore credere di svelare seriosamente gli effetti nocivi della povertà culturale e della corruzione morale dei programmi che piacciono ma che al contrario le ragioni di quel piacere siano da comprendere e magari da condividere, perché in esse vi è qualcosa di sano, di comune, di ordinario che ci fa stare tutti meglio, tutti uguali. Come se voler essere migliori, pretendere di essere migliori, fosse un peccato. Come se criticare la spazzatura televisiva possa essere una colpa. Per capire cosa si intende basta leggere il lungo articolo dedicato proprio a Maria De Filippi da parte di Francesco Piccolo su Internazionale nel mese di marzo del 2015. Tutto teso a dimostrare come lei “funzioni”, come sia brava, come sia in fondo la spocchia intellettuale a non lasciarci riconoscere che il piacere (?) dato dalla sua professionalità è lo stesso che si ricava dagli show americani guardati in tarda serata in lingua originale. Il bisogno di melò, di narrazione popolare che alcuni, più colti, cercano comunque nelle serie, ecco che i programmi di De Filippi te lo danno in italiano: così si sostiene sul settimanale più diffuso nelle case delle famiglie colte di sinistra. Il pezzo di Piccolo è tutta una critica non alla De Filippi e ai suoi format ma all’intellettualità, alla ragione che indica in quei programmi ciò che sono e cioè spreco di attenzione e manipolazione culturale. Viviamo un paese in cui la cultura critica, tradizionalmente di sinistra o marxista, è diventata una vergogna; in cui gli intellettuali borghesi amati dalla borghesia di sinistra si stanno smarcando dalla loro posizione in quanto davvero oramai platealmente insostenibile. Coloro che potevano e dovevano difendere le alternative e le possibilità collettive all’alternativa hanno tradito palesemente e incontestabilmente, cercando e ottenendo il meglio, l’alternativa, solo per sé e celebrando in prima persona il feroce egoismo iper -individualista che domina ciascuno nell’età dell’ultraconsumismo. Se ogni alternativa è fatica, conflitto e forse sangue; se la storia dimostra che il desiderio incantato di altro è male perché non si sa dove può portare; se fuori dalla fortezza la vita è crudele e la precarietà delle mura è alta; se tutti tradiscono e si rivelano egoisti… allora è meglio stare con piedi per terra, riconoscerci per come siamo, tutti uguali, tutti gli stessi, tutti un poco ladri o pantofolai o maschilisti e godere e possibilmente tacere. Questa cattiva coscienza si celebra oggi rinunciando a criticare e pensare.
Matteo Renzi è andato ad Amici di Maria De Filippi subito prima di diventare Presidente del Consiglio e a posteriori, per sostenere la sua scelta, ha detto così: «I giovani che seguono Amici non sono meno italiani dei radical chic che mi criticano. Io al contrario di certa sinistra voglio cambiare l’Italia e non gli italiani». In questa frase c’è tutta la tragedia della sinistra italiana non più popolare: gli italiani, cioè tutti, contro i radical chic, contro quelli che vogliono distinguersi nel privilegio. Dunque siamo tutti uguali e nessuno è meglio, nessuno può essere meglio: siamo questi e lo saremo ed è a noi, così come siamo, che spetta tutto, ogni comprensione ogni giustificazione.
Nel 2009 il lemma “tronista” entra nell’ultima edizione del vocabolario Zingarelli. La conduttrice, intervistata al proposito, dichiara: «A me il “tronista” non piace ma non sono meglio di lui». Non si può essere migliori pare dirci, non è giusto pensare di potere essere migliori. Maria De Filippi con la sua serietà, la sua professionalità, la sua misura è la garante di questa impossibilità, la guardiana della necessità giusta del conformismo. Lei che non mostra tette e gambe, lei che è equanime e intelligente, lei che tutto comprende, che tutto accoglie alla ribalta conferma nel conformismo perché non vi è nessun altro dove o come, né fuori né nella televisione. Perché la televisione siamo noi. La critica fondamentale a MDF, alla sua televisione, è di essere conformatrice, di essere funzione di un progetto di avvilimento morale e anestetizzazione intellettuale connaturato a questo ordine sociale e produttivo.
Perché i suoi programmi sono guardati ancora, nonostante l’aumento esponenziale dell’offerta su altri supporti? Perché un dodicenne o una tredicenne si interessano alle sue conduzioni? Amici e Uomini e donne funzionano come dispositivi formativi perché trattano di ciò che alla gioventù più preme: la gloria e l’amore. E poiché all’uscita dell’infanzia è il divenire uomo e donna e la contemplazione della possibilità effettiva, attuale, di vivere l’amore che si rivelano in modo dirompente, sarà soprattutto del programma pomeridiano dedicato al corteggiamento che si tratterà qui criticamente.
In Uomini e donne si mostra un ragazzo o una ragazza che siede su un trono, davanti a lei/lui una schiera di pretendenti tra cui scegliere. La/il “tronista” riceve doni, invita a uscite romantiche fuori dallo studio, domanda e rifiuta baci, accusa di menzogna o è accusata/o di superficialità mentre il pubblico funge da coro delle vicende e la De Filippi è giudice e testimone autorevole di tutto. In Uomini e donne si vedono civetteria, competizione, seduzione senza passione e arte, possesso, godimento senza desiderio. Si vedono pettegolezzi, fatuità, omologazione e povertà di linguaggio: si parla tanto ma mai del mondo, solo di sé e della gelosia. Non si sceglie qualcuno/a per la sua storia, per la sua visione originale; mai si ascoltano discorsi sulla situazione generale, una storia particolare, una scelta inconsueta, personale. La gelosia, che dell’amore è l’universale più immediato, quello su cui più sarebbero da costruire elaborazioni, trasformazioni, invenzioni è riproposta invece e coltivata nella sua immediatezza irriflessa, come massimo punto di identificazione comune. Cosa accade in questo programma tv? Che si neutralizza ciò che di creativo, rivoluzionario, formativo porta l’idea di amore alla giovinezza ed è di questo svendere i cervelli e la crescita spirituale, di questo disprezzo per una sentimento incantato e desiderante del mondo che si fa una colpa a tali prodotti.
Sappiamo che l’amore non esiste al di fuori di certe pratiche discorsive: sono innamorata perché lo dico, sono innamorata come lo racconto. L’ha spiegato definitivamente Roland Barthes. Amiamo e diamo forma al nostro amore all’interno di codici e di linguaggi, in una trama di figure riflesse negli specchi narrativi della propria cultura. Si ama attraverso le canzoni, i film, le favole e dunque la complessità e la ricchezza – piuttosto che la banalità e la piattezza, – di queste figure. Esse danno profondità e articolazione a un sentimento che non è altrove rispetto ai discorsi. Il “tronista”, “l’esterna”, la brama elementare messa scena da Maria De Filippi immiseriscono la complessità di raccontarsi in una relazione affettiva, di conoscere attraverso sé e il desiderio la complessità del mondo e della sua verità. La complessità, l’articolazione di più piani e significati costruisce capacità ampie di ragionamento emotivo, contrarie al doping emotivo a cui ci spinge la pulsionalità irriflessa delle comunicazioni istantanee, omologhe al consumismo pulsionale a cui siamo sempre più educate, formati, irretiti.
Ma l’amore ha anche a che fare con i codici delle istituzioni amorose: si ama in corrispondenza a giudizi, valori e regole condivise. I corpi sono, nel tempo, in situazioni concrete che sono relazioni sociali e che sono anche rapporti politici. Non che questa complessità debba essere evidente o rappresentata! Ma pensarci dimostra che nel modo di reinterpretare, di mettere in scena la propria presenza nello scambio amoroso, anche ritualizzato, si sta prendendo una posizione politica, si ha la chance di produrre un minimo “gioco” o spostamento anche nel campo dei valori. Come e chi amo non riguarda solo me: ha un significato che supera la mera opzione individuale per inscriversi in una prospettiva sociale. Scegliere un amore o l’altro è un momento di protagonismo creativo. Privare una/un giovane del sentire l’occasione socialmente creativa della sua scelta amorosa è di nuovo un contributo alla tendenza passivizzante, al conformismo civile.
Da qui si consideri anche come l’amore riguardi altrettanto la riflessione individuale, l’immagine orientata di sé nel mondo. Il senso che riceve la propria apparizione a un altro/a restituisce a ciascuno/a un’occasione unica, fisica e culturale assieme, di giocare una parte favolosa. Perché non voler mostrare e dare il meglio, l’unicità, la profondità? Sì l’amore è stato anche astuzia, rubarsi l’attenzione, calunniare, strusciare i vestiti ma è stato anche la possibilità di proiettarsi, di riflettersi attraverso il fuoco dell’altro differente. L’amore è stato leva per l’altrimenti.
Ma si vorrà questo dalla televisione? Che esagerazione! Essa è innocente evasione per tutti…No essa è organizzata regressione mentale e morale che indebolisce la volontà, senza cui l’intelligenza non diventa atto: adattarsi e conformarsi è la richiesta ripetuta e suasiva di cui i programmi di Maria De Filippi sono maestri. Non c’è niente di male a desiderare e a chiedere una televisione melodrammatica, popolare e di intrattenimento che non sia stupida e che non soffochi le facoltà di desiderio incantato, di un altrimenti.
Questo articolo è uscito sul n. 30 de “Gli Asini”.
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