Epidemia, salute e cittadinanza

intervista di Lorenzo Betti e Mauro Boarelli
Gianni Tognoni è un medico, esperto di epidemiologia clinica e comunitaria. È stato direttore scientifico del Centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione Mario Negri Sud. È Segretario generale del Tribunale permanente dei popoli. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo, per la relazione con i temi affrontati nell’intervista, il volume curato insieme a Massimo Campedelli e Vito Lepore, Epidemiologia di cittadinanza. Welfare, salute, diritti (Il pensiero scientifico editore 2010).
In un suo intervento recente, si è chiesto come mai un problema di salute pubblica sia stato trasformato in uno scenario di protezione civile. Questa è una osservazione importante che ha diversi presupposti e molte implicazioni. Tra i presupposti c’è un rapporto che nel tempo è venuto cambiando tra la scienza e la politica, tra gli esperti e la politica, tra la medicina e la politica. Le istituzioni si circondano di esperti, basti pensare all’istituzione di task force praticamente in ogni settore, ma ci sembra che questa sia una relazione opaca che produce una informazione poco chiara nei confronti dei cittadini e direttive contraddittorie.
Da tre mesi ci troviamo in una situazione sviluppata attraverso un sistema di comunicazione estremamente carente, come – ad esempio – i bollettini giornalieri pubblicati dalla Protezione civile. Non ho niente contro la Protezione civile, ma i suoi dati vengono divulgati con un linguaggio centrato sui numeri: morti, decessi, contagiati. Non è stata mai pianificata una regolare informazione che permetta di seguire quello che si sta sviluppando nei diversi luoghi d’Italia in modo tale da mettere in evidenza le cose che sono note, le cose non note e le cose incerte. Potrebbe aiutare molto una comunicazione più trasparente e vicina ai cittadini, pensandoli non come destinatari muti, ma come soggetti centrali nella gestione di quello che sta succedendo. Questo dialogo in Italia sicuramente non si è verificato, e attualmente le varie task force comunicano in maniera frammentata. Questo non è un problema nuovo nella sanità italiana, che non è mai stata un prodigio di comunicazione. La crisi può solo peggiorare i problemi. L’unica discussione passa attraverso i talk show. Un virologo può dire una cosa in una trasmissione e un altro un’altra cosa, un epidemiologo può dire una cosa e un altro un’altra cosa ancora, e a questo punto il senso di coordinamento a livello centrale non esiste. Questo si moltiplica a livello regionale non riuscendo a dare un’idea di come si sta sviluppando tutto ciò che può riguardare effettivamente i dati relativi alla salute. È una constatazione più che una riflessione. Non c’è una dialettica tra le informazioni, e queste possono creare ansia.
Nel 1976 lei lavorò al “disastro di Seveso” [l’incidente alla fabbrica Icmesa che provocò la fuoriuscita di diossina e causò gravi problemi sanitari e ambientali]. Si tratta di una emergenza sanitaria di carattere molto diverso, però da quella esperienza si può trarre qualche informazione su come è cambiato dagli anni Settanta a oggi il rapporto tra gli esperti e i decisori politici.
La situazione era molto diversa, era molto locale, c’era una partecipazione della commissione regionale che era una commissione ristretta che discuteva in maniera molto sistematica e c’erano delle regole sulla comunicazione da fornire a tutta la comunità. Si preferiva una comunicazione diretta e importante con la comunità per creare effettivamente una partecipazione. Le informazioni da dare erano all’inizio molto precarie, ma sono diventate più specifiche abbastanza rapidamente, perché riguardavano contaminazioni causate da una sostanza che noi eravamo riusciti a misurare. Inoltre c’era una fonte unica di informazione, non c’erano altri gruppi intorno che dicevano altre cose.
Per quel che riguarda quello che sta succedendo oggi, penso che sia esploso il rapporto che era già precario tra regioni e governo centrale, anche perché le regioni hanno preso rapidamente delle posizioni che erano più dettate da situazioni politiche locali che non da una concordia o da un dibattito su come gestire l’emergenza anche a livello comunicativo, trasformandosi in fonte di confusione più che di informazione. I tamponi disponibili e non disponibili, il numero dei contagiati, il ruolo dei medici di base: tutti questi pezzi di un puzzle che doveva essere ben coordinato hanno finito per rimanere sparsi. Anche in Lombardia, dove si è verificata la situazione più pesante dal punto di vista delle vittime, la discussione è rimasta concentrata per parecchio tempo sul problema sulla disponibilità di letti in ospedale e in terapia intensiva. Ma anche quando via via la situazione si modificava non c’è stato alcun coinvolgimento reale dei medici di base. Nessuno di loro è stato formato e informato per comunicare con le persone che erano a casa e sono rimaste sostanzialmente affidate alla casualità dell’informazione.
Prima diceva che nel caso di Seveso, con tutte le differenze, c’è stato un coinvolgimento della popolazione. Su una scala molto più grande sarebbe possibile attivare un coinvolgimento? È praticabile un modello di coinvolgimento, di responsabilizzazione, che vada oltre il messaggio moralistico e paternalistico che è passato in questi mesi di emergenza?
Sarebbe importante farlo. Il problema è che c’è una profonda dissociazione a livello locale, nel senso che – almeno dal punto di vista della situazione particolare – dovrebbero essere le regioni ad attivare dei piani informativi mirati alle condizioni specifiche, anche in accordo con i grandi comuni che però non hanno mai fatto parte di questa campagna di informazione. Il sindaco Sala, a Milano, interviene quando vede che c’è un po’ di gente sui Navigli, ma per tutto quello che riguarda le case di riposo (ora in mano al tribunale) non si è espresso. Quello che può succedere a livello locale nelle diverse aziende sanitarie di cui si è dotata la regione Lombardia è lasciato praticamente al caso. Le altre regioni, per ciò che vedo, non prendono iniziative per fare un’informazione specifica. Io faccio parte di in un gruppo che cerca di comparare i dati reali tra le diverse regioni, e tra questi dati molto spesso non c’è concordanza. Con tutta la buona volontà del ministro Speranza, che è l’unico che compare ogni tanto per parlare in questo senso, non c’è un’idea effettiva per un coordinamento propositivo tra le diverse regioni. Oltre a dire che se compaiono nuovi focolai bisogna intensificare la sorveglianza, non c’è nient’altro e non vedo in questo momento qualcuno che sia in grado di prendere le redini. Anche perché ci si scontra sulle competenze: cosa può fare la Protezione civile rispetto alla sanità? Chi dovrebbe prendere la decisione per un coordinamento delle varie regioni? Il caso degli appalti sulla distribuzione di mascherine e sui tamponi è emblematico.
Nel dibattito pubblico, in questi mesi, la paura è stata cavalcata sia dal sistema politico sia dai mezzi di informazione. Secondo lei un utilizzo così forte delle retoriche legate alla produzione di paura è stato generato coscientemente? Questo è servito anche per ostacolare quel tipo di informazione in grado di generare quella maggiore partecipazione e consapevolezza nella cittadinanza di cui lei ha sottolineato l’importanza?
Senz’altro il tema della paura è stato troppo centrale. Dire “guardate che c’è una situazione nella quale ci sono poche cose che possiamo fare nell’impotenza che abbiamo” è un inizio, ed è quello che è stato fatto, poi però non si è fatto nient’altro. Si dice “chiudetevi in casa”, ma non si può proibire tutto senza spiegare il perché. Ci sono delle cose che in qualche modo si poteva decidere diversamente, ad esempio la chiusura dei bambini nelle case. Identificare la casa come un luogo sempre sicuro è problematico. Se gli spazi non sono adeguati l’infezione si condivide e c’è maggiore contagio. La mappa del contagio fatta a Milano fa vedere molto chiaramente che è più frequente nei quartieri più affollati o più poveri ed era una cosa che si poteva immaginare. Le case, evidentemente, non sono luogo sicuro se uno va e viene. Le case non avevano assistenza e questa doveva essere programmata. Anche le comunicazioni a livello di quartiere o comunque locali sono state attivate in maniera ristretta. In Cina e Sud Corea c’erano delle informazioni che venivano date anche a livello periferico per dare l’idea che la misura non era solo “state chiusi e zitti”. Non si è fatto nessun passo in questa direzione, nemmeno per prendere decisioni per alcune popolazioni più a rischio, quelle psichiatriche, gli anziani soli. Adesso per fortuna, e speriamo che duri, il numero dei contagi sta diminuendo e ancor di più quello dei morti, ma di piani effettivi per modificare le organizzazioni locali di comunicazione non se ne son fatti, anzi.
In certe aziende sanitarie il personale che lavorava sul territorio è stato ulteriormente spostato negli ospedali. In Lombardia, da ciò che si può vedere, c’è gente che non ha nemmeno lontanamente in testa cos’è un problema di salute pubblica, e queste cose non si inventano. D’altra parte, nella commissione della Lombardia sono presenti i medici primari degli ospedali, ci sono solo un epidemiologo e un’infermiera, mentre al contrario tutto il personale di assistenza dovrebbe essere coinvolto in maniera importante e non soltanto nelle terapie intensive e di emergenza (dove hanno fatto miracoli). Ma anche nella gestione della situazione attuale non si vede nessun piano in questa direzione. L’unico esempio di una continuità informativa, almeno a Milano, è stato Radio Popolare, che aveva dei punti di riferimento precisi con cui dialogare, come Vittorio Agnoletto. Fare di questo un modello per tante altre situazioni locali non doveva essere una cosa così difficile, si trattava soltanto di individuare qualcuno che garantisca un dialogo, ma se non c’è un piano non si va avanti.
Questo non è solo un problema tecnico: la carenza informativa rispecchia anche una visione politica. Il tema centrale è quello della cittadinanza. Attraverso il meccanismo di chiusura generalizzata, i cittadini si sono trovati a eseguire degli ordini, non necessariamente a comprenderli e condividerli. Il richiamo alla responsabilità individuale poggia sul piano moralistico senza dare strumenti ai cittadini di comprendere e agire attraverso una responsabilità collettiva e sociale.
Tutti hanno detto “deve cambiare il rapporto tra la cittadinanza”, “il sistema sanitario nazionale è troppo nelle mani dei privati”, ma la questione non è soltanto sulla privatizzazione, è anche e soprattutto la trasformazione della sanità in un luogo di erogazione di prestazioni. Non si è mai ragionato effettivamente in un’ottica di partecipazione. Da parte delle autorità, regionali o centrali, non c’è stato assolutamente un segnale per iniziare a ragionare sul cambiamento di questa logica che ha strutturato un sistema sanitario lontano dalla gente. Ogni decreto nuovo è basato su raccomandazioni, molto moralismo, “fidatevi e faremo qualcosa”. Il che cosa non è mai venuto fuori. Questo non ha niente a che fare con il problema sanitario, è un problema politico che dice che al di là di tante raccomandazioni non si vuole cambiare nulla. Non si vede un punto di confluenza in cui le tante organizzazioni della società civile che intervengono sulla salute si possano ritrovare per confrontarsi sul loro contributo fondamentale, per esempio nel garantire continuità assistenziale tra medici di base e persone che stanno in casa. Soprattutto non c’è mai stato un segnale politico che dicesse “dobbiamo lavorare per una sanità di cittadinanza”. Da molto tempo non abbiamo un piano sanitario, i ministeri della sanità hanno agito solo per risolvere problemi specifici.
L’abbandono della sanità pubblica disegnata con la riforma del 1978 ha accomunato governi di centrodestra e centrosinistra.
Il problema politico è trasversale. Il sistema sanitario ha rivelato con questa crisi tutto il disastro che si era consumato progressivamente, con la partecipazione di tutte le grandi regioni. Rispetto al degrado di questo sistema sanitario, componente importante del disastro epidemiologico, tutti hanno detto “bisogna fare cose diverse”. Ma è impressionante vedere che passano i giorni e le settimane e i mesi e il “cosa bisogna fare” non viene fuori. Almeno sarebbe importante ridefinire i luoghi di pianificazione per identificare priorità locali, mirate al territorio. Non si possono fare le stesse raccomandazioni a province e città coinvolte in maniera talmente diversa in termini di drammaticità dei loro problemi. Se ci sono territori in cui non c’è una effettiva emergenza, quelli sono i territori in cui bisogna far vedere come può funzionare un sistema che segue le persone dalle loro case. Le app sono una presa in giro, non servono a molto. Si è spostato il discorso per andare a trovare il nuovo gadget che miracolosamente dovrebbe sostituire la partecipazione delle persone.
Quello che lei dice, oltre al problema politico generale, ha dei riflessi sulla pandemia in atto. Ci sembra di capire che in assenza di politiche sanitarie territoriali e legate alle persone, l’allentamento delle misure restrittive potrebbe portare a una ripresa della pandemia per la quale non si hanno strumenti adeguati, se non la scelta di tornare di nuovo a forme restrittive indiscriminate. Ci sbagliamo?
No no, assolutamente. Una cosa certa è che la riattivazione dei focolai dovrebbe comportare un monitoraggio a livello locale, in maniera tale da sapere come tracciare le persone non soltanto con le app, ma anche attraverso i medici di base con un piano preciso. Se qualcosa accadrà, accadrà a livello locale e bisogna mettere le realtà locali in una situazione che non riproduca soltanto emergenze ma che sia effettivamente di contenimento comunitario. Le situazioni devono essere mirate alla specificità locali degli eventuali nuovi focolai. Ma non c’è un solo disegno, che io sappia, che dia fin da ora l’idea di chi è responsabile di garantire a livello locale questo coordinamento. Il sindaco? Le aziende sanitarie?
Hanno propagandato molto l’indagine sul campione rappresentativo della cittadinanza per analizzare la diffusione del virus. Bene, il problema però è che non garantiamo, con rare eccezioni locali, le risorse per farvi fronte, legate alla medicina di base e al tracciamento, e questo provoca insicurezza e paura e si traduce nella percezione diffusa di abbandono istituzionale.
Lei ha dedicato molto spazio nella sua attività al concetto di “epidemiologia di cittadinanza”, un concetto che assume ancora maggiore importanza alla luce di quello che sta succedendo. Che cosa intende con questa definizione?
L’epidemiologia è la capacità di una popolazione di essere effettivamente informata e partecipe nella gestione di un problema di salute tenendo conto non soltanto del problema in sé, ma anche delle sue cause e delle possibili risposte. Lo sviluppo di un’epidemiologia comunitaria lo abbiamo messo in pratica in paesi dell’America Latina e dell’Africa dove non ci sono molte risorse mediche, per cui la comunità diventa il soggetto principale e fondamentale. Per esempio, qual è la mortalità infantile di un territorio dell’Amazzonia ecuadoriana? In quel caso erano le donne del villaggio a diventare epidemiologhe, cioè quelle che raccoglievano i dati, le cause, le storie delle persone in modo tale che il piano d’intervento per quell’area particolare venisse gestito da un gruppo di promotori di salute che nei loro territori ogni mese si confrontavano. A livello locale, per esempio, nell’area meno comunitaria che ci possa essere – immaginiamo Milano o un’altra grande città – dove il problema principale è la cronicità, si dice: “Guardate che la cronicità non è un problema degli ospedali, ma è un problema che si vive nelle case e che si può affrontare solo attraverso la medicina del territorio”. Questo significa che il primo passo dell’epidemiologia comunitaria è rendere nota la situazione di un territorio. Non basta dire: c’è questo numero di malati cronici. Occorre avere un’idea per ogni territorio e analizzare i dati che sono già disponibili. È possibile vedere quartiere per quartiere, area per area, quanti sono i pazienti anziani che hanno dei problemi cronici, quanti sono quelli che hanno condizioni di povertà e di solitudine, in maniera tale che si possa avere un piano specifico per quel territorio. Se io ho tanti pazienti anziani che hanno bisogno di una sorveglianza nella loro vita casalinga, devo avere un gruppo di infermieri disponibili ad andarli a trovare, a telefonargli, a essere effettivamente l’espressione della sanità per quel territorio. L’epidemiologia comunitaria mette in evidenza le cause dei problemi di salute e lavora anche con le persone per capire come modificare le situazioni che creano questi problemi. Questo era lo spirito alla fondazione del Servizio sanitario nazionale nel 1978 con cui sono state create le Unità sanitarie locali, che dovevano creare strategie mirate ai bisogni specifici delle popolazioni a seconda delle caratteristiche del loro territorio.
In continuità con queste riflessioni, la pandemia sta mettendo in luce che le azioni legate al lavoro territoriale sulla salute e al rapporto con la cittadinanza anche in un’ottica di credibilità istituzionale (vedi il caso del Veneto) sono state le uniche risposte efficaci nella gestione di questa emergenza sanitaria e sociale. Condivide questa visione? Vede la possibilità di rimettere al centro del sistema sanitario il lavoro sul territorio e quello della medicina di base?
Io sono d’accordo e paradossalmente non sarebbe così difficile. Avete citato il Veneto. Per una serie di combinazioni più o meno intelligenti o fortuite sono state attivate misure specifiche per quel territorio. Quelle misure non sono riproducibili in altre realtà. Il concetto dal quale partire è dare alle comunità locali la possibilità di esprimersi mettendo al centro la continuità ospedale-territorio. Diventa più facile se possiamo vedere la mappa di un territorio e avere chiaro dove ci sono più malati cronici, che sono quelli più a rischio in caso di contagio, andando così a diminuire le ospedalizzazioni. Muovendosi su questo piano si vede quali sono le risorse umane presenti e quelle eventualmente da attivare. La comunità deve essere informata del fatto che ci sono dei servizi, ma deve sperimentare che questi servizi funzionano, è così che la fiducia può tornare. Questo non accade da un giorno all’altro, bisogna riprendere un cammino. La legge che ha fondato il Servizio sanitario nazionale nel 1978 è nata da un lungo cammino fatto prima, tra i lavoratori e nella psichiatria soprattutto. Poi tutto si è svuotato, perché – a partire degli anni Novanta – la logica principale è stata quella aziendale, la sanità è diventata principalmente un’azienda concentrandosi solo sulle prestazioni. L’unico indicatore è quello dei conti, tutto il resto è scomparso. Bisognerebbe lavorare su una sanità che metta in evidenza i bisogni e ne faccia partecipe la comunità. Non è una cosa così difficile, è un esercizio minimo di cittadinanza che potrebbe dare tanti risultati avvicinando un’istituzione che diventerebbe più coerente con le proprie promesse.
Questo modello di decentramento comunitario di cui parla è completamente differente dal disegno di autonomia regionale differenziata per la quale Veneto, Lombardia e Emilia stanno spingendo.
Certo! In Veneto, come in Toscana, ci sono delle soluzioni interessanti, ma bisogna vedere come si usa effettivamente l’autonomia regionale. In Lombardia siamo arrivati al punto che non c’erano i soldi per comprare tamponi perché i soldi erano stati spesi, con l’approvazione del consiglio regionale, per incentivare i responsabili dei laboratori che erano stati bravi a risparmiare sui loro costi. A questo punto è chiaro che c’è una perversione totale dell’azienda sanitaria, che sposta l’attenzione dalla salute dei cittadini a questioni finanziarie. Chi è bravo a gestire i budget è premiato, e a questo punto non si mettono da parte fondi per i bisogni inevasi, che invece sono tanti. La psichiatria in Italia, per esempio, è stata smantellata proprio in quest’ottica.
Tutte le regioni hanno le statistiche dei cittadini poveri, delle persone sole, dei malati cronici, tutti gli indicatori sono disponibili. Con il Forum diseguaglianza e diversità diciamo che la disuguaglianza è oggi la vera pandemia da affrontare, stiamo cercando di documentare e rendere visibile questa disuguaglianza. Dobbiamo mettere al centro questa popolazione trasversale e dobbiamo fare un piano con quelli che si interessano di questi marginali. I bisogni inevasi sono collegati alle condizioni socioeconomiche, ma se la pianificazione sanitaria è fatta strettamente da sanitari e nelle situazioni di emergenza la gestione passa alla Protezione civile, si riproduce un modello che non può reggere. Dobbiamo mettere insieme le competenze e le risorse intellettuali perché se, come è noto, la causa principale delle malattie è la condizione socioeconomica o di isolamento, è inutile che ci concentriamo solo sui servizi sanitari. Dobbiamo trovare delle risposte che individuino le cause socioeconomiche e culturali che portano alla malattia e al suo peggioramento. Questo è un lavoro che si può e si dovrebbe fare. Sarebbe un segno molto importante per il futuro dopo la Covid-19. Io cerco di dirlo in giro come lo sto dicendo a voi, ma trovare degli interlocutori politici non è facile.