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Enzensberger, lo scrittore “cicogna”

3 Dicembre 2022
Giuliano Battiston

Tra i più originali scrittori del secondo Novecento, Hans Magnus Enzensberger è morto a Monaco di Baviera il 24 novembre 2022, all’età di 93 anni. Lo ricordiamo con un’intervista realizzata nel 2008 da Giuliano Battiston per Liberazione. Di lui e dei suoi lavori torneremo a parlare nei prossimi numeri della rivista.

Sospettoso verso tutte le teorie, che «alla fin fine non sono altro che versioni secolarizzate della storia della salvazione», sostenitore di una quotidianità «capace di vivere anche senza profeti», Hans Magnus Enzensberger è uno di quegli autori così inafferrabili da essere definiti eclettici: sin dagli anni Sessanta, infatti, l’autore de Il perdente radicale, nato in Baviera nel 1929 e considerato tra i maggiori poeti e saggisti contemporanei, ha prestato la sua fantasia offensiva e il suo sguardo impietoso ai più diversi campi del sapere: dalla poesia (Poesie per chi non legge poesie, La fine del Titanic, Più leggeri dell’aria) ai romanzi (Il mago dei numeri, Ma dove sono finito?), dalle ricostruzioni storico-documentarie (La breve estate dell’anarchia, Interrogatorio all’Avana), ai saggi di impronta politico-sociale (Politica e crimine, Prospettive sulla guerra civile). Sotto l’ipertrofia di idee acute e originali, emerge la costante attenzione alle nuove forme di aggregazione politica, la critica agli ingegneri del corpo e dell’anima e la fiducia nel carattere inattuale e anacronistico dell’opera d’arte, «un torso le cui membra giacciono nel futuro». Abbiamo incontrato Hans Magnus Enzensberger a Roma, dove ha partecipato al Festival della Matematica.

Lei è poeta, romanziere, saggista, traduttore, editore (e molte altre cose). Potremmo dire che vale anche per lei quel che sostiene il Diderot protagonista di uno dei sui Dialoghi tra immortali, morti e viventi: “il mio mestiere è quello di essere curioso”?

Direi proprio di sì. Sono convinto infatti che esistano due diversi tipi di scrittore, la “talpa” e la “cicogna”, animati da temperamenti differenti: il primo è lo scrittore che, come Kafka, tende a ritornare sempre sullo stesso argomento e con la stessa disposizione, in modo ossessivo, quasi monomaniacale; il secondo, invece, è quel tipo di scrittore che, saltellando qua e là, una volta cattura una rana in un posto e poi un’altra in un posto diverso. La mia curiosità deriva in qualche modo dal mio essere uno scrittore “cicogna”.

Affinché sia produttivo, questo movimento da cicogna deve però essere abbinato a quello che ne Gli elisir della Scienza definisce un’ «ecologia dello scansare», e che in un’intervista ha descritto come il metodo della balena, che «risucchia tutto nell’acqua in cui nuota e poi i suoi denti fungono come un pettine che seleziona il cibo»…

Bisogna assaggiare e mangiare quanto più possibile, per poi trattenere solo ciò che serve, perché è impossibile digerire tutto; se si segue la propria disposizione, saranno il piacere e la soddisfazione a operare una sorta di selezione “ecologica”. È un metodo che comporta un prezzo alto, perché implica il rischio del dilettantismo, ma permette anche di mediare tra le cose “serie” e il grande pubblico. Nel mio caso penso alla matematica, verso la quale il pubblico nutre paure, ansie, addirittura odio. Io, da mediatore, credo invece che sia solo un cliché l’idea che ci siano persone assolutamente negate per la matematica, o che essa sia inaccessibile: per conoscerla ci vuole molta fatica, ma è comunque possibile comprendere i problemi che ne sono alla base.

Lei ha definito l’esclusione della matematica dalla sfera della cultura come «una specie di castrazione intellettuale». Per riprendere una domanda che lei stesso si è posto: «da cosa dipende che nella nostra civiltà la matematica sia rimasta un buco nero, un ambito extraterritoriale»?

La causa principale è il tipo di insegnamento che si pratica nelle scuole; lo studente, messo di fronte a un dato problema, deve semplicemente ricordarsi quale “ricetta” applicare tra le tante che gli sono state propinate, e in questo modo si elimina l’aspetto più importante, che è la questione del perché. È un metodo che nasconde la bellezza – paragonabile a quella di una cattedrale – di cui è intriso il sistema dei numeri, naturali, razionali, irrazionali e immaginari, in quanto riflette ancora le origini del sistema scolastico: l’istruzione scolastica obbligatoria fu un’operazione determinata dalle necessità economiche dell’industrializzazione, che richiedeva una manodopera capace di fare calcoli semplici. Non nacque certo dall’idea di far pensare la gente: che la gente pensi, infatti, è politicamente sconveniente.

Secondo la sua analisi, il collasso del comunismo ha lasciato dietro di sé un vuoto ideologico che è stato riempito dalle nuove promesse utopiche degli istituti di ricerca e dei laboratori delle scienze naturali. Quali sono i principali rischi che derivano dal connubio scientifico-industriale?

I rischi sono gli stessi di sempre: megalomania e illusione di onnipotenza, ma è curioso che, esauriti i tentativi politici, a proporre e ricercare soluzioni definitive ai problemi dell’umanità siano coloro che appartengono al campo scientifico. Non sostengo che tutti i ricercatori soffrano di queste “malattie”, ma è indubbio che tale tendenza abbia preso piede perfino presso i ricercatori seri, e non solo tra i cialtroni in camice bianco. In Germania, per esempio, c’è uno stimato ricercatore secondo il quale sarebbe sbagliato condannare un assassino, perché l’omicidio è il risultato inevitabile dei processi che avvengono nel cervello, per i quali il soggetto non ha colpe. Si tratta di una posizione filosoficamente molto debole, perché sostituisce l’io con il cervello, annullando non solo le funzioni cognitive ma anche quelle morali, ma è anche sintomatica di una situazione generale, come lo è l’attenzione sempre più ampia riservata dai ricercatori alla science-fiction, che conferma loro l’illusione dell’onnipotenza.

Passiamo ora a Il perdente radicale, un saggio che ha sollevate molte discussioni e nel quale recupera e approfondisce temi – come il carattere autistico di alcuni comportamenti, l’impossibilità di distinguere tra distruzione e autodistruzione – già presenti nei suo saggi precedenti, come quelli raccolti in Prospettive sulla guerra civile. Chi è il perdente radicale, e su quale terreno affondano le sue radici?

Per comprenderne le radici occorre riferirsi a Hegel, che probabilmente è stato il primo a individuare negli uomini la necessità fondamentale di ottenere qualche forma di riconoscimento; una rivendicazione che non può mai essere completamente soddisfatta, perché è inevitabile che nelle società ci sia asimmetria tra quelli che – per posizione sociale, per ragioni economiche o di clan – godono di particolare riconoscimento, e coloro che ne hanno meno. Il fenomeno nuovo, dunque, non risiede tanto nel gesto di chi – come lo studente che compie una strage a scuola o il padre che stermina la famiglia e poi si suicida – individualmente preferisce una fine terribile a una situazione terribile senza fine, quanto nell’accorpamento di questi individui isolati in gruppi, in un processo che produce una massa critica organizzata (e spesso strumentalizzata). È a questo punto che la carica esplosiva si dota di una legittimazione fittizia, politica o religiosa, e trasforma la disperazione in un “diritto” da rivendicare, e il perdente radicale in un militante per una “giusta causa”.

I perdenti radicali, gli «avanguardisti della morte», sono dunque molto lontani dai terroristi russi dell’Ottocento e del primo Novecento, quei «sognatori dell’assoluto» di cui parla Marx e a cui lei ha dedicato alcuni saggi molto belli. Quali sono le differenze principali?

I sognatori dell’assoluto – che ci ricordano che la tecnica del terrorismo non è stata inventata dal mondo islamico, ma è un frutto dell’“Occidente” – erano ancora pienamente collocati in una prospettiva etica: nel caso ci fosse un bambino o una donna, per esempio, rinunciavano all’azione terroristica. Ma soprattutto ragionavano, anche in modo tormentato, sui problemi relativi alla legittimità dei loro atti; i perdenti radicali, invece, hanno abbandonato dietro di sé qualsiasi scrupolo e, lontani da ogni forma di tormento etico, si preoccupano solo di rendere perdenti il maggior numero possibile di “altri”.

A proposito di “sognatori dell’assoluto”. Quest’anno ricorre il quarantennale del 68, e lei in Germania è stato un punto di riferimento molto importante per il movimento studentesco. Ritiene che anche quel periodo possa essere ridotto a «poco più che un combattimento tra ombre», come una volta ha descritto le contestazioni degli “altermondialisti”?

Per usare un termine da etnologo, direi che ho vissuto quel periodo da osservatore partecipante. Nel 68, infatti, ero un “vecchio”, perché avevo 15 anni più degli studenti. C’era dunque una distanza legata alla diversa generazione e alle diverse esperienze storiche che avevo vissuto. Sebbene sia sospettoso verso la retorica sul 68, devo dire che rispetto all’altermondialismo di oggi quel movimento ha avuto un’incidenza molto più significativa. I costumi in Francia e Germania non corrispondevano più allo sviluppo delle rispettive società, legate a forme di autoritarismo e consuetudini di stampo “guglielmino”: dell’omosessualità non si poteva parlare; il medico era un dio in camice bianco; il professore universitario era un barone. Fu grazie a questa situazione oggettivamente insostenibile che duemila persone riuscirono a rovesciare il costume di società intere.

Dai saggi che ha scritto negli ultimi anni sembra emergere un suggerimento: per sfuggire alle idiozie della contemporaneità non bisogna assecondare o combattere la corrente, ma seguire un’andatura zigzagante, procedendo come un velista, perché «chi crede che bisogna avventarsi “frontalmente” contro il sistema, da solitario combattente, soggiace a un’illusione»…

Non scrivo cose del genere con l’intento del precettore, né intendo dire come devono comportarsi gli altri; la mia è solo la ricerca di un’andatura, di un’“attitudine sostenibile”. In termini generali, la questione rivela comunque la distanza che ci separa dall’epoca delle grandi ideologie, quando esisteva una sola grande strategia in grado di risolvere tutti i problemi. Oggi che le strategie non ci convincono più occorre individuare delle tattiche, essere molto più mobili nell’atteggiamento, cercare e praticare soluzioni parziali, operare scelte quotidiane, assicurarci piccoli, provvisori e sempre revocabili campi d’azione. Forse è diventato quasi necessario avere addirittura una certa furbizia. Negli anni 60-70 c’era l’ossessione del “sistema”. A guardar bene, però, affinché si possa parlare di sistema c’è bisogno di qualcosa che sia esterno rispetto ad esso. E dove sarebbe questo esterno? Chi avrebbe il privilegio di viverci? A parte, forse, alcuni monaci trappisti che hanno un certo diritto a sentirsene fuori, noialtri siamo tutti dentro. Siamo tutti coinvolti.

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