E ora?
traduzione di Anita Raja
Ricordiamo la caduta del Muro di Berlino di trent’anni fa con quest’intervento di Christa Wolf tratto da Congedo dai fantasmi (edizione italiana 1995), una raccolta del 1990–1994 di riflessioni su un mondo in mutazione. Ringraziamo l’editore e/o per averci permesso di riprenderla.
La
follia, può anche piombare sui singoli
dall’esterno, dunque da
molto tempo è uscita
all’esterno dall’interno dei
singoli…
(Ingeborg Bachmann, Luogo
eventuale)
Caro Dieter Bachmann, Berlino è “terra a maggese”? Ho in testa questa domanda da quando – più di una settimana fa, dopo le esequie di Max Frisch – lei mi ha detto il titolo del prossimo numero della sua rivista e mi ha messo moralmente sotto pressione perché fornissi un contributo sull’argomento. Ora è una verità lapalissiana che scrivere su un oggetto è tanto più difficile quanto esso ci sta vicino; ma, così pensavo spensieratamente la mattina dopo, forse è davvero tempo di sperimentare fino a che punto sono in grado, scrivendo, di allontanare da me questa maledetta Berlino, e non mi sembrava poi tanto difficile, mentre camminavamo in pieno sole per Zurigo, per le strette viuzze, della città vecchia, e andavamo a zonzo lungo la Bahnhofstraße dall’altra parte della Limmat, e sedevamo sulla sponda del lago di Zurigo, che “scintillava” sul serio, e, ormai quasi secondo cliché, pranzavamo nella “Kronenhalle”, salmone alla griglia. Ah, come mi piaceva tutt’a un tratto quella bella pulita ricca città, a tal punto che avvertivo in me, oltre a una nostalgia indefinita, una sorta di invidia, invidia per un mondo comunque esteriormente sano, invidia forse anche per quei fortunati a esso destinati dalla nascita e dalla sorte, che riescono a viverci durevolmente indisturbati e a gustarselo a gran sorsi. Ma io so di essere guasta per entrambe le cose. Giacché dovunque mi trovi non ci vuole molto perché senta che l’ago della mia bussola interiore comincia a muoversi, a orientarsi sempre più energicamente verso il polo magnetico, finché alla fine la sua punta oscillante indica Berlino. Dentro di me qualcosa si contrae dolorosamente e piacevolmente quando, la sera della nostra giornata zurighese, l’aereo della Swissair si accinge ad atterrare, spuntano i sobborghi occidentali di Berlino e poi – piatta, piattissima – ecco sotto di me l’intera città abbracciabile con lo sguardo, da Tegel fino alla torre della televisione sull’Alexanderplatz. Questa Berlino in sfascio di cui sono drogata, me ne rendo conto proprio mentre scrivo queste frasi – nel profondissimo Meclemburgo tra l’altro, nella quiete della natura di questo luogo di disassuefazione. Perché lavorare a Berlino è diventato quasi impossibile. È una cosa lacerante.
Se l’ho capita bene, lei tiene al colore locale e alle istantanee. Bene, il tassista che ci portò a casa veniva dall’Est ed era molto ciarliero, anche per la gioia di aver trovato, contro ogni previsione, dei passeggeri. Un caso raro, disse; la breve interruzione d’attività, dopo il tracollo dovuto all’unione monetaria dell’anno scorso, era finita. Ha sentito le ultime cifre sui disoccupati? Be’, allora sa perché da noi nessuno viaggia in taxi. Neanche nel weekend, di notte, che prima era una congiuntura favorevole. Le dico, tutto finito. E le strade vuote. Nessuno va più all’osteria… A chi apparteniamo adesso? La Veb taxi è sparita da un pezzo, a noi ci ha comprato un imprenditore di là, tutti in blocco, ma senza le automobili: quelle ce le ha fornite nuove, sulle nostre Wartburg e Lada non saliva più un cliente. Ma per il resto… La prima cosa è stata: tutte le agevolazioni cancellate. Naturalmente niente più buoni pasto – certo, quattro soldi prima –, e anche a notte niente panino, o un caffè quando si arriva stanchi al deposito. Perciò si economizza al massimo. Se un mese non si riga tanto dritto, sei ammonito, se il secondo mese non va meglio, puoi andartene.
Un grosso stress, in tutti i sensi, e la solidarietà tra colleghi va lentamente ma decisamente a rotoli, e tutto questo per mille marchi al mese. – Mia moglie? No, è disoccupata. Il locale in cui lavorava come cameriera ha chiuso. Adesso gira come una trottola. All’Ovest gli basta un’occhiata: quanti anni ha? Quarantasei? Spiacente. È perfino andata a una fabbrica di cioccolata per rispondere a un’inserzione, ma c’era un mucchio di gente, si sono scelti le dieci più giovani. Lei non aveva nessuna possibilità.
A tutto questo non eravamo abituati.
Perché all’Ovest non faccio viaggi? All’inizio ci ho anche pensato, visto che finalmente dobbiamo essere uniti. Ma in queste cose io ho il mio carattere: non mi faccio insultare tanto facilmente. Là ci sono certi passeggeri che se uno non sa dov’è una strada si infuriano subito, d’altra parte come faccio ad avere già in testa la pianta di Berlino Ovest? E i colleghi – per loro siamo solo dei concorrenti. Ultimamente ho chiesto una strada a uno, e quello dice placido: non ce l’hai una pianta? Be’ grazie, collega, gli ho risposto. Forse un giorno anch’io potrò esserti d’aiuto all’Est.
No, non va bene, proprio non va bene. Per quelli noi siamo soltanto imbecilli. O la vede diversamente?
“Berlino terra a maggese?” Maggese è alla lettera, in questo “paesaggio urbano” (che eufemismo!) densamente popolato, solo l’ampia striscia nord-sud, un tempo (“Un tempo”? Un anno e mezzo fa!) occupata dalle installazioni di confine, il cui nucleo pregno di simboli era il muro; la zona circostante, inaccessibile ai comuni mortali, si sviluppava in un biotopo che secondo i progetti di ambientalisti e artisti sarebbe potuto diventare un parco nel cuore di una metropoli travagliata ogni giorno dall’infarto del traffico, “una fascia d’un verde rigoglioso, sempre vivo, che si estende attraverso la città. Una fascia contro caccia al successo, status symbol, profitto, carriera e consumismo.” Vede che razza di sogni fuori della realtà continuano a essere covati qui e lì in questa città. “Sembra”, scrive a tale proposito un collega su una delle riviste di Berlino (Est) da poco fondate e non ancora chiuse, “che le esigenze della Berlino metropolitana siano troppo grosse per potersi concedere, senza che salga la febbre del commercio, una striscia ampia di verde selvaggio che attraversa la città. Chi ignora che qui sono le possibilità di investimento capitale a essere a maggese, viene sì guardato: ma come uno zombie”.
“Dove è rimasto il vostro sorriso?” ha scritto un anno fa con lo spray uno degli esponenti della poesia popolare, all’epoca ancora numerosi, sul muro di una casa nel centro di Pankow. Le persone che scendono proprio lì dal tram n.46 proveniente dal centro della città, da tempo con le facce di nuovo chiuse, sono costrette a sorridere in modo irriflesso, quando leggono quella scritta. Ma non è un sorriso autentico. È una specie di fiacco sorriso del ricordo, se capisce ciò che intendo. Sì ma, può obiettare lei a ragione, c’è qualche parte del mondo dove il sorriso è uno stato normale, un’esigenza sempre possibile?
No di certo. Tutto ciò che affermo è: qui, in questa città che non ha avuto granché da ridere per quel tanto di storia che possiamo abbracciare con lo sguardo, nelle case e nelle piazze, nei negozi di scarpe e sui mezzi di trasporto, nei giardini e perfino nei reparti d’ospedale, per qualche settimana si è sorriso. Le persone perlopiù giovani che se ne stavano in piedi o sedute con le candele in mano intorno alla Gethsemanekirche, avevano cominciato a farlo nel settembre dell’89. Sorridere e scandire: no alla violenza! E una cosa, questa, che disturba qualunque potere statale, il quale in genere ha la pretesa che coloro che vogliono opporgli resistenza, lo facciano almeno con serietà e violenza: in tal caso lo stato è attrezzato, in tale favorevole frangente le forme della resistenza sono adatte alla forme per combatterle. Ma uno stato che impiega a migliaia forze di sicurezza fornite di accessori marziali, idranti e tecnologia pesante contro qualche centinaio di persone che con le candele in mano invocano la non violenza, si rende un po’ ridicolo ormai. Certo, chi è costretto a stare una notte intera contro un muro in un garage o viene picchiato dentro un posto di polizia smette di sorridere, tuttavia, anche se raramente, ci sono momenti storici in cui ciò che appare estremamente improbabile dà luogo a una tale combinazione che in seguito passa la voglia di ridere anche ai comandanti e agli esecutori di simili eccessi. Li ho visti tutti lì seduti, nella Sala Grande delle udienze del Roten Rathaus, generali e colonnelli e maggiori e capitani, a render conto del loro operato alla commissione d’inchiesta, di cui facevo parte, e non capivano molto e spesso dicevano menzogne, ma nessuno ha riso. Anche noi d’altronde non siamo riusciti a ridere, anche se c’era il sorriso incoraggiante al di là del tavolo, il sorriso amichevole durante una pausa alla mensa, c’era anche il sorriso degli impiegati della municipalità nei corridoi del Rathaus: non lasciatevi scoraggiare, pensate solo ad andare avanti. (Tuttavia di recente, devo farne menzione qui incidentalmente come di un segno di progresso, pochi giorni fa, quattro ex generali della Stasi, seduti l’uno vicinissimo all’altro di fronte alla telecamera, sono entrati direttamente nel nostro soggiorno, indossavano abiti civili di buon taglio e quasi non sembravano mascherati, portavano cravatte decenti, erano concilianti e a loro modo maliziosi, e offrivano schiettamente la loro collaborazione, soprattutto il loro silenzio su certi episodi oggi forse imbarazzanti, per dirla tutta coinvolgimeti a livello di servizi segreti, ma ovviamente non hanno usalo parole così indelicate: il loro silenzio collaborativo, dunque, in cambio di un’amnistia e di una premurosa assistenza ai loro ex collaboratori, la cui crescente inquietudine in quel momento poteva minacciarli un po’, e hanno assicurato che a loro niente stava così a cuore quanto evitare danni al “nostro stato”, e interrogati su quale fosse per l’amor del cielo lo stato a cui si riferivano, hanno detto all’unisono: la Repubblica federale tedesca ovviamente, con cui si identificavano in tutto e per tutto).
Oh sì: quelli hanno contribuito parecchio a farci passare la voglia di sorridere. Su questo ritornerò. Ma prima mi permetta di tornare un’altra volta su quel sorriso, forse è un mio tic, ma penso che, proprio perché era così fragile e fuggevole, merita che se ne scriva. Come potremmo, noi che l’abbiamo visto, consapevole di sé, disarmante, di tutti quegli organizzatori spontanei la mattina del 4 novembre 1989 erano impegnati attorno all’Alexanderplatz, con le loro vistose sciarpe arancioni su cui ancora una volta era scritto: no alla violenza, mentre l’interminabile corteo dei dimostranti si metteva in movimento – sorridendo! lo giuro! – e le folle cominciavano di buon umore a raccogliersi sull’Alexanderplatz. In modo del tutto spontaneo veniva in mente la parolina “sovrano”, una delle parole straniere più estranee al nostro caro tedesco. Il popolo sovrano. libertà uguaglianza fraternità. Mio Dio, forse lei non lo dirà, ma l’hanno detto tanti dei suoi colleghi giornalisti nel corso dei mesi seguenti: che ingenuità! Che disconoscimento della realtà!
Certo. Gli striscioni e i manifesti di quanti, per quell ‘unica giornata almeno, si erano sentiti vincitori – il loro sorriso era anche un incredulo, inesperto sorriso di vittoria –, nel frattempo finirono a impolverarsi in una stanza dell’ex arsenale, sbarrata e sprangata, e quando esattamente un anno dopo, in numero molto più ridotto, anche se ancora piuttosto considerevole, tornarono a radunarsi sull’Alexanderplatz, avevano capito di essere gli sconfitti, e su uno di quei loro striscioni con il motto della rivoluzione francese, libertà era stata scritta con punti interrogativi, ma uguaglianza e fraternità stavano lì come una rivendicazione tutta aperta.
Neve dell’anno passato! scrissero molti dei giornalisti calati a frotte a Berlino per osservare una rivoluzione senza violenza… Molti venivano da lontano e si trovavano, sorprendentemente disinformati, per la prima volta in questa regione del mondo, della quale per qualche settimana si mostrarono entusiasti, poi presto un po’ annoiati e delusi. Dov’era dunque la conclamata identità di quei nativi? furono costretti a chiedersi dopo un certo tempo arricciando un po’ il naso. Domanda legittima, senza dubbio, solo a partire dalla quale mi permetto una stizzosa contro-domanda: ritiene che si possa apprendere alcunché di assolutamente certo sul modo di vivere di un – diciamo: popolo di formiche –, rivoltando la pietra sotto la quale per tanto tempo esso ha bene o male vivacchiato e traendo conclusioni di vasta portata dal modo in cui esso si sparpaglia correndo in tutte le direzioni sotto gli sguardi leggermente disgustati degli osservatori e rinnegando scelleratamente la propria identità? Un paragone sconveniente? Me lo ha imposto uno sguardo freddo da voyeur…
Nell’anno che avevamo alle spalle non c’era una pietra che fosse rimasta sopra l’altra. Un anno febbrile, fortemente irreale, in cui davanti ai nostri occhi, in parte per il nostro contributo, il corpo sociale aveva assunto forme di esistenza singolari, nuove, e nello stesso tempo molto fugaci, e per un certo periodo le aveva trattenute e sperimentate, ma poi ne aveva rapidamente abbandonato la maggior parte come in un film accelerato: commissioni, tavole rotonde, circoli, tutti i possibili tipi di fondazioni e associazioni, spesso buffe e fantasiose, a volte tra le divertite risate omeriche dei partecipanti. Scene, immagini come di solito se ne vivono tutt’al più in sogno. Ma a me, è strano, quel periodo di sogno sembra Ia realtà più netta, più esatta che ho vissuto, una pista di realtà in mezzo a due piatte simulazioni di realtà. La fioraia nella Ossietzkystraße, che parlava come colui che porta il nome della strada; le commesse della rivendita notturna all’angolo, che si comportavano come se fossero appena uscite dal testo di Brecht sulla Comune di Parigi e volessero conciliare gli interessi del loro negozio con i propri – per alcune settimane furono davvero ciò che avrebbero potuto essere. Nel frattempo la fioraia è ammutolita da un pezzo, le commesse sono state tutte licenziate tranne una che siede alla cassa e sussurra alle vecchie clienti: però tutto questo non ce l’eravamo immaginato così.
E come allora? chiederà lei di rimando. A questo è solo con imbarazzo che oggi si può rispondere, perché è quasi impossibile riuscire a calarsi di nuovo nel modo di ragionare di quei tempi. In quanto per un certo periodo i movimenti civili di opposizione hanno parlato di come si potevano coinvolgere veramente i cittadini della Rdt nella gestione delle aziende nazionalizzate – per esempio con forme di azionariato popolare, col diritto di essere consultati; perché era incredibilmente ingiusto, si udiva e si leggeva, che loro che avevano già pagato la guerra per tutti i tedeschi sotto forma di riparazioni all’Urss, ora diventassero per la terza volta gli sconfitti (e i nullatenenti)…
La prego. Neve dell’anno passato. Nell’edificio sull’Alexanderplatz, da cui in quei tempi inquieti un collaboratore del leggendario signor Schalck-Golodkowski voleva andarsene con una valigetta di denaro, oggi ha sede la Treuhandanstalt, “la più importante, potente e contemporaneamente meno controllata autorità economica della Germania del dopoguerra”, e privatizza 8.000 ex aziende nazionalizzate, il lavoro oggettivato di milioni di persone. Non è un po’ inquietante che questo lavoro di due, tre generazioni possa svanire semplicemente nel nulla, non a causa della distruzione, della guerra, delle bombe – no, nel pieno della pace, con un tratto di penna, grazie alla ferrea formula magica: privatizzare. Ma sulla magia tornerò ancora.
Alienazione segue ad alienazione. Chi domanda ancora dov’è rimasto il nostro sorriso? È stato schiacciato tra il passato e il futuro per molti senza prospettive.
Funesto? C’è un libro intitolato Fonte protetta, l’ha stampato una giovane casa editrice (Basis-Druck). Nel caso che questo titolo evocasse in lei una qualche immagine idilliaca della natura, si sbaglia di grosso. Fonte protetta è una metafora tratta dall’arsenale poetico della Stasi e designa informatori che si sono introdotti in gruppi e circoli d’opposizione e vi si sono distinti come alleati affidabili e spesso come promotori di azioni rischiose. Delle persone che nell’autunno del’89, affiorate dal nulla, apparvero sulla tribuna politica improvvisamente illuminata a giorno, un gran numero è finito di nuovo sul fondo: il fascicolo della Stasi a loro intestato li ha raggiunti, e gli amici intimi, che si erano fidati incondizionatamente di loro, hanno dovuto imparare a non fidarsi della propria fiducia e a sbrigarsela col gelo che ora, di conseguenza, si allargava fino a loro. Al centro di questa mezza città si trova, paragonabile a un sarcofago ancora radioattivo, la mostruosa area della centrale della Stasi con le sue centinaia di chilometri di fascicoli radioattivi. C’è da meravigliarsi se tante persone – proprio coloro che prima non si erano tutelati; che durante le festività nazionali avevano continuato a fare ala esultanti lungo le strade – ora, sotto l’impressione delle rivelazioni, non riuscivano a imboccare la strada difficile che dall’interdizione conduce alla maggiore età e, uscendo di peso dall’euforia, si abbandonavano alla delusione, alla depressione, all’odio per gli altri e per se stessi, all’autodistruzione? Si è molto rivelato e tradito, e molto si rivela e si tradisce in questa città. Convinzioni però – la prego, cosa se ne fa delle sue convinzioni una persona che lotta per la sopravvivenza? Ma pure persone, ancora e ancora. A titolo precauzionale i responsabili si impadroniscono di materiali – atti, fascicoli, lettere, documenti –, che sono utilizzabili in vari modi: per ricattare, per riscattarsi, per proporli al miglior offerente: servizi segreti, rotocalchi, giornali. È comprensibile in tempi come questi, in cui si fa piazza pulita di un’epoca; io voglio dire soltanto: lei non può fidarsi di ciò che riesce a vedere, meno che mai in questa città. Sotto la superficie regna un’esistenza operosa, inquieta, senza scrupoli, ciascuno vende quello che può, anche se stesso. Com’è innocente al confronto la svendita visibile di oggetti di devozione della vecchia Rdt presso la porta di Brandeburgo, decorazioni, onorificenze, capi di uniformi, bandiere, medaglie, il commercio fioriva. Ieri peraltro ho letto una notizia per me incomprensibile: in una fabbrica di bandiere cresce incessantemente la richiesta di bandiere della Rdt con martello e compasso dentro la corona di spighe.
Che sta succedendo? Se così stanno le cose, trovo più comprensibile che tutt’a un tratto si comprino di nuovo generi alimentari di produzione locale i quali, del resto su ordine dei nuovi proprietari, erano totalmente spariti dalle scansie degli empori – oggi supermercati –, roba per un certo periodo disprezzata anche dai vecchi venditori, nella loro furia autodistruttiva. Si torna evidentemente a essere ricettivi, adesso, nei confronti del messaggio che i cetrioli dello Spreewald e il burro del Meclemburgo come anche il Lauchstädter Tafelbrunnen sono commestibili, e adesso, sporadicamente, si trovano negozi che osano offrire soltanto merci di produzione locale. E anche alla porta di Brandeburgo la scena è nuovamente cambiata: sabato scorso dimostravano lì 35 iscritti al sindacato: “Non vogliamo spaccature sociali!”
Che cosa è accaduto? Un mio collega piuttosto impertinente scrive: “Sono entusiasta dell’unità. Adesso il mondo è piccolo, e Berlino è grande. L’anarchia è tramontata. La libertà si è imposta. Il marco tedesco è libero. Io sono il signore Dio tuo, dice il marco tedesco. Non avrai altro Dio all’infuori di me. Non te lo consiglio”.
Eventi fantastici vanno descritti in modo fantastico. Nella notte dal 30 giugno al primo luglio 1990 in città apparve, desiderato da molti, il Gran Mago, sollevò la bacchetta e, letteralmente in una notte, fece sorgere un altro mondo. Non che il nuovo denaro piovesse dal cielo, ma ebbe dall’inizio un effetto benefico, in quanto canalizzò le masse prima piuttosto sbrigliate in interminabili code bene educate davanti alle casse di risparmio, senza soluzione di continuità, giacché naturalmente quella che fu la trasformazione più importante di tutte ebbe luogo in modo precipitoso, e tuttavia per tappe. Finalmente anche da noi spuntarono istituti finanziari, e devo confessarlo, il primo container con la scritta dresdner bank fece sensazione e ci collegò col mondo, ma il Mago, una volta in azione, non fece l’avaro, veloce come il vento portò anche la Commerz Bank, la hypobank e naturalmente la Deutsche Bank. (A proposito: la Weberbank, che ha sede a Berlino Ovest, pensò che avrebbe avuto successo utilizzando in una grossa inserzione, ancora una volta, contro l’“intellettualismo”, il concetto di “omiciattolo” in sintonia con le ingiurie agli intellettuali di Ludwig Erhard: “Letteratura, ideologia, retorica, lontananza dalla realtà e, sulla linea di confine, scribacchiume”).
Di nuovo il Mago levò la bacchetta, e al di sopra dei grigi negozi fiorirono le insegne di nuove ditte. Desideri a lungo coltivati poterono finalmente realizzarsi. E adesso? Adesso, disse il Mago alla gente, tutto andrà in modo facile e rapido. Non se ne sarebbero quasi accorti, avrebbero dovuto accettare solo una minuscola condizione: dovevano sforzarsi un poco e diventare come tutti quei giovanotti di successo con la ventiquattr’ore che lui s’era portato di supporto e a titolo d’esempio, e, a questo mondo grande e bello, avrebbero dovuto immaginarsi qualsiasi cosa tranne che ci potesse essere qualcuno desideroso di vivere diversamente da loro.
Ma volentieri, dissero in molti. Solo pare che ci sia qualche lieve difficoltà. Perfino i più svelti e abili, che si applicano come non hanno mai fatto in vita loro e che vanno proprio bene – perfino loro, commisurati agli originali, continuano a sembrare delle imitazioni piuttosto malriuscite. Provi a immaginarsi che nell’economia pianificata non ci sia stato bisogno di quell’ampia e varia tavolozza di tipi umani, dalla quale invece può attingere la libera economia di mercato, e che perciò essa a conti fatti non si sia prodotta affatto. Questo era uno stato di funzionari e di piccoli lavoratori. Chi voleva risaltare, doveva sviluppare fantasia, anche coraggio – a seconda di ciò che aveva importanza per lui. Da dove prendere dunque, tanto per fare un esempio, il bancario, di cui ora c’è urgente bisogno, in questo pool umano piuttosto uniforme? Sicché è proprio un caso fortunato ed eccezionale se il signor X della nostra banca, la quale tra l’altro adesso si chiama in modo diverso dal passato, sente dire con inesprimibile orgoglio dal nuovo superiore che collaboratori come lui non se ne trovano tutti i giorni neanche all’Ovest. Lui dunque è ancora utilizzabile. – O l’esperto agente delle assicurazioni compenetrato nella logistica e negli interessi e nell’etica della sua società: da dove può venire così all’improvviso? Di là, naturalmente (continuiamo a dire “di là”, in tutte e due le parti della città, ma perlomeno siamo consapevoli che dobbiamo smetterla!).Viene inviato come un pioniere in territori inesplorati. Ma in qual modo può impedire che i suoi nuovi collaboratri – persone del posto, per esempio sociologi laureati e licenziati – al cospetto dei potenziali clienti non armeggino nervosamente nella pila di fogli e tabelle e non confessino infine che anch’essi trovano “indecifrabile”, “complicato” e un pochino “esagerato” tutto questo sistema assicurativo? Per non parlare del sistema tributario. Imbarazzante ammetterlo, ma prima, nella nostra situazione egualitaristicamente arretrata, mio marito impiegava una mattinata per le nostre due dichiarazioni dei redditi.
Oggi – no; non una parola di più. Solo questo: visto che ci mettono pubblicamente in guardia dagli inesperti consulenti tributari dell’Est, ricorriamo ai servizi degli occidentali. – E i dirigenti delle molte aziende un tempo nazionalizzate, che ora vengono privatizzate – chi ce li fornisce? Per non parlare dei piccoli imprenditori e dei commercianti, che non solo non hanno lo know-how, ma soprattutto il capitale, per rilevare i molti ristoranti, librerie, tipografie, fabbriche di pelli e case editrici, che i grossi gruppi industriali hanno lasciato in margine. Pensa forse che tanti cittadini dell’Est abbiano potuto risparmiare al punto da essere ora in grado di concorrere all’offerta, se il loro negozio o la loro ditta viene venduta all’asta? Ma nascerà un nuovissimo ceto di immigrati! Certamente. E le persone del posto in gran massa torneranno a fare da impiegati e operai? Ma naturalmente, e in tal caso si potranno dire comunque fortunati. E guardi: di contro al numero relativamente scarso di nuovi arrivati appartenenti alla classe proprietaria, è a frotte che si trasferiscono i più mobili tra i giovani di qui. Evitare una cosa del genere era, forse vagamente se ne ricorderà, uno dei motivi dichiarati della frettolosa unione monetaria. – “Berlino terra a maggese”? Oh sì.