Droni e tamponi

La missione della portaerei americana Theodore Roosevelt si è interrotta al porto di Guam, su un’isola della Micronesia, nell’oceano Pacifico. Trecento metri di lunghezza, 5mila membri di equipaggio, la Roosevelt fa parte della flotta di 11 portaerei con cui gli Stati Uniti proiettano potere nel mondo. Sono il simbolo della potenza da combattimento degli Stati Uniti, forse l’ultimo. All’inizio di gennaio la portaerei Roosevelt inizia il pattugliamento nel mar cinese meridionale e nel mare delle Filippine. Il 4 marzo attracca nel porto vietnamita di Da Nang, per una visita di 5 giorni. Sono previsti scambi culturali e servizi di comunità. I marines fanno giardinaggio, scambi linguistici, sport, pittura. La portaerei riprende la navigazione, parte del piano del Pentagono per dirottare risorse e obiettivi dal Medio Oriente alla “competizione con le grandi potenze”, Russia e Cina. Il 24 marzo scatta l’allarme: 3 marines sono positivi al coronavirus. La nave è un’incubatrice naturale. I contagiati crescono in fretta. Il 30 marzo il capitano Brett Cozier invia una lettera accorata ai superiori, che finisce su un giornale locale, poi fa il giro del mondo. “La situazione è fuori controllo”. La nave da combattimento va sacrificata. Serve un’immediata evacuazione. Il mastodonte marino attracca al porto di Guam. I primi contagiati vengono trasferiti sulla terraferma. I vertici rimuovono il capitano Cozier. Il danno è incalcolabile. Non succedeva dalla seconda guerra mondiale che una portaerei americana venisse messa fuori gioco. Questa volta non da uno Stato-nazione, ma da un virus.
“La guerra al virus”, gli eroi di guerra, la battaglia campale, i poteri speciali, lo stato di eccezione. La narrazione della pandemia è impastata di linguaggio guerresco. “Gli Stati Uniti sono in guerra con un nemico invisibile, stiamo schierando tutta la potenza della nazione americana – economica, scientifica, medica, militare – per sbaragliare il virus”, assicura il presidente Donald Trump. “Come a Pearl Harbour”, “Più morti dell’11 settembre”, titolano i quotidiani americani. Siamo in guerra, recita con toni marziali il presidente francese Macron. L’ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi esorta alla mobilitazione di guerra: serve debito pubblico. Uno sforzo finanziario molto superiore al piano Marshall. Boris Johnson, prima tentennante, promette un “piano di battaglia”, per poi finire in terapia intensiva.
Confinamento, sorveglianza digitale, poteri speciali, sospensione delle libertà individuali. Come in guerra, si tornano a comparare regimi liberali e sistemi autocratici, a riflettere sul precario equilibrio tra protezione e sopravvivenza. Qualcuno scalpita. Molti, già inclini, accettano l’emergenza: è quel “velocissimo adeguamento del corpo sociale a un nuovo regime di confino di massa” di cui ha scritto Vittorio Giacopini. Rimanda forse a un inconscio politico, ma si nutre di una cultura politico-istituzionale diffusa, con precedenti specifici che l’hanno consolidata. Il più recente e rilevante è quello della lotta al terrorismo, quando il pendolo tra libertà individuali e sicurezza collettiva è tornato a oscillare. Rimanendo inclinato. La narrazione guerresca sul coronavirus viene da qui, dalla guerra al “terrore”, nemico invisibile e diffuso. Le similitudini non riguardano solo i topoi narrativi, le retoriche adottate da media, poteri pubblici e privati, ma le stesse strategie di contenimento: droni e tamponi. Che rivelano una cecità comune. E un fallimento inevitabile. Partiamo dalla guerra al terrore.
Inaugurata con il rovesciamento nel 2001 dell’Emirato islamico d’Afghanistan, il regime talebano colpevole di aver dato ospitalità a Osama bin Laden, combattuta da due decenni, la guerra al terrore ci ha già fatto perdere parte delle nostre libertà individuali in cambio della “sicurezza collettiva”; in suo nome, le tecnologie digitali sono già state usate come strumento di controllo e monitoraggio; le risorse finanziarie già dirottate per operazioni di profilassi del mondo; le decisioni di rilevanza sociale già delegate all’esecutivo e agli “esperti”, ai tecnici, agli strateghi militari. Dopo vent’anni, si possono tirare le somme.
Gli Stati Uniti, protagonisti assoluti, hanno speso miliardi di dollari nel controterrorismo, alla ricerca dei jihadisti, che però continuano a vantare presenze significative in Siria, Iraq, Libia, Afghanistan, Pakistan, Yemen, corno d’Africa, Sahel, Maghreb, sud-est asiatico. Le organizzazioni del salafismo-jihadista, i militanti e combattenti totali sono aumentati, i Paesi colpiti raddoppiati dal 2007 al 2014, certifica il Global Terrorism Index. Alti costi, scarsi benefici: la strategia di contenimento non funziona. La guerra al terrore si basa su un assunto sbagliato.
Dall’immediato dopoguerra, la premessa della politica statunitense è stata che proiettare potere globalmente avrebbe garantito la sicurezza degli americani in casa. Quell’idea, e l’apparato militare-amministrativo che la rende praticabile, è sopravvissuta alla fine della Guerra fredda, e ha finito con l’orientare le politiche della sicurezza di molti altri Paesi, rafforzandosi con la torsione della guerra al terrorismo. La sicurezza nazionale corrisponde a quella dello Stato, non alla sicurezza della società, dei membri della comunità politica. Tanto meno alla loro salute, o alla salute globale. Per assicurare la sicurezza statale serve un grande dispiegamento di mezzi militari, ingenti risorse. Il bilancio della Difesa degli Usa è di 750 miliardi di dollari, quello cinese è passato dai 60 miliardi del 2008 ai 240 nel 2018. Negli Usa, il budget federale per tutti i programmi di sicurezza della salute nel 2019 era di 13,6 miliardi. Per il 2021, la richiesta dell’amministrazione Trump per i soli programmi sulle armi nucleari è di 46 miliardi. La ricerca internazionale sui pericoli biologici viene derubricata ad accessoria, si investe invece in quella sui missili ipersonici. Per il Pentagono stiamo tornando a un’era di “great power competition”. Servono flotte più ampie, nuovi bombardieri, missili più veloci e di più lunga gettata. Ma mentre la campagna Sbilanciamoci e la rete Disarmo ci fanno sapere che in Italia abbiamo 107 aziende di armi e una soltanto che produce respiratori, e che a Cameri, in provincia di Novara, continua la produzione dei cacciabombardieri F-35, la portaerei americana Roosevelt è ferma al porto di Guam. Simbolo di un potere spuntato. Di una necessità solo apparente. Di una concezione sbagliata della sicurezza e del rischio.
Nel blocco euro-atlantico vige l’assunto che la sicurezza possa essere assicurata con risposte militari. “Il paradigma del controllo” lo chiama Paul Rogers, autore di Irregular War: Isis and the New Threat from the Margins: la forza militare come ultima garante della sicurezza del mondo. Un paradigma dispiegato appieno nella guerra al terrore, inefficace. Le campagne di eliminazione mirata, con i droni che polverizzano dall’alto il barbuto di turno, l’invio di eserciti di occupazione, i bombardamenti di intere città per stanare i ribelli, sono tattiche di contenimento forse efficienti nel breve periodo, ma inefficaci nel lungo. Al-Qaeda, Boko Haram, al-Shabaab, lo Stato islamico. Si affronta militarmente il picco epidemico. Alcuni gruppi sembrano capitolare, si indeboliscono, per poi tornare ad affermarsi, più forti di prima, sotto nuove vesti. Emergono e si inabissano, mutano, per poi riemergere. Un po’ come i virus.
La lotta al terrorismo è fatta di una continua, rinnovata emergenza, di una minaccia sempre di nuovo imminente. L’emergenza viene affrontata puntando ai sintomi, alle manifestazioni più evidenti. Al rischio presente o percepito come tale. L’emergenza oscura il contesto, le matrici. L’insicurezza globale non è causata dal terrorismo dei jihadisti, ma dalle crescenti divisioni socio-economiche, figlie di un’economia politica che esclude ed espelle, e da crescenti limiti ambientali, come vedremo. Le rivolte ai margini, di chi è tagliato fuori da ogni contratto sociale, perché ne viene espulso o perché sa di non poterne mai entrare a far parte, oggi hanno una connotazione islamista. Ma sono destinate ad aumentare e a diversificarsi. Stiamo nell’età delle insorgenze, sostiene Paul Rogers. Un ambiente globale di fragilità, instabilità, violenza e guerra irregolare. Minacce ambientali e nuove pandemie.
La guerra al virus si nutre della stessa retorica della guerra al terrorismo, segue la stessa logica di emergenza, produce squilibri simili tra libertà e sicurezza collettiva, si affida alle stesse premature dichiarazioni di vittoria – “sconfitto l’Ebola”, “abbattuto lo Stato islamico”. I tecnici, gli strateghi militari qui sono gli epidemiologi, esponenti di una “scienza difensiva”, non più predittiva e preventiva, ha spiegato Enzo Ferrara. “Epidemiologi e unità di salute pubblica sono chiamati a pulire il casino del sistema, a razionalizzarne le emergenze”, come i generali americani impantanati da vent’anni nel conflitto afghano. “Quella dell’epidemiologia è una professione con compiti post-hoc”, ha sintetizzato Rob Wallace, autore di Big Farms Make Big Flu. Dispatches on Influenza, Agribusiness, and the Nature of Science. Muoviamo guerra ai picchi epidemici, alle manifestazioni più visibili – Ebola, Nipah, Zika, febbre Q, H1N1, H1N2v, H3N2v, H5N1, H5N2 – non alle cause, rimosse dagli imperativi dell’emergenza.
Come per il terrorismo, le “cause delle malattie” non ci interessano. Ci interessa l’Ebola qui e ora, non la trasformazione delle foreste a merci, la riduzione della soglia ecosistemica, la frattura metabolica tra economia ed ecologia, tra aree urbane e rurali. Monoculture, deforestazione, allevamenti intensivi, collasso delle funzioni ecologiche: le matrici dell’accelerazione degli spillover non ci interessano. Come per il terrorismo, le “cause delle cause delle malattie” sono considerate superflue. Il paradigma fossile-centralistico, la dipendenza da materie prime finite, la cesura economicamente ed ecologicamente decisiva tra economia organica ed economia minerale, sfruttata dall’Occidente ma irripetibile su scala planetaria: non ci interessa quanto ci spiega da anni Wolfgang Sachs.
Fuori dalla logica di emergenza, dalla logica curativa, una diagnosi di salute del mondo ci dice che jihadisti e virus provengono dallo squilibrio radicale di ricchezza, diritti, libertà, dalla rottura del metabolismo tra uomo e biosfera. Droni e tamponi non bastano. Non bastano strateghi militari ed epidemiologi difensivi. Serve la politica: individui e popoli che reclamino giustizia sociale ed ecologica.