Dossier Marche: appunti su una regione smarrita
(disegno di Roberto Catani)
Dalla facciata del palazzo comunale di Macerata un’immagine della Madonna guarda la piazza principale della città. Ai suoi lati, su due lastre di marmo, è incisa l’epigrafe Civitas Mariae. Era il 1952 quando il Consiglio comunale approvò il Voto di consacrazione della Città alla Madonna della Misericordia. Quel simbolo religioso sovrapposto al simbolo del potere civile racconta molte cose di questo capoluogo di provincia di recente sbattuto suo malgrado sulle prime pagine dei giornali di tutta Europa. Intimamente democristiana e democristianamente modellata nell’arco di cinque decenni, questa piccola città è stata sapientemente amministrata assorbendo i conflitti e intorpidendo i fermenti latenti nel corpo di una delle più antiche università italiane. Una città tranquilla, operosa, impermeabile. Anche qui, come altrove, le prime elezioni dirette del sindaco, nel 1993, mescolarono le carte. Per la prima volta il centrosinistra conquistò il governo locale, naturalmente con un candidato cattolico come garante verso l’elettorato più moderato (e con un candidato ex comunista – negli anni successivi folgorato da Berlusconi – a capo della coalizione guidata dalla Democrazia cristiana: una città impermeabile, è vero, ma non al trasformismo). Ma la normalizzazione non tardò a venire, e il governo di centrosinistra dei nostri giorni appare come un baluardo della continuità, non come il motore del cambiamento. Tanto per dire (perché i simboli sono importanti), il Consiglio comunale ha scelto di celebrare in pompa magna il sessantesimo anniversario della propria genuflessione alla religione cattolica, celebrata come scelta illuminata e densa di valori attuali.
Mentre il ceto politico si attardava a rinverdire i fasti del culto mariano, non si accorgeva delle profonde trasformazioni sociali che attraversavano la comunità, fino a che la città si è risvegliata improvvisamente, irriconoscibile a se stessa, scossa da due vicende destinate a segnare la sua identità per lungo tempo: una ragazza stuprata, uccisa e fatta a pezzi da uno spacciatore nigeriano; un leghista fascistoide che decide di vendicarla sparando da un’auto in corsa per le strade della città mirando a tutti i passanti di pelle nera e ferendo sei immigrati.
Sarebbe stata necessaria una vera inchiesta per capire la reazione dei cittadini rispetto a questi fatti ed evitare facili generalizzazioni, ma è indubbio che il tradizionale silenzio che caratterizza la vita del capoluogo abbia stavolta fatto da involucro a una malcelata simpatia nei confronti del vendicatore, indirettamente confermata dall’incredibile exploit della Lega (fino ad allora inesistente in città) alle elezioni europee, poco più di un anno dopo. Quel silenzio da interrogare ha trovato un terreno di coltura nell’inerzia del Comune, in fuga dalle proprie responsabilità istituzionali, incapace di allontanare la paura e di raccogliere la comunità intorno a una reazione civile. Ancora una volta, i simboli sono importanti: la visione delle splendide mura quattrocentesche tornate in modo del tutto anacronistico alla loro funzione originaria – la difesa dagli invasori – e delle sue porte presidiate da poliziotti armati per impedire a chiunque l’accesso – reazione scomposta contro la manifestazione nazionale che ha portato in città la linfa vitale che sembrava averla abbandonata in quei giorni drammatici – rinnova l’immagine di isolamento che caratterizza la storia della città.
Le ragioni di questa condizione non vanno cercate solo nei confini di questo antico borgo adagiato sulle colline, e non parlano di una sola città. La zona sud-est della provincia di Macerata e la zona nord-est della provincia di Fermo ospitano il distretto calzaturiero. Più a nord, nella provincia di Pesaro-Urbino, è insediato il distretto del mobile. Insieme, questi due poli rappresentano il motore dello sviluppo economico che ha segnato la storia della regione nel dopoguerra, fino alla crisi degli anni Duemila. Gli studi sociologici –nati nel fermento di una fertile stagione di studi universitari inaugurata ad Ancona da Massimo Paci agli inizi degli anni Settanta – hanno ricostruito i caratteri peculiari del modello di sviluppo marchigiano. Due aspetti, in particolare, proiettano la propria ombra fino ai nostri giorni: il limite nella capacità di innovazione testimoniato dagli scarsi investimenti tecnologici che si traducono in alta intensità di sfruttamento del lavoro (con annesso il ricorso assai ampio al lavoro nero); la contiguità – alle origini – tra il mondo manifatturiero e il mondo mezzadrile. Da qui deriva una caratteristica di lunga durata: il ruolo centrale della famiglia nel sistema produttivo. Questa centralità ha rappresentato anche uno strumento di difesa nei confronti dei meccanismi distruttivi del mercato. Karl Polanyi aveva indicato con grande lucidità nel suo studio fondamentale (La grande trasformazione, uscito nel 1944 e in Italia pubblicato da Einaudi nel 1974) le conseguenze devastanti dell’inclusione degli esseri umani nei dispositivi dello scambio e le modalità con cui le comunità hanno cercato di proteggere se stesse nel corso di diverse epoche storiche.
Il modello marchigiano ha interpretato questo ruolo protettivo in modo ambivalente, perché ha assorbito le tendenze disgregatrici della concorrenza in un ambito ristretto e chiuso. Le Marche non hanno generato un forte sistema associativo e cooperativo in grado di costruire una dimensione collettiva e politica delle forme di autoprotezione dal mercato, e oggi ne scontano la mancanza. I fattori esterni (la lunga crisi economica, la crisi del sistema politico), i fattori locali (l’involuzione del governo regionale, in mano al centrosinistra da più di vent’anni e ora incapace di incidere sui temi cruciali) e le catastrofi naturali (i terremoti che tra il 2016 e il 2017 hanno colpito intere comunità, ancora in attesa dell’avvio della ricostruzione) hanno trovato minori anticorpi in un tessuto sociale strutturato in modo prevalente intorno a forme chiuse e individualistiche di organizzazione economica e sociale nelle quali la disillusione, la rassegnazione e il rancore si radicano e crescono in misura maggiore che altrove.
Per ragionare su questi e altri nodi, abbiamo raccolto voci in grado di guardare in direzioni diverse e di muoversi tra il passato e il presente di questa regione smarrita.