Doposcuola, oltre la scuola
Le acquisizioni di un’esperienza decennale
Mi sembra necessario abbozzare rapidamente quali sono i punti chiave che l’esperienza di Doposcuola portata avanti in questi anni a Riosecco, un quartiere periferico di Città di Castello (provincia di Perugia) ha messo in evidenza e ha chiarificato, rispetto al progetto originario. Trent’anni di lavoro quotidiano pomeridiano con i ragazzi delle medie sono un periodo abbastanza lungo per permettere a certe intuizioni di prendere corpo e di solidificarsi. Cercherò appena di accennare, per non ripetere cose già sufficientemente spiegate altrove.
Il Doposcuola è un altro tipo di scuola
Sono convinto che la nostra esperienza sia in sostanza un modo di fare scuola diverso da quello tradizionale, sia per la concezione di cultura a cui ci rifacciamo, sia per il metodo che adottiamo. La nostra prospettiva è quella di una cultura aperta, inconclusa, di cui i ragazzi debbono essere gli artefici e non i destinatari. Mettere l’accento su questo aspetto vuol dire dare la parola ai ragazzi, mettersi al loro fianco e accettare la comunicazione dal basso, promuovere l’autogestione e l’assunzione di responsabilità, interrogarli e interrogarsi continuamente. Quando ci si pone consapevolmente su questa linea, si mette in atto una rivoluzione copernicana rispetto al modo consueto di intendere la scuola e le conseguenze pratiche non possono che apparire preoccupanti per chi si muove nell’ottica inversa. Alla trasmissione fissa e invariabile delle nozioni subentra l’interesse per il mondo mobile e incerto della vita e della cronaca; ai programmi rigidi, che presuppongono e richiedono a tutti lo stesso tipo di sviluppo e di abilità, un ascolto dei ragazzi reali con i problemi che variano secondo gli spostamenti e le fluttuazioni della cultura e del momento storico; alla fissità dell’insegnamento, la plasticità della ricerca, che può dare la sensazione della frammentarietà e della disorganicità, ma che è il solo atteggiamento in grado di coinvolgere davvero i ragazzi e di far loro amare le cose che vanno scoprendo.
Sotto il profilo del metodo, ci preoccupiamo più della qualità del rapporto che si stabilisce fra i ragazzi e con l’educatore, che degli ultimi gridi delle tecniche. Ci interessa evitare qualsiasi forma di autoritarismo, sia quello aperto e smaccato, sia quello velato e subdolo che non ascolta le persone, ma le trascina a loro insaputa. Ho già messo in evidenza lungamente quanto sia connaturata all’istituzione scolastica la caduta autoritaria, per il fatto di dover raggiungere certi risultati e per la prospettiva di cultura rigida che le fa da supporto.
L’esperienza del Doposcuola, invece, si rivolge alla libertà dei ragazzi, fa perno sulla loro collaborazione, per raggiungere risultati non prestabiliti da qualcuno sulla loro testa, ma individuati con loro e per loro mezzo. L’aver privilegiato la correttezza del rapporto educativo rispetto ai contenuti di cultura ci spinge a sobbarcarci in un cammino e a sentirci coinvolti in un intreccio di relazioni, che a volte l’insegnante di scuola media rifiuta, fuggendo nel ruolo di tecnico della sua materia, oppure che non può assumere, perché la struttura intellettualistica e burocratica della scuola non glielo permette. La nostra impostazione metodologica ci consente di guardare perciò in un altro modo la figura dell’adulto che vive con i ragazzi e di liberarla da ogni residuato sacrale, rimettendola in circolo nella vita comune come un soggetto fra gli altri soggetti, che dà e riceve contemporaneamente, senza pretendere l’esclusiva né sul sapere né sulla saggezza. Anche i simboli del sapere codificato, come il libro di testo, acquistano tutt’altro senso, perché in una prospettiva scolastica dove la ricerca prevale sull’insegnamento i libri tornano a essere quello che sono, semplici strumenti di lavoro e non depositi di chissà quali verità. Insomma il Doposcuola è il tentativo di elaborare una cultura e di adottare un metodo alternativo a quello della scuola, non per il gusto della contrapposizione a ogni costo, come esige un certo sinistrismo di maniera, ma in uno sforzo continuo di creatività e di superamento della cultura già fatta e imposta e per un senso di rispetto profondo della personalità dei ragazzi.
Attualmente non possiamo proporci né l’obiettivo d’integrare, né quello di scorporare i ragazzi dalla scuola. Se ci limitassimo a integrare nella scuola, come fanno i doposcuola scolastici che si limitano all’esecuzione dei compiti, rimarremmo subalterni all’ottica della scuola e non avremmo niente da dire; se pretendessimo di essere una istituzione separata che vive una sua vita autonoma e che si contrappone alla scuola, non potremmo venire incontro alla realtà dei ragazzi, che vivono pur sempre una doppia appartenenza che ha bisogno di mediazione. Cerchiamo perciò col nostro tentativo di indicare un altro metodo e un’ultra prospettiva culturale che non siano omogenei alla scuola attuale, ma dobbiamo nello stesso tempo tenere conto dei risultati scolastici, dei problemi che ne emergono per i ragazzi e per le famiglie. Siamo come costretti in una situazione di equilibrio instabile che ci obbliga a mediare i conflitti, per poter continuare l’esperienza e per affermare le intuizioni che ci sembrano giuste. Del resto, questa precarietà mi sembra la condizione strutturale di tutte le iniziative che cercano di anticipare realtà nuove, ma senza poterne offrire una figura consolidata a causa del persistere delle antiche. In un tempo di sommovimenti giganteschi in tutti i campi mi sembra un atteggiamento ragionevole e paziente.
Il Doposcuola non è per tutti
Si tratta di uno dei punti nodali che l’esperienza ha chiarito cammin facendo e che non avevo valutato in tutta la sua portata nel progetto iniziale. Col volgere degli anni mi sono accorto che il tipo di vita che conduciamo non è adatto per i ragazzi ai quali sta bene la cultura scolastica e la vita borghese. Per solito i figlioli che provengono da ceti più elevati o che hanno interiorizzato i modelli borghesi dopo un certo periodo danno chiari segni di impazienza; si accorgono, per esempio, che nel Doposcuola manca loro il tempo per uniformarsi alle richieste della scuola e per coltivare l’ambizione di emergere su tutti gli altri. I1 lavoro che noi facciamo nella prima parte può essere interpretato da loro o dalla loro famiglia come una perdita di tempo rispetto agli obiettivi che la scuola propone. Come notavano giustamente i ragazzi di Barbiana, un’ora passata sopra il giornale nel periodo degli esami è un’ora strappata alla propria avarizia)). Un’ora di discussione su un argomento che non serve a far diventare i primi della classe, perché non ha un riscontro scolastico, può apparire tempo perso per chi ha un certo tipo di ambizioni.
I bravi ragazzi che a scuola vanno bene non hanno motivi sufficienti per partecipare a questa esperienza. Dedicare parte del proprio tempo ad aiutare gli altri può significare, in un’altra ottica, essere distolti dal proprio lavoro; vivere in gruppo e sforzarsi di creare una comunità può essere letto come appiattimento dell’individualità; l’attenzione ai più deboli come una detrazione alla propria crescita. E talvolta succede che qualche insegnante faccia leva su questa prospettiva capovolta, per ricordare ai ragazzi che il Doposcuola non è adatto per loro, se vogliono diventare bravi, perché non c’è tempo per studiare. Naturalmente chi è emarginato dalla cultura ufficiale, perché non può raggiungere certi risultati ed è giudicato stupido, incapace, inadatto allo studio, si accorge subito che nel Doposcuola c’è posto per lui, che le sue potenzialità vengono accolte e valorizzate, che non c’è da assoggettarsi a nessuna competizione, che lo troverebbe sempre svantaggiato, per vivere in questo ambiente. Pian piano s’accorge che anche lui è capace a parlare, a dire la sua opinione su un determinato argomento, comincia a credere alle sue capacità e ad avere fiducia in se stesso. La sua umanità viene accettata così com’è, senza che sia costretto a falsarla e i tempi della sua crescita vengono rispettati, senza che egli sia giudicato. Naturalmente il giudizio scolastico colpisce i ragazzi che vengono per lo più dalla classi popolari e per forza di cose il Doposcuola, accogliendoli, si qualifica come spazio privilegiato per loro. È una connotazione che nasce dalla realtà delle cose; non da assunti ideologici che si prestano alla enfatizzazione e alla propaganda e da cui ho sempre cercato di prendere le distanze. Si potrebbe dire che il Doposcuola è “selettivo”, non per un apriori ideologico, ma per l’accoglienza privilegiata riservata a chi è più in difficoltà e a chi è più emarginato.
La scuola, che sostanzialmente canonizza la cultura medio-borghese, non può ammettere che questi soggetti siano portatori di valori e tende a escluderli, a condannarli all’insignificanza o, al massimo, a tollerarli benevolmente; il Doposcuola, come luogo in cui vengono accolti, si caratterizza per l’accettazione dei valori di cui questi ragazzi sono portatori, per la comprensione delle loro vicende psicologiche a volte dure e contorte, per un’opera paziente e graduale di promozione. Mettersi al passo dei più deboli significa non porsi limiti di tempo, aver poca venerazione per le vacanze, lavorare sodo per fornire ai ragazzi gli strumenti culturali di base, “leggere, scrivere e far di conto” come si esprimevano gli antichi.
In conclusione, l’esperienza del Doposcuola può andare bene solo per coloro che si trovano a disagio nell’immobilismo della cultura ufficiale e che hanno una forte esigenza di cambiamento, in vista di una società meno classista e meno violenta, in cui anche i poveri e gli emarginati abbiano il diritto di danzare la loro danza e di cantare la loro canzone.
Il Doposcuola deve promuovere una cultura popolare
È la conseguenza precisa di tutta l’impostazione del nostro lavoro. Il tentativo di dare la parola ai ragazzi che provengono dalle classi popolari o che vengono rifiutati dalla scuola ufficiale, di allenarli alla fiducia in se stessi e nelle loro possibilità, di abituarli a decidere a scegliere, sbocca nella elaborazione di un proprio modo di leggere la vita, ossia di una cultura popolare. Era il grande obiettivo di don Milani: portare i ragazzi a sentirsi e ad essere protagonisti, a non abdicare ai valori della propria cultura per scimmiottare quelli, spesso vuoti e fasulli, della classe borghese.
Le condizioni socio-politiche hanno subito profondi rivolgimenti, ma il nostro compito resta identico: fare in modo che la gente semplice diventi soggetto delle proprie decisioni contro tutte le mode che manipolano la gioventù e contro le pratiche consolidate che sottraggono agli adulti la propria capacità decisionale. Oserei dire, anzi, che questo obiettivo diventa ancora più urgente, perché il potere di manipolazione della società dei consumi diventa sempre più spregiudicato e invadente, passando come un rullo compressore sopra qualsiasi germoglio di umanità e determinando un impoverimento senza precedenti nella storia della civiltà. Siamo diventati un “Terzo Mondo” spirituale, se è lecito usare questa espressione, tratta dal gergo razzista con cui i paesi benestanti qualificano quelli economicamente più poveri.
Si esce da questa condizione oppressiva puntando non solo sui grandi cambiamenti politici, ma attivando le risorse di umanità, di libertà, di creatività che vivono pur sempre in ogni uomo, specie in quelli che non hanno mai avuto diritto alla parola. Qualcuno parla di “rivoluzione della vita quotidiana” per esprimere questa fermentazione della massa umana e io sono dell’idea che anche il nostro tentativo di educazione si muove in questa direzione. Le proposte che continuamente facciamo per un superamento della competitività, della violenza, per un’alternativa di vita fraterna, per un oltrepassamento della cultura del possesso e del dominio, sono fermenti che nei tempi lunghi lavoreranno nell’anima dei ragazzi e degli adulti con cui veniamo a contatto e potranno produrre una crescita della coscienza morale e una cultura popolare meno schiava dei modelli dominanti.
Il lavoro mensile con i genitori è un modesto tentativo di farli parlare davvero, di partire dalla loro situazione reale, per promuovere un dialogo in cui vengono ascoltati, presi sul serio, criticati e non indottrinati. Non si tratta del colloquio scolastico in cui ciascuno viene a sentire “come va il proprio figlio”, ma di un confronto a più voci su tutti i problemi che pone oggi l’educazione dei ragazzi. Crediamo senza presunzione che, pur con tutti i suoi limiti, possa essere qualificato come un piccolo tentativo di promozione della cultura popolare, soprattutto perché è finalizzato alla crescita reale dei partecipanti e a un confronto senza timori riverenziali in base a quello che pensano realmente. In ogni modo diventa sempre più chiaro che, se il nostro lavoro ha un significato, è quello di essere un servizio per questa gente del popolo che non potrà mai arrivare a scambiarsi i complimenti della cultura, ma nel contatto con la quotidianità e la durezza della vita ha mantenuto una sua genuinità.
Il Doposcuola come luogo di vita per gli adolescenti
Il Doposcuola si rivolge ai ragazzi che vivono una fase particolarmente delicata dell’età evolutiva. Quando arrivano in seconda media si trovano quasi tutti in piena crisi puberale e cominciano le prime manifestazioni di curiosità e di interessi eterosessuali, le prime vicende emotive, specie per le ragazzine, i primi conflitti con le figure parentali. Siamo continuamente alle prese con l’adolescenza e con i problemi molteplici e vari che comporta, da quello dell’identificazione personale a quello dei rapporti col gruppo e alle dinamiche che ne scaturiscono.
Il Doposcuola tende perciò a qualificarsi come luogo dove i ragazzi possono vivere questo capitolo fondamentale della loro esperienza umana in maniera serena e liberante. I1 sostegno che noi offriamo è quello di illuminare cosa sta succedendo loro, di liberarli dall’isolamento in cui ogni adolescente tende a chiudersi, di mediare il conflitto con i genitori, di proporre uno stile di vita improntato alla fraternità e all’impegno per gli altri. Leggendo le reazioni dei ragazzi, soprattutto la serenità di fondo che caratterizza, al di là degli inevitabili conflitti, la nostra vita, mi sembra che la nostra risposta ai bisogni adolescenziali sia sostanzialmente corretta. Da parte nostra cerchiamo di evitare nel rapporto con gli adolescenti due eccessi uguali e contrari: l’individualismo e la politicizzazione affrettata. C’è tutta una tradizione borghese, contro la quale ha vivamente polemizzato Lettera a una professoressa che, in nome degli ideali di libertà e di sviluppo della personalità, educa a un individualismo esasperato che fa della propria riuscita personale la misura di tutte le cose, senza valutare quanto questa pretesa libertà sia semplicemente il riflesso della struttura sociale e dei suoi valori. Noi ci sforziamo invece di aiutare i ragazzi a misurarsi con gli altri e a comprendere come ci appartenga solo quello che abbiamo donato. Ricordiamo loro che una libertà senza amicizia è solo un’altra forma di illusione e un modo più sofisticato di non voler incontrare nessuno nella propria vita.
D’altra parte non mi sembra convincente né rispettosa nemmeno quella frettolosa politicizzazione, frutto più di slogan che di vera crescita umana, che andava di moda nei movimenti studenteschi qualche anno fa. Ho l’impressione che si paghi un tributo troppo alto all’ideologia e agli inevitabili schematismi che comporta. Preferisco avviare i ragazzi a una esperienza concreta di fraternità, dove il rapporto con gli altri è reale, per far cogliere che la politica è l’impegno per una fraternità semplicemente più ampia, anche se questo comporta conoscenze precise economiche e tecniche. Penso che una politicizzazione vera deve essere sostanziata d’impegno etico, altrimenti si scade nel tecnicismo e nell’astrattezza ideologica, dove ci si balocca con le idee, senza accorgersi dell’uomo reale che si vorrebbe liberare.
In conclusione, cerchiamo di attenerci a un fondamentale rispetto per i ragazzi che crescono: camminiamo insieme a loro e non vogliamo andare da nessuna parte senza di loro, con profonda attenzione alla loro libertà; ma nello stesso tempo proponiamo, critichiamo, lottiamo appassionatamente, perché questa libertà non si riduca a un egoistico e solitario privilegio. In questa tensione fra passione e rispetto, fra proposta e ascolto, fra presenza e distacco il lavoro educativo diventa opera d’amore.
Per maggiori informazioni consigliamo la lettura di Insieme. Racconto ragionato di un’esperienza educativa di Achille Rossi, Edizioni l’Altrapagina, Via della Costituzione 2 06012 Città di Castello (Perugia), segreteria@altrapagina.it