Domande sulla sanità in Lombardia
Ormai è chiaro. La pandemia Covid-19 è anche un test di tenuta del Servizio sanitario nazionale (Ssn) nel suo insieme e nelle sue articolazioni regionali (Ssr). Alla prova del virus, le persone hanno visto il Servizio Sanitario della propria regione reggere bene o soccombere, in parte o del tutto. Per la prima volta, anche chi non se ne era mai interessato, si è forse domandato se impianto e funzionamento del proprio Ssr fossero adeguati. La risposta è stata negativa per qualcuno. Non erano adeguati. Ma non è stato così per tutti i Ssr, alcuni sono stati del tutto all’altezza della sfida, almeno per ora.
Un po’ alla volta è stato possibile intendere che esistevano delle differenze, a parità o quasi di diffusione del virus. Si è capito che una configurazione di Ssr era meglio di un’altra perché facilitava comportamenti di contrasto della pandemia opportuni ed efficaci e aveva risvolti positivi sulla velocità di intervento. Nei casi di una risposta apparsa appropriata a posteriori, giustamente non si è pensato che questi buoni risultati potessero essere dovuti a una combinazione casuale di fattori positivi. Anche se, in un caso almeno, il fortunato ritorno in Italia e il contemporaneo incarico all’Università di Padova di un medico romano di fama internazionale, esperto nello studio e controllo delle epidemie, e disponibile a offrirsi come consulente del Ssr, può essere stato un fattore decisivo, che si è aggiunto ad altri più strutturali, per il riconosciuto successo di una delle regioni del Nord fra le più colpite: il Veneto.
La Lombardia è stata forse la regione che ha stimolato il maggior numero di domande sull’efficacia del suo Servizio sanitario sia presso i propri cittadini, sia nel Paese. Come si potevano spiegare esiti così catastrofici al passaggio della pandemia in una Regione supposta eccellente nel settore della sanità? 16mila morti circa dall’inizio della pandemia ai primi giorni di giugno 2020. Dagli altari alla polvere, perché? Data per scontata l’impreparazione dovuta alla non disponibilità dei vaccini e di cure farmacologiche adeguate, comunque trasversale a tutte le regioni, per quanto riguarda altri tipi di impreparazione o di inadeguatezza, da identificare, si trattava di carenze gestionali o di carenze dovute ad aspetti più di fondo? Per esempio, l’insufficienza strutturale del modello.
Si è passati dal considerare – innanzitutto e prevalentemente – le caratteristiche del virus, e con esse la sua difficile identificazione, conoscenza, la possibile diffusione e le modalità opportune del contrasto, al considerare gli errori procedurali della Regione e, per finire, si è arrivati a porsi il problema di quanto avesse contato nel disastro la configurazione del modello misto pubblico-privato in una specifica versione. E poi, dallo spostamento di focus su aspetti diversi del problema si è passati alla considerazione delle evidenti connessioni fra tutti gli aspetti che erano stati considerati.
Si è compreso un po’ alla volta che gli errori procedurali (ormai accertati dalla ricostruzione giornalistica), l’insufficiente possibilità di intervento extra-ospedaliero (anche questa accertata nelle situazioni più drammatiche), il ritardato e limitato intervento della componente privata del sistema e il mancato o insufficiente esercizio delle responsabilità da parte del governo regionale della sanità, non erano disgiunti da come era stato concepito e realizzato il modello di Ssr. Da qui, ha avuto origine una sacrosanta richiesta di informazione e di trasparenza (ancora purtroppo in certi casi disattesa) e si è imposto da più parti il tema di una riconsiderazione della macro-organizzazione dei Ssr meno efficaci.
In particolare in Lombardia si sta sempre più affermando l’intenzione di una riforma del modello anche da parte della maggioranza al governo della Regione. Questa svolta sarebbe stata del tutto impensabile fino a qualche settimana fa. Una fortuita opportunità di modifica del Ssr della Lombardia sta fornendo da subito l’occasione di proporre una sua revisione durante la fase 3 della pandemia e sta costringendo gli attori in gioco a una accelerazione di tale processo, in quanto esiste un vincolo temporale stringente: una disposizione di legge del dicembre 2015 (Lr. 41/2015) prevede che entro l’11 agosto del 2020 si svolga la verifica della macro configurazione organizzativa del Ssr derivante dalla legge regionale di riforma di Maroni (Lr. 23/2015), che include la verifica delle Agenzie di tutela della salute (Ats) e delle Aziende socio sanitarie territoriali (Asst). Quella disposizione – che al governo della Regione Lombardia fino al 2019 era sembrata una iattura da evitare, tanto da indurre l’ex Presidente Maroni a sottoscrivere nel 2016 un protocollo con il ministro della Salute Lorenzin, con cui si tentava di aggirare l’applicazione della disposizione stessa –, appare in questi giorni come un’opportunità per il governo Fontana, in quanto consente di riconfigurare in parte un modello risultato inviso ai cittadini lombardi. Si tratterà quindi di formulare una valutazione sulla riforma del 2015 entro la scadenza estiva, cui seguirà con ogni probabilità una proposta di riforma.
È al tempo stesso interessante e preoccupante notare che, per fornire idee di riforma, si stiano facendo avanti coloro che dal 1995 fino al 2013 (sono gli anni dei governi Formigoni) hanno ideato paradigmi, imposto principi costitutivi e creato i presupposti strutturali del Ssr di oggi. Non a caso la riforma Maroni si è auto-qualificata come “evoluzione” della Riforma Formigoni.
Come valutare i progetti di riforma
Facciamo un passo indietro. Il Ssn nelle regioni e nelle province autonome ha assunto forme diverse, e non persegue in ogni sua realizzazione regionale nello stesso modo il dettato della Costituzione italiana. È il risultato di orientamenti politici dissimili e presenta gradi di privatizzazione diversi.
Se si tratta di proporre una modifica del modello in Lombardia, non ci si può aspettare, qui come forse altrove, una ricomposizione miracolosa dei punti di vista e degli interessi in campo a livello regionale, tale da far nascere una sola proposta di riaggiustamento del modello di sanità che metta tutti d’accordo.
Molti sono i soggetti e le forze che si stanno predisponendo a proporre soluzioni ai gravi problemi di mancata tutela del cittadino evidenziati dal Ssr della Lombardia, cercando di non perdere il terreno conquistato in termini di posizionamenti strategici nel quasi-mercato della sanità della regione o il consenso verso i propri elettori. E poi, non si tratta certo solo di qualche criticità cui contrapporre un rimedio, un correttivo parziale (per esempio, non sarebbe opportuno affermare teniamo il modello misto pubblico privato così come è ora e aggiungiamo ciò che manca nella medicina di territorio…). Di chiunque sia l’iniziativa, la proposta di riforma del Ssr lombardo richiede prima di tutto la conoscenza dello stato di fatto e, in ogni caso, che venga formulato un vero progetto (di massima e dettagliato), come si trattasse di dover costruire un ponte. E come nel caso del ponte, è sulla base di un buon progetto che può essere costruito un efficace Ssr e per effetto di una costante buona manutenzione, poggiata su efficaci controlli del suo funzionamento, che il Ssr può continuare a svolgere al meglio le sue funzioni.
Quali sono i presupposti di un buon progetto? Il progetto deve essere qualcosa di unitario, coerente, logico. Ben costruito in ogni sua parte. Di massima e di dettaglio.
Nel caso del ponte, le funzioni sono molto chiaramente identificabili: collegare due porzioni di territorio consentendo e facilitando la mobilità (di persone e merci) in sicurezza, in entrambe le direzioni. Molto più articolate sono invece le funzioni da garantire nel caso del Ssr, e meno evidenti le sue caratteristiche, trattandosi di un artefatto molto più complesso, che svolge le sue funzioni nel territorio regionale, e le cui realizzazioni sono spesso intangibili e difficilmente e compiutamente conoscibili negli esiti, nel loro complesso. Soprattutto per i cittadini (anche se questi sperimentano in modo diretto, e subito, ciò che non funziona). E, per finire, si presuppone che il Servizio sanitario regionale debba essere in armonia con altri Ssr in ambito nazionale, essendo riconducibile al Servizio sanitario nazionale.
La buona salute è l’esito atteso di questo artefatto, il mantenimento in vita delle persone in buone condizioni di salute. Nella fase più acuta della pandemia è proprio quello che è mancato, e non solo perché il virus era sconosciuto e senza una specifica cura. È mancata la capacità del Servizio sanitario lombardo di prendersi cura adeguatamente (per quanto possibile, data l’assenza di vaccini e di farmaci per la cura) degli operatori sanitari e di coloro che avevano la necessità di essere comunque assistiti. Sono stati abbandonati invece a loro stessi e per questa ragione moltissime persone sono tragicamente decedute.
Quando dico che serve un progetto vero e proprio, intendo dire che la proposta di riforma che si racchiuderà in un progetto, pur stimolata da una pluralità di idee, non potrà essere una ricomposizione scomposta di una miscellanea di idee diverse.
Vorrei soffermarmi ancora un po’ di più sul progetto e su cosa renda diversa una proposta di riforma da un’altra: il suo rispondere o meno pienamente al dettato costituzionale; la sua efficacia nel garantire i diritti di salute; la misura effettiva della centralità del paziente; l’intrinseca capacità di realizzare sia le funzioni che servono a prevenire gli stati di malattia o di infortunio sia le funzioni che consentono di erogare le prestazioni rivolte al cittadino/paziente necessarie alla sua salute; l’appropriatezza dei servizi offerti; in quale quota mantiene in mano pubblica l’erogazione dei servizi; il grado di controllo effettivo delle prestazioni degli erogatori, soprattutto privati, nel caso di modello misto. Essendo i servizi pagati dal contribuente, i due ultimi aspetti risultano fondamentali.
Spero che gli attori che si sentono chiamati alla realizzazione di una proposta di riforma capiscano che la fase di pandemia che attraversiamo richiede loro, diversamente che per il passato, un gioco a carte scoperte fra “giocatori” evoluti e responsabili. Almeno, è augurabile, responsabili fino al punto di dichiarare i principi costitutivi e gli obiettivi che intendono perseguire.
Per capirci: affermare, come hanno fatto gli ultimi due governi lombardi, che la politica della Presa in Carico dei cronici e/o fragili dei governi Maroni e Fontana (nota come la politica della Pic) è una mera innovazione di servizio rivolta ai malati cronici basata su una delle due logiche di People Health Management (Phm) di derivazione statunitense utilizzate in Italia, non è esplicitare del tutto i criteri costruttivi della proposta, mentre completare tali dichiarazioni aggiungendo che la politica della Pic realizza molteplici sottosistemi autonomi all’interno del Ssr – integrati, in prevalenza privati, indipendenti e non sottoposti a uno stretto controllo pubblico, – lo è. Si potrebbero, per esempio, dimostrare ampiamente i principi costruttivi di questa politica realizzando una mappa che evidenzi le funzioni che vengono riaggregate e integrate in capo ai gestori della Pic.
Nel caso della Pic, i criteri costruttivi di tale politica, che modificano l’impianto complessivo del Ssr lombardo e non sono stati mai esplicitati da chi li ha proposti, sono i seguenti: “integrare la quasi totalità delle funzioni tipiche del Ssr alla sua base, dentro organizzazioni “gestori della Pic”, nuove o già entrate nel Ssr, collocate al livello della medicina di base, in una porzione del Servizio sanitario regionale molto critica, quella che consente ai cittadini l’accesso ai servizi”. Le funzioni/attività integrate dei gestori della Pic sono: dimensionamento del volume dei servizi di presa in carico erogabili; reclutamento dei cronici tramite i medici di medicina generale (Mmg); stipula di un contratto privatistico con il paziente: il “patto di cura”; pianificazione dell’assistenza caso per caso; committenza ad altri erogatori e/o auto-committenza dei servizi per i propri assistiti. In altre parole, i gestori e le loro filiere diventano una molteplicità di piccoli o grandi Servizi sanitari a sé stanti in un più esteso Servizio Sanitario Regionale.
I principi/criteri costruttivi vanno esplicitati per quello che sono in realtà e, una volta esplicitati, si devono poter discutere e, avendoli ben compresi, il passo successivo sarà quello di misurarli e verificarli, soprattutto osservandoli nelle realizzazioni già disponibili in altri Ssr. O, se nuovi, adoperarsi perché vengano messi alla prova. Se ritenuti validi e quindi approvati, da questi principi si può consapevolmente dar forma a un progetto che li realizzi, che sia coerente al suo interno. Progetto che non può essere ulteriormente trasformato nella fase di implementazione, non rispettando i principi costruttivi stessi (anche in questa fase, si rende indispensabile una sorveglianza).
La riforma, insomma, deve nascere da una sorta di progetto architettonico. Deve far in modo che si possano realizzare le funzioni che consentono di attuare i principi costituzionali di tutela della salute. Non tutte le proposte di riforma realizzano pienamente i principi costituzionali e non è sempre facile comprendere quali siano le proposte che davvero li realizzano. Ci sono modelli di Ssr che facilitano la privatizzazione, modelli che la contengono, modelli che tendono a escluderla. Per esempio, la privatizzazione del Servizio, con un ruolo istituzionale del pubblico debole, realizza o contrasta i principi costituzionali? Una volta inteso quali finalità e quali principi cardine del modello si intendano sostenere, si può procedere alla definizione di dettaglio del progetto/proposta.
Quali riforme da Formigoni in poi
e quali ricadute per l’oggi
La sanità in Lombardia oggi soffre soprattutto degli esiti di lungo periodo dell’impianto e degli interventi realizzati dai governi Formigoni (4 mandati, uno interrotto prima della scadenza naturale per motivi giudiziari). Brevemente tento di riassumerli qui, rimandando gli approfondimenti ad altri successivi contributi: istituzione del quasi-mercato della sanità, una realizzazione costosa e forzata che si basa sulla idea – sbagliata, in quanto nella sostanza impraticabile – di una parità di diritti e doveri e di trattamento da parte di un ente regolatore pubblico riferiti a soggetti organizzati, pubblici e privati, che erogano servizi per il Ssr; centralismo regionale che, a una analisi approfondita degli interventi realizzati nei 18 anni ininterrotti di governo, si è scoperto che è servito a perseguire al meglio il depotenziamento degli erogatori pubblici e il potenziamento e la legittimazione degli erogatori privati; un eccesso di logica economicistica portata alle estreme conseguenze, avara con il pubblico e sperperante con il privato; un discutibile gioco “io vinco/tu perdi” fra erogatori (win/lose) che ha fortemente ridimensionato la necessaria attenzione all’epidemiologia e, con essa, ha svuotato le funzioni di programmazione e di prevenzione in senso lato, mantenendole solo in parte, e consegnato interi ambiti della sanità ai soli privati (insieme alla odontoiatria, tanti altri servizi sono stati del tutto privatizzati in misura assolutamente non paragonabile a quella di altri governi regionali della sanità); la desertificazione della infrastruttura pubblica territoriale; il non ripristino della compagine dei medici di medicina generale – che, ai tempi, era già noto si stesse via via impoverendo – e il connesso avvio del progetto di aziendalizzazione e privatizzazione della medicina di base tramite le sperimentazioni CReG (Chronic Related Group) riferite ai pazienti cronici.
Non si può criticare la politica dei governi di Formigoni per una incoerenza complessiva del suo progetto di riforma, anche se alcuni aspetti del disegno non sono del tutto congruenti. Pur trattandosi di un progetto, dal mio punto di vista, non condivisibile nelle finalità, non posso non ammettere una lucidità strategica e operativa da parte di un gruppo di politici, funzionari, accademici nel trasformare il Ssr. Ma, al di là degli slogan pronunciati dagli ideatori del modello, e delle apparenze che potrebbero distoglierci da un’indagine mirata su ciò che non veniva messo in evidenza nella comunicazione ma era di maggior rilevanza (è questo che intendo quando dico che serve esplicitare!), la domanda che ci si dovrebbe fare è la seguente: quanto quei lunghi anni di governo ininterrotto hanno spostato l’attenzione dell’Ente Regione (e non di un singolo protagonista apicale) dall’utente del Ssr (il cittadino) a specifiche categorie di portatori di interesse: i soggetti erogatori della sanità privata soprattutto profit e le cooperative della medicina di base (privato non profit)?
Quel modello rispondeva a paradigmi nuovi (sussidiarietà orizzontale), a una strategia/finalità ben delineata (di privatizzazione del servizio), a principi costruttivi specifici che realizzavano quella finalità, quindi coerenti con essa e di grande impatto nel modificare il modello (separazione delle funzioni di erogazione dei servizi dalle altre funzioni, per far entrare massicciamente nel settore gli erogatori privati; svuotamento della territorialità e della funzione dei distretti con il trasferimento presso gli ospedali di alcuni dei servizi territoriali; innovazione dei servizi in modalità che consentissero di classificare come territoriali servizi che venivano comunque erogati negli ospedali; sviluppo di nuove aree di servizio esclusivamente affidate ai privati).
Posto che la coerenza delle finalità del progetto con i passaggi che lo realizzano passo dopo passo non è sufficiente a fare di una riforma un buon modello di Ssr, serve in ogni caso ribadire l’importanza di tale coerenza per due ragioni fra loro collegate. In generale, perché la coerenza serve a perseguire e a raggiungere gli obiettivi. La seconda ragione è che la mancata coerenza del modello – di cui sono disponibili esempi al limite del paradosso – è dannosa di per sé, in quanto non fa funzionare bene il modello, nemmeno in periodi di ordinaria amministrazione. Le proposte di riforma vanno quindi rifiutate sia quando non perseguono un certo tipo di fini che si ritengono assolutamente da perseguire (costituzionali, in primis), sia quando sono intrinsecamente incoerenti nel modello e per questa ragione producono confusione e paradosso.
Il modello realizzato dopo i governi Formigoni, da Maroni in poi, non solo non ha cambiato l’orientamento di fondo precedente (ha mantenuto il quasi-mercato in versione privatizzante), segnando così una continuità con i governi precedenti, ma ha anche mostrato ampiamente l’incoerenza dei suoi princìpi costruttivi. Presenta infatti criteri costruttivi disomogenei e incompatibili, che sono il frutto di logiche contrapposte, alcuni dei quali forse inclusi in sede di discussione politica nel Consiglio regionale, in forma di emendamenti alla proposta presentata alla discussione dalla maggioranza di governo o da una delle sue componenti. In ogni caso, nel passato, nessuno ha rilevato che costituissero qualcosa di incompatibile con qualche altro elemento o aspetto già deciso del Ssr.
Riporto qui, fra gli altri che potrei esporre, un esempio di incongruenza/paradosso nell’impianto attuale di Ssr lombardo.
Da un lato, mantenere il modello di quasi-mercato per la funzione di erogazione dei servizi, laddove sono in concorrenza gli erogatori pubblici con gli erogatori privati su un supposto piano di parità (realizzando la negazione del principio della sovra-ordinazione del pubblico sul privato: che detto in altri termini, significa che si nega che il pubblico resti l’attore più importante, quello che ha l’ultima parola). Dall’altro, attribuire all’erogatore pubblico dei servizi (ospedalieri e territoriali), le Asst, il coordinamento della rete di erogazione del loro territorio, costituita dagli erogatori pubblici (che sono sue articolazioni) e costituita anche da tutti gli erogatori privati, soggetti di fatto del tutto autonomi, anche se posti formalmente su un piano di parità con le Asst, in quanto esse stesse strutture erogatrici. Insomma, stando alle regole del quasi-mercato, le Asst dovrebbero coordinare i soggetti con cui sono chiamate a competere.
Un altro esempio ci fa entrare in un problema organizzativo di macro divisione del lavoro incongrua: la politica della Presa in carico dei cronici (Pic), già ampiamente impostata in precedenza da Formigoni pensando in primis a un ruolo forte delle cooperative dei medici di medicina generale (istituzione dei CReG), realizza in una certa misura la aziendalizzazione della medicina di base già ipotizzata, ma in una modalità diversa rispetto al passato, burocratizzando e ridimensionando (soprattutto nelle sue prime intenzioni, in parte corrette per la protesta dei medici di base stessi) il ruolo del medico di base. La politica va nel senso di cedere a nuovi soggetti privati, non sempre già accreditati, la facoltà di prendere in carico pazienti cronici e/o fragili e di obbligare i pazienti a sottoscrivere un contratto privatistico con loro (anche quando si tratta di Asst, quindi in ambito pubblico): il cosiddetto “patto di cura”. La fonte di incongruenza, in questo caso, è che i medici di medicina generale della Lombardia devono instaurare rapporti con le Asst, gestori pubblici della Pic, e con i numerosi gestori privati della Pic, per la gestione dei propri assistiti malati cronici e con la Ats per la regolazione dei rapporti amministrativi burocratici e gestionali riferiti a tutti i loro pazienti. Troppi interlocutori, a quanto pare.
La riforma Maroni, in senso lato, ha aggiunto logiche, finalità, principi incompatibili con il Ssn tradizionalmente inteso e anche inefficaci di per sé, nella inconsapevolezza – pare – di ciò che questo fatto avrebbe potuto produrre: improvvisazione e ingestibilità.
A carte scoperte, per i cittadini
Nel formulare e verificare le proposte di riforma del Ssr della Lombardia – che cominciano embrionalmente già in questi giorni a fioccare sui media – dovranno entrare in campo per la verifica della completezza, proponibilità, sostenibilità e tenuta del modello coloro che sono in grado di analizzare i problemi di coerenza interna dei macro modelli organizzativi. I medici e gli operatori sanitari dovranno fare lo sforzo di occuparsi a 360 gradi del Ssr (non solo di un circoscritto spaccato), tenendo conto della finalità ultima del modello decisa con il contributo indispensabile dei cittadini e portata avanti dai politici che li rappresentano.
È il cittadino che deve essere sentito e non gli erogatori privati che sono stati chiamati a servirlo. Altrimenti dove sta la tanto declamata centralità dell’utente? Ci si deve anche preparare a contrastare con efficacia le proposte di partiti, gruppi politici e stakeholder, anche per il tramite di studiosi o accademici, che non rispettino ciò che si ritiene irrinunciabile per un Ssn.
Proposte che – come si diceva – possono essere non accettabili in toto per le finalità che perseguono (frammentazione e disaggregazione del Servizio, difficoltà di controllo, privatizzazione presupposta, orientamento a far crescere le disuguaglianze fra territori) e/o per incoerenza interna (affermazione di principi che risultano incompatibili all’interno dello stesso modello; incompletezza del disegno con riferimento alle funzioni; non raccordo fra le parti del Servizio, difficoltà di funzionamento, delimitazione dei confini dei territori disfunzionali in quanto rendono meno possibile il controllo).