Diritto d’asilo
Le persone che etichettiamo, per nostra comodità, con il termine “richiedenti asilo” hanno affrontato esperienze talmente estreme da essere in grado di mettere a rischio non solo l’integrità fisica – viste le condizioni che determinano la fuga dal proprio paese e i vari modi nei quali prende forma il viaggio – ma anche l’equilibrio identitario di chiunque. Tali esperienze, tali cesure, possono sgretolare repentinamente le scontate certezze su di sé e sul proprio mondo di riferimento, arrivando a minacciare la stessa capacità di mantenere un sé coerente e unitario nel tempo. La definizione di richiedente asilo che viene adottata da tutti i firmatari della Convenzione di Ginevra del 1951 restituisce parte di questa condizione quando sottolinea che il richiedente asilo è lo straniero che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese” Queste stesse esperienze, che molti esperti psicologi ed etnopsichiatri definiscono di fatto “inenarrabili”, sono al centro di uno dei momenti più importanti nel percorso di un richiedente asilo, ovvero il colloquio presso una delle Commissioni territoriali per il vaglio della domanda d’asilo, le quali devono decidere sul riconoscimento dello status di rifugiato politico o sulla concessione di altre forme di protezione (denominate protezione sussidiaria e protezione umanitaria).
Dall’inizio dell’iter, e fino a sei mesi dopo l’ottenimento di un permesso di soggiorno, il richiedente può chiedere di essere assistito dal Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), che sulla carta costituisce un appropriato e consistente insieme di servizi ma che nella realtà subisce una cronica mancanza di risorse e un sottodimensionamento eccessivo, risultando quindi inefficace, perché non riesce a sostenere tutte le persone che pure avrebbero il diritto di accedervi (approfondiremo tra poco).
Riprendendo i temi emersi nel precedente numero de “Gli asini”, anche l’ambito del diritto d’asilo offre interessanti spunti per parlare di “valutazione e meritocrazia”, e soprattutto delle trasfigurazioni negative che questi termini possono assumere.
Procediamo, quindi, illustrando le caratteristiche dell’esperienza dei richiedenti asilo in Italia. L’iter amministrativo previsto per la richiesta d’asilo è di competenza esclusiva del ministero dell’Interno. Il richiedente asilo deve comunicare la sua richiesta entro una settimana dall’arrivo in Italia (e comunque non appena dovesse essere intercettato da qualche forza di pubblica sicurezza). In questo modo ottiene un permesso di soggiorno temporaneo e l’indicazione della data nella quale dovrà sostenere il colloquio presso una delle Commissioni territoriali.
Tralasciamo gli esiti possibili del colloquio, che qui sono meno pertinenti, e fermiamoci su come avviene questo colloquio. Sulla carta esso dovrebbe essere condotto da personale di nomina ministeriale e da un rappresentante dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), tutti adeguatamente formati, e il richiedente dovrebbe essere messo nelle migliori condizioni per poter esprimere i suoi punti di vista e raccontare, liberamente, quanto accaduto, aiutato in questo da una serie di domande poste dal commissario. I manuali dell’Unhcr sottolineano come il richiedente debba trovare un ambiente confortevole ed essere sostenuto e aiutato, soprattutto perché i temi che vengono trattati sono molto personali, delicati e potenzialmente dolorosi.
Dunque, si tratta di un sistema di valutazione che è certamente lecito – un Paese ha tutto il diritto di fare controlli sulle persone che vi vogliono entrare
– e che pare improntato al “riconoscimento” di una situazione di sofferenza e bisogno alla quale risponde con un apparato di servizi. Ma cosa accade durante questi colloqui? Come avvengono davvero? Quali sono le testimonianze non solo dei richiedenti asilo, ma anche dei mediatori culturali che traducono, degli operatori sociali che preparano il richiedente e lo accompagnano, e degli stessi commissari (o almeno di quelli che hanno voglia di parlare)?
Prima di rispondere è opportuno rimarcare che molti di coloro che lavorano con i richiedenti asilo (psicoterapeuti, operatori sociali) sono concordi nel sottolineare come le vicende che queste persone hanno attraversato siano, di fatto, inenarrabili. Ciò dipende da molti fattori, legati dalla comune considerazione che alle violenze subite non si riesce a dare un senso, non si è capaci di trovare il modo di inquadrarle in un orizzonte di valori coerente con i propri, o di trovare loro collocazione nella storia della propria vita. Questa operazione di recupero, che porta il richiedente asilo a guardare in faccia eventi che magari avrebbe preferito mantenere nascosti nell’oblio, è tanto più difficile se svolta in un contesto culturale e sociale diverso dal proprio, senza i punti di riferimento che si potevano usare, e dare per scontati, in patria. Quello che si produce, durante un colloquio con queste persone, è un’atmosfera di irrealtà, nella quale il rifugiato racconta, a volte con trasporto emotivo, altre con freddezza burocratica, le violenze subite, e chi ascolta cerca, invano, di sistematizzare un’esperienza che ha deturpato irrimediabilmente l’identità del narratore. Spesso, inoltre, diventa difficile individuare l’inizio delle violenze, capire cosa può essere utile dire all’interlocutore occidentale che deve giudicare, e cosa invece potrebbe non solo essere inutile ma addirittura nocivo ai fini dell’ottenimento di un permesso di soggiorno. Tutto ciò, è evidente, risulta ancora più complicato per il richiedente in sede di Commissione.
Le testimonianze che raccolgo nel mio lavoro sul campo, che prosegue dal 2007, restituiscono un’immagine che parla di commissari molto spesso non adeguatamente preparati per i colloqui, in possesso di scarsissime informazioni sui Paesi di provenienza dei richiedenti, privi di un’adeguata formazione sulle modalità di gestione di un colloquio di questo tipo, guidati nelle loro decisioni più da direttive ministeriali che dalle scrupolose analisi del singolo caso (pur previste dalla legge).
D’altra parte, gli stessi richiedenti asilo apprendono, con l’aiuto di altri rifugiati, di connazionali, di operatori sociali delle organizzazioni coinvolte sul tema, a costruire una storia che sia coerente non con quanto accaduto in patria ma con quanto è comprensibile e accettabile dalla Commissione. Ovvero, subito a ridosso dell’arrivo si instaura un processo di costruzione della “storia giusta” che va al di là della “storia vera”. Il richiedente e chi lo assiste cercano di evidenziare nella storia personale del richiedente gli elementi che più di altri possono portare alla concessione di un permesso di soggiorno, andando a tacere quelle condizioni che invece sarebbero dannose per la richiesta. Il richiedente asilo, in altre parole, inizia un dialogo, impari, con istituzioni, medici, forze di polizia, operatori sociali, volontari, altri stranieri, durante il quale, a ogni interazione, ha la possibilità di vedere negli altri gli effetti che scaturiscono dalle sue parole, dal modo di presentarsi, dai suoi racconti, e apprendere, in un continuo scambio, quali argomenti paiono ricevere maggiore attenzione e quali no. Dalle domande degli operatori il richiedente capisce quali ambiti sono più interessanti e grazie ai consigli che riceve impara, ad esempio, a tacere di eventuali problemi economici nel Paese di origine, che potrebbero farlo identificare come un “comune” migrante economico e non più come un richiedente asilo, anche in presenza di storie di violenza e persecuzione.
Dunque, il sistema di valutazione di queste domande d’asilo rischia, anche nei casi che vedono coinvolti commissari particolarmente scrupolosi e preparati, di essere inefficace e inefficiente: da una parte, non riesce a valutare adeguatamente le storie delle persone, e anzi non sorregge i più deboli, i quali hanno forti difficoltà a dare coerenza narrativa a eventi che sono inimmaginabili; dall’altra non riesce neanche a evitare le astuzie dei più scaltri, che quindi riescono a costruire storie perfette per le esigenze della Commissione. Ottenuto un qualche permesso di soggiorno, il richiedente asilo – ora possiamo chiamarlo rifugiato – può continuare ad avvalersi dello Sprar qualora vi fosse stato già inserito prima del colloquio in Commissione, oppure rivolgersi ad altri progetti. Qui si apre un tema che richiederebbe da solo un intero numero della rivista, per la sua complessità ed estensione. Diciamo solamente che il numero di progetti presenti sul territorio nazionale è molto elevato, e che essi sono portati avanti dal pubblico, quasi sempre con il privato sociale, ma anche dal privato sociale in autonomia (chiese, cooperative, associazioni di volontariato). Questo alto numero rende impossibile un monitoraggio degli stessi, e tantomeno il loro coordinamento, portando a una situazione di elevata inefficienza, in quanto i progetti si sovrappongono, chiedono finanziamenti agli stessi enti, e al contempo lasciano scoperte situazioni e condizioni che invece richiederebbero un sostegno mirato. Inoltre, questa elevata numerosità, in assenza di controlli e valutazioni da parte delle istituzioni pubbliche, produce forte eterogeneità di trattamenti, con progetti eccellenti, che garantiscono al rifugiato adeguata assistenza e percorsi di reale autonomia, e altri che invece sono pensati esclusivamente come rendimento economico, incentrati sullo sfruttamento dei rifugiati, sulla mancata erogazione dei servizi pure previsti dalle convenzioni firmate e sull’assenza di un reale accompagnamento. La cosiddetta Emergenza Nord Africa ha rappresentato il più clamoroso e squallido esempio di questo secondo tipo di interventi che ci sia mai stato negli oltre dieci anni di servizi ai rifugiati in Italia, con l’ingresso di organizzazioni prive di qualsiasi esperienza con i richiedenti asilo, che hanno seguito modelli di accoglienza obsoleti, già ampiamente criticati anche dalle stesse istituzioni nazionali che hanno lavorato con i richiedenti asilo in questi ultimi anni, e oggetto anche di molte denunce da parte dei rifugiati, ma anche da parte di associazioni di volontariato e altre organizzazioni. Da ultimo, i rifugiati che ottengono la piena residenza – che costituisce un diritto soggettivo perfetto e dunque non dovrebbe essere soggetto agli umori dell’assessore di turno, come invece capita in troppe città italiane – possono anche rivolgersi ai servizi sociali comunali.
Il fatto che non ci siano posti sufficienti per tutti nei progetti a titolarità pubblica specificamente indirizzati a rifugiati, e la situazione di cronica mancanza di risorse per i servizi sociali delle città italiane, innesca in molti casi una situazione nella quale il termine “meritocrazia” viene utilizzato nelle sue accezioni più errate e ottuse.
Il termine ha subito almeno due trasformazioni nell’uso che se ne fa in Italia, entrambe peggiorative. La prima gli appioppa definizioni che rimandano a un individualismo sfrenato, alla legge del più forte, all’arrivismo. La seconda, più profonda e incisiva, sposta l’orizzonte semantico di riferimento dal merito e dalla valorizzazione al giudizio morale sulla persona, che pare trovarsi da subito in una situazione di difetto a causa della quale è costretta a dimostrare di meritarsi quanto riceve, per altro nella presunta consapevolezza che non ci si merita nulla di quello che si ha e che tutto è un “dono” cui non si è in grado di ricambiare, ma al quale si deve rispondere con prostrazione, accontentandosi senza proteste. Si esce così dal campo del diritto e si entra in quello delle gentili concessioni, ovvero dalla relazione cittadino/servizi si passa alla relazione suddito/potente. Questa seconda relazione è fatta di favori, preferenze ora accordate ora negate, e anche di vendette, ricatti, giudizi morali che il potente si sente in grado, anzi in dovere di dare nei confronti dei suoi sudditi. Chi lavora nel sociale e chi ha a che fare, per esperienza diretta o per osservazione scientifica, con i contesti di supporto a persone disagiate, si ritroverà certamente in questo vocabolario, che pare rappresentare molte delle relazioni che si instaurano tra servizi sociali e organizzazioni da una parte, e utenti e destinatari di progetti dall’altra. Troppo spesso in Italia, e certamente nel settore del diritto d’asilo, in mancanza di risorse per tutti a vincere non è il principio dell’investimento e valorizzazione dell’individuo, che potrebbe portare a percorsi di rapida autonomia, ma quello dell’appropriazione indebita da parte di chi eroga il servizio del potere di definire chi si “merita” tale servizio e chi no. Ecco, allora, che gli utenti, i destinatari potenziali di un progetto cadono subito in una situazione di inferiorità, che per quanto solo presunta ha però il potere di modificare gli equilibri e i comportamenti. Il rifugiato che ha bisogno di aiuto, allora, deve diventare docile, accondiscendente, e cercare l’approvazione di colui o colei che, direttamente, ne osserva le azioni ed è in grado di decidere sulle sue sorti (almeno quelle legate al ricevere o meno assistenza). Il rifugiato, invece, che non vuole piegarsi a un tale sistema, diventa la “testa calda”, un individuo dal quale guardarsi, ed entra nei libri neri delle istituzioni, che faranno di tutto per non concedergli più servizi.
Anche in questo caso, le conseguenze sono drammatiche, sia per il sistema sia per le persone che vi capitano. I più deboli rischiano di soccombere, perché per loro non ci sono sufficienti fondi (ad esempio per comunità psichiatriche) e in moltissimi casi non riescono neanche a raggiungere l’orizzonte di attenzione degli operatori e delle istituzioni, rimanendo nel buio fino a quando la loro sofferenza è tale da farli venire drammaticamente allo scoperto, magari durante un incontro con un volontario o un ricercatore sociale. D’altra parte, i più scaltri possono andare avanti anni rimanendo nell’assistenza, passando da un progetto all’altro e da una città all’altra, perché hanno imparato a muoversi nelle maglie del sistema, sfruttandone le mancanze. Gli operatori sociali, da parte loro, sono spesso abbandonati, privi di formazione e supervisione adeguate, ma al contempo a contatto quotidiano con la sofferenza e con racconti di sofferenza, sfiorando in molti casi il burnout. Il tutto avviene in un ambiente economico dove i progetti sono portati avanti perlopiù con fondi europei erogati attraverso lo strumento del bando, che ha due intrinseci problemi: è limitato nel tempo, e dunque non consente alle organizzazioni di effettuare programmazioni pluriennali; spesso ha stringenti vincoli rendicontativi, impedendo alle organizzazioni di essere flessibili quanto occorrerebbe lavorando con casi come questi.
A queste situazioni alcuni rifugiati cercano di rispondere mettendo in campo pratiche di resistenza e strategie di fronteggiamento che però, nella maggior parte dei casi, sono prive di una reale efficacia. A volte pare che ci sia una totale assenza di comunicabilità tra operatori e rifugiati, laddove questi ultimi tentano di spiegare i loro punti di vista, di illustrare la loro scala valoriale e di individuare quelle che per loro sono delle priorità sulle quali iniziare a lavorare. Ma questi discorsi paiono cadere nel vuoto, ora per difficoltà oggettive dell’operatore di accogliere questi discorsi nell’ambito delle rigide azioni progettuali, ora per incapacità dell’operatore di stare nella relazione, ad ascoltare l’altro e ad accogliere, almeno accogliere, i suoi discorsi. Dunque, i tentativi dei rifugiati sono spesso destinati a fallire, continuando a produrre conseguenze drammatiche sulle loro vicende personali, così come sul sistema, che diventa sempre più inefficace e inefficiente.
Ciò che si produce, allora, sono uno schiacciamento dell’identità del rifugiato sulle etichette che di volta in volta, di progetto in progetto, altri gli appioppano, e alle quali lui sottosta più o meno consapevolmente, e un protratto assistenzialismo, che non solo impedisce il raggiungimento dell’agognata autonomia, ma getta l’individuo in un senso di perdita di auto-efficacia e in una situazione di profonda vulnerabilità sociale.