Dimmi chi erano i Beatles
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero Gennaio-Febbraio – 4|2011 de Gli asini.
Una personale attenzione all’argomento, e una competenza assolutamente minimale ma purtuttavia atipica in una cultura nazionale ancora così fortemente marcata da idealismo e antiscientismo, mi inducono occasionalmente a sollevare nelle discussioni fra colleghi – con scarsissimo successo, a dire il vero – problemi di metodo. In particolare, a me sembra che il “paradigma indiziario” proprio della ricerca psicodinamica, se rende parzialmente inapplicabili molte modalità di controllo dei risultati impiegate in altre branche del sapere, non dispensa dal tenere ben presenti alcune acquisizioni di fondo dell’epistemologia moderna, in primis il riconoscimento ormai indiscusso, sia sul piano teorico che su quello operativo, del carattere dipendente dall’osservatore di tutte le nozioni relative al campo osservato […] superamento definitivo del dualismo soggetto-oggetto, della stessa possibilità di configurare un processo di conoscenza come progressiva approssimazione alla rappresentazione dell’oggetto in sé e per sé […].
Poiché tento di applicare anche a me stesso questi assunti teorici, sono cosciente di quanto le mie osservazioni, il contenuto apparentemente oggettivo di esse, sia inevitabilmente influenzato da soggettivissimi stati d’animo, e al mutare di essi si modifichi e trasformi.
Così da qualche anno, in innegabile concomitanza con una fase della mia vita sinteticamente e pudicamente definibile come “mid-life crisis” – termine e concetto per cui rimando al bellissimo lavoro di Elliott Jacques – ho iniziato a “vedere”, nei miei pazienti adolescenti, cose nuove.
Di queste vorrei qui parlare: e la lunga excusatio non petita spero valga a predisporre il lettore alla soggettività voluta delle pagine che seguono.
In primo luogo, ho iniziato a notare l’importanza che la morte e le sue tematiche hanno nell’adolescente e dunque nella relazione terapeutica.
Le parole “morte”, “tematiche di morte” evocano in ognuno di noi una gran mole di riferimenti culturali, dall’istinto di morte all’aggressività e la sua natura; da queste sistematizzazioni teoriche vorrei tenermi lontano per limitarmi a raccontare quando e come con il discorso di morte dell’adolescente mi sono confrontato.
Nel rapporto innanzitutto: mi è progressivamente sembrato “chiaro” che molti pazienti volevano, veramente volevano, la morte: mia, loro, del rapporto.
Detta così sembra, me ne rendo conto, la scoperta dell’acqua calda; tutti sappiamo, e io per primo, da sempre aduso a lavorare con pazienti gravi o gravissimi, quanti aspetti mortiferi vengano portati in terapia, con quale dolore li registriamo dentro di noi, con quale – a volte – concreta sensazione di un imparabile attacco alla nostra vita psichica e fisica, dunque a quella del paziente. Non ho dovuto aspettare la mid-life crisis per sentirmi troppe volte disperato e disperante, negato, ferito, colpito a morte.
L’ottica, il quadro di riferimento, erano però diversi: e la vera difficoltà quella di mantenerli e recuperarli al di là del disastro interiore, riuscire a emergere da questo per ritrovare senso e prospettive.
Di quell’ottica di riferimento mi sembra siano felice espressione, non a caso, metafore epiche o mitologiche.
Quella dell’Odissea, splendidamente sviluppata da Cahn, ove insidie e catastrofi punteggiano il viaggio verso una meta, e la concreta realistica possibilità che gli ostacoli si rivelino insormontabili, che la morte prevalga, non toglie che Itaca, e Penelope, esistano, attendano.
Quella di innumerevoli miti iniziatici, dove le sofferenze, la morte stessa dell’eroe traggono senso dalla ricerca di un bene prezioso – vello, regno, fanciulla, sapere, immortalità – nascosto, impervio, forse irraggiungibile, comunque certo, assunto.
Vegliano, su Ulisse, Teseo o Ercole, divinità intensamente partecipi dei loro dolori, pronte a piangere la loro morte, inevitabili prezzi da pagare a un pieno dispiegarsi della vita.
Così noi pensiamo a molti nostri pazienti, e la morte che ci portano equivale dunque a prove e ostacoli sulla via di quel bene prezioso che in essi deve pur essere nascosto, difese atte a proteggerlo: se si ammazzano è per continuare a vivere, se odiano è per paura di amare, se uccidono è per dare vita. Una terapia riuscita non sarà dunque che ritrovare quella fiamma vitale che c’era, c’è, c’è sempre stata, solo nascosta, oscurata, a rischio di venir soffocata. Ritrovarla è ciò che veramente vogliono, in cui ci chiedono aiuto: anche se a parole lo negano, quando nei fatti non lo dimostrano proprio…
Beh, questo modello – certo implicito, ma così “forte”, per me quantomeno, per molti anni – oggi non mi convince più. Si applica ancora, naturalmente, a tanti pazienti: ma non a tutti; in alcuni non c’è nessuna Itaca da raggiungere, nessuna fiamma vitale da ritrovare e ravvivare: e la morte che portano è morte, nulla di più, ed è quello che veramente vogliono.
Pazienti “intrattabili”? Tutt’altro. A condizione di avere l’arroganza e la prepotenza di imporre la propria, e solo propria, voglia di vita, di accendere una fiamma che non c’è, di creare dal nulla scopi e senso.
Esattamente ciò che facevo qualche anno fa; ma me ne rendo conto solo adesso: allora mi raccontavo, gli raccontavo, quell’altra storia.
Che mi è molto più difficile fare ora, con questa nuova “verità” di fronte: al punto da domandarmi se questa nostra storica unilaterale enfasi sulle virtù del conoscere e conoscersi non scotomizzi la saggezza del cieco, la produttività delle illusioni.
After such knowledge, what forgiveness?
C’è poi un altro modo in cui un’attenzione diversa fa cogliere il tema della morte nel rapporto con l’adolescente. Pochi mesi fa, a una riunione di colleghi che lavorano con adolescenti, ho chiesto se e come i loro pazienti parlassero della morte. La domanda, mi è parso, è suonata bizzarra.
No, non ne parlavano. E se ne avessero parlato si sarebbe trattato di un evidente spostamento sul tema della morte di angosce edipiche, o forse preedipiche, di problematiche relative al corpo sessuato, alla madre fallica eccetera eccetera.
A me invece sembra, da qualche tempo, che gli adolescenti parlino della morte; o meglio, forse, da qualche tempo raccolgo e valorizzo aspetti della comunicazione che in passato, come i miei colleghi, avrei “perso” o trascurato.
Anche questa può suonare come una scoperta dell’acqua calda: che l’adolescenza sia anche la stagione di scoperta dei “grandi” temi e problemi è risaputo; e ci si potrebbe al massimo domandare quanto la loro frequente esclusione dal discorso con il terapeuta sia ascrivibile a una loro sostanziale estraneità agli obiettivi specifici di quell’incontro, quanto alle difficoltà che adulto ha ad accoglierli, non avendo spesso trovato risposte personali soddisfacenti.
Ciò che invece vorrei tentare di chiarire – ma confesso di non averlo chiaro io spesso – è come il problema della morte, e più in generale quello del senso della propria esistenza, possano nell’adolescente trovarsi strettamente intrecciati sia al “problema designato” che motiva la ricerca di aiuto sia allo sviluppo di un rapporto valido con l’adulto/terapeuta.
Due brevi sketch clinici potranno forse esemplificare le forme in cui il problema emerge.
Andrea è un ragazzo di quindici anni con una situazione familiare assolutamente catastrofica in cui ha da sempre dovuto svolgere un ruolo responsabile e adulto, farsi carico di conflitti e problematiche genitoriali e, da qualche anno, occuparsi praticamente full time di un nipotino. In occasione di una visita per quest’ultimo la madre chiede si dia un’occhiata anche ad Andrea. Lo incontro in un periodo in cui non ho spazio materiale o mentale per nuovi pazienti: ma Andrea mi suscita una grande simpatia, in primo luogo per il pudore e la dignità con cui vive e parla di una situazione così scandalosamente oltraggiosa dei suoi diritti di adolescente, così priva di attenzione cura e affetto per lui. Un giorno, dopo molte sedute in cui abbiamo toccato tutti i problemi “classici” dell’adolescenza, mi racconta del senso di vuoto che caratterizza molte sue giornate, dell’assenza di prospettive future che diano finalità e senso al quotidiano. “Insomma, vedi… hai presente i detersivi, quelli che dentro ci sono i punti e quando ne hai raccolti tanti vinci qualcosa?, Che so… una pentola… anche devi aspettare, mettere da parte, avere pazienza, però alla fine vinci la pentola… invece qui non si vince niente, metti da parte i punti, sempre più punti, ma non c’è la pentola, non si vince niente…”.
Giorgio, 22 anni, brillantissimo laureando in matematica, viene per una agorafobia comparsa a sedici anni, che gli crea notevoli problemi nella vita quotidiana. È forse importante dire che gli chiarisco fin dall’inizio che qualora il suo obiettivo fosse solo o prevalentemente la scomparsa del sintomo, non sono io la persona più indicata per aiutarlo.
Quando, nelle prime fasi del trattamento, Giorgio racconta e ricostruisce il suo disturbo, emerge come la stessa angoscia, o meglio qualità di angoscia, che si presenta nel confronto con gli spazi aperti, viene avvertita anche quando i suoi pensieri spaziano su alcuni problemi “filosofici”: la morte, il tempo, l’infinito. L’angoscia per la propria morte si inanella allora a quella per la morte dell’intera umanità, infinito tempo all’infinito spazio, l’infinito della morte individuale agli infiniti infiniti che a essa corrispondono pur inglobandola.
Discorsi – checché ne sembri dalla mia inevitabilmente troppo breve sintesi – tutt’altro che deliranti; al contrario lucidi e acuti, da giovane intelligente matematico formato su Cantor e Godel quanto su Leopardi.
Poter prendere liberamente un treno o un aereo comincia a sembrare solo un problema dentro un problema, ma forse altrettanto grande del suo contenitore: Giorgio direbbe un insieme infinito parte di un altro insieme infinito.
Questo tipo di comunicazioni non mi sembra meccanicamente o esclusivamente riconducibile a nuclei conflittuali o problematiche evolutive: si potrebbe pensare, ed è probabilmente vero, che Andrea stia comunicando anche la sua difficoltà a proiettarsi, anche solo con l’immaginazione, verso un rapporto oggettuale pieno e gratificante; ed è certo che la problematica di Giorgio contiene anche un aspetto classicamente nevrotico. Ma una lettura esclusivamente in queste chiavi non sembra esaurire i significati del loro discorso; lascerebbe, mi lascerebbe quanto meno, insoddisfatti.
Non si tratta di per sé di un fenomeno originale o sorprendente; chi come me, considera l’approccio psicodinamico uno fra i tanti strumenti di comprensione del reale, particolarmente adeguato ad alcuni specifici fenomeni, è preparato ad avvertirne l’inadeguatezza nella lettura di altri. Si potrebbe allora dire che come la politica, l’arte o l’innamoramento così anche il problema della morte o del senso della vita sfuggono a una piena comprensione nell’ottica psicodinamica.
Ed è certamente vero. Ma allora perché Andrea e Giorgio me ne parlano? Hanno sbagliato indirizzo, e portano a me questioni che dovrebbero indirizzare a un filosofo o a un teologo? Queste domande inappropriate al contesto e all’interlocutore sono forse riportabili a un transfert infantile, e io il padre e la madre che può risolvere ogni problema? Forse è vero anche questo.
Non ho però detto questo, ad Andrea e Giorgio. Ho invece detto che si trattava di problemi che comprendevo bene, alla loro età, perché li avevo avuti e continuavo ad averli, ora come allora; che ogni tanto mi capitava di pensare con tristezza all’assenza di una pentola da vincere, e con angoscia all’infinità del tempo, dello spazio, della morte; che con questi sentimenti avevo imparato a convivere. Ed ero lì. Un acting in un atto, o una comunicazione, dettato da un impulso o un conflitto inconscio; “errore” del terapeuta, come in questo caso, perché al di fuori delle “regole” psicoanalitiche del terapeuta, dirà qualcuno. Io invece penso di aver detto le cose giuste; soprattutto di aver tentato di svolgere una funzione importante, e trascurata, dell’adulto verso l’adolescente. Torniamo prima, ancora un attimo, a Giorgio e Andrea.
Il “discorso della pentola” non ha apparentemente seguito. Qualche tempo dopo però Andrea decide di andare a lavorare con il padre. Quel padre scombiccherato e disvalido – che Andrea ben conosce e continua a vedere quale è, scombiccherato e disvalido – è un bravo meccanico. Troverà gusto a insegnare il mestiere al figlio, e Andrea a impararlo.
Giorgio, seppur non lo dice esplicitamente, mostra con chiarezza di non credere che io o chiunque altro possa conoscere e dunque comprendere determinate sensazioni: per vari mesi continua a “spiegarmele”, né io ritengo opportuno ripetere il mio commento. È a mo’ di epifania, mentre guarda un film di guerra con l’angoscia dei soldati alla vigilia della battaglia, che all’improvviso “sente” l’universalità del problema della morte, dunque la sua comunicabilità. Si può allora cominciare a lavorare sulla sua difficoltà a pensare a un adulto, padre, madre o terapeuta, con cui poter condividere alcune angosce.
Funzione importante, e trascurata, dell’adulto verso l’adolescente mi sembra quella di testimoniare la possibilità di vivere in modo pieno e significativo senza aver risolto tutti i problemi né superato tutte le angosce; e senza che questo sia sentito insuccesso o fallimento, con la pacata se non serena accettazione di una condizione umana anche, non solo, tragica. Di problemi irrisolti e angosce non superate la morte è solo il prototipo ultimo.
Funzione che emerge con l’adolescenza; prima, mi sembra che il bambino debba poter sentire nel genitore, adulto, un potenziale contenitore di ogni sua angoscia; e se dubito che questo corrisponda necessariamente alla fantasia che gli adulti abbiano veramente superato quei problemi, deve, dovrebbe, comportare una possibilità di delega totale. La funzione di contenitore dell’adulto entra inevitabilmente in crisi in adolescenza; l’altra dovrebbe subentrare.
Se torniamo dunque alla metafora omerica, mi sembra che accanto alla capacità di accompagnare al meglio il viaggio dell’adolescente verso la sua personale Itaca, l’adulto – se vuol sperare di essere creduto – dovrebbe possedere quella di affermare con serenità che un’Itaca definitiva forse non esiste e da quella raggiunta a volte si dovrebbe ripartire.
A frenarmi, dal dare altre consolatorie risposte ai quesiti estremi dell’adolescente, dall’offrire certezze a buon mercato, credo sia anche la paura di certi sguardi formalmente ossequiosi e interessati, che a scavare dicono invece “Tu menti, allora a che mi servi?”.
Mi torna spesso in mente, come esempio seppure estremo di questa funzione adulta, quel punto de I dialoghi delle Carmelitane, dove la superiora giunge a fingere grande angoscia di fronte alla morte imminente per dimostrare alla novizia tormentata come si possa trascorrere una lunga vita ammirevole senza aver risolto tutto, come la fede non vinca ogni umano problema.
Una funzione, dicevo, trascurata; per ragioni penso così complesse, e attinenti a campi anche lontani dal nostro, da scoraggiarmi dal discuterne qui.
Legata a essa, forse omologabile, mi sembra un’altra funzione adulta, e terapeutica, quella di garanti e testimoni di una memoria storica.
Non nel senso “alto” e ancora una volta, mi sembra, consolatorio del materialismo storico tradizionale: non si tratta, dio ce ne scampi, di proporre una finalistica catena di esistenze che traggono senso dall’esistenza di un progetto e di un fine metaindividuale.
Semplicemente, banalmente, mi chiedo se non possa servire a un adolescente comprendere che alcuni dei drammi con cui si confronta sono si irresolvibili, ma non per questo così atrocemente monadici come spesso gli appaiono; che attraverso di essi sono passati genitori, nonni e le generazioni prima, e altri passeranno dopo di lui. Mi chiedo se non sia questo, e solo questo, a consentirgli di sentirsi speciale ma non alieno; di fantasticare a volte di essere il primo al mondo per cui tutto sarà diverso e chiaro senza mai sentirsi l’unico che non trova la risposta; di pensarsi in grado di fornire ai propri figli risposte che non ha avuto dai padri senza mai viversi come l’anello rotto che interrompe un’infinita storia di itache raggiunte. Di avere una memoria di sé, del mondo, che travalichi la disperazione dell’oggi; che tolga alla perdita dell’innocenza quanto meno il sapore della non-umanità.
Mi chiedo se questo non sia uno dei compiti dell’adulto, dunque anche nostro.