Di quale cancel culture si parla in Italia?

In Italia, alcuni intellettuali più o meno progressisti sono stati attaccati per frasi, comportamenti o vignette sui social. Sui media però tutto questo è stato distorto come se effettivamente ci fosse una dittatura del politicamente corretto e una paranoia di massa ipersensibile e buonista. La cancel culture è anche qui? Più che una similitudine tra il caso italiano e quello anglosassone dove sono stati elaborati e definiti i termini della questione, a risaltare è un certo provincialismo.
Infatti, “Repubblica” importa dal Regno Unito pensose riflessioni sulla sinistra illiberale dimenticando le innumerevoli mediazioni che dovrebbero venir fatte tra il caso italiano e quello anglosassone e amplifica storie senza fondamento, il “Foglio” pubblica articoli in continuazione su qualunque caso (vero o falso, come la storia di Biancaneve) di cancel culture d’oltreoceano, con alcuni dei suoi editorialisti che si lanciano in paragoni tra maoismo e politicamente corretto, il “Fatto quotidiano” manderebbe in galera chiunque sia in odore di indagine da parte della magistratura – Travaglio ha attaccato Lucano, “finto eroe” della sinistra illegalista –, il “Corriere della Sera”, tra le varie cose, ha pubblicato articoli in cui si sostiene che i neri abbiano geni speciali che espongono in modo differente al Covid – sia mai che fossero invece fattori economico-sociali a far sì che si venga colpiti più severamente dal virus. L’immigrazione viene trattata da quasi tutti i media, con qualche sfumatura nei quotidiani di centrosinistra, in termini xenofobi, i femminicidi sono rappresentati quasi sempre in modo voyeuristico e colpevolizzante verso le vittime. Il fascismo, tendenzialmente, o è un eterno richiamo inoffensivo e di comodo o è “quello degli antifascisti”. D’altronde Giorgia Meloni è spesso presentata da vari, autorevoli editorialisti come una leader seria, studiosa e responsabile. Insomma, l’Italia appare lontana anni luce dall’affermarsi del politicamente corretto come metro del dibattito pubblico. Da noi la cultura di massa, in particolare quella televisiva (si pensi soltanto a Pio e Amedeo, salutati come coraggiosi alfieri del free speech) sembra non essere stata sfiorata, nemmeno tangenzialmente, dalle forme di ostracismo che alcune uscite retrograde meriterebbero. Come ha detto Helena Janeczek, il metodo della gogna e della stigmatizzazione, in Italia, l’abbiamo visto impiegato soprattutto da destra, che è ancora profondamente omofoba, misogina e razzista.
Alle considerazioni di chi fa giustamente notare che l’Italia – dal cuore e dai mass media ancora berlusconiani – si dimostra impermeabile alle dinamiche della cancellazione, le cassandre che gridano al liberticidio di importazione anglo-americana oppongono un argomento molto semplice. Come molte tendenze, intellettuali e non solo, che sono nate negli Stati Uniti e si sono poi diffuse in Europa, arriverà anche la cancel culture. In altre parole, subiremo, anche in questo, l’influenza americana e la tirannia del politicamente corretto si abbatterà persino sull’Italia di Boldi e De Sica. Ad ogni modo, il ragionamento induttivo è comprensibile ma a ben guardare si rivela semplicistico. Infatti, esso affronta il tema dell’indignazione pubblica verso espressioni lesive della dignità di vari gruppi di persone come se si trattasse di una polarizzazione squisitamente intellettuale, del tutto slegata dalle istanze materiali che questi gruppi sollevano nella società. Come è evidente, la posta in gioco non è solo la libertà d’espressione ma il rapporto tra cultura e società. Se esiste il rischio del giustizialismo, della soluzione penale a problemi storico-politici, della gogna sui social è altrettanto importante non attestarsi sulla linea della semplice intangibilità del diritto di esprimersi, a prescindere dal contenuto. Che un docente venga licenziato e la sua carriera venga compromessa sulla base di semplici accuse, in assenza di un giusto processo, è un fatto grave. Tuttavia, sarebbe altrettanto grave perdere di vista o minimizzare i meccanismi oppressivi che ancora operano nella società e la reiterazione di pregiudizi da parte di chi detiene posizioni di potere.
Negli USA il fenomeno non riguarda solo i campus universitari o il giornalismo, e ciò avviene perché la pratica del call out, della denuncia pubblica, si è affermata sulla base dell’attività militante di movimenti di massa; movimenti oceanici e capaci di esercitare pressione su media e accademia (si pensi fra tutti alla portata di Black Lives Matter). La situazione in Italia è certamente differente: al momento – purtroppo – l’ambiente universitario, così come il giornalismo e la comunicazione mainstream, conservano un certo grado di impenetrabilità da parte dei movimenti, i quali a loro volta agiscono su una scala ridotta.
Si potrebbe andare ancora a ritroso nella catena causale e risalire alle ragioni storiche di tale divergenza – si pensi, ad esempio, alla storia dell’immigrazione in Italia rispetto a quella degli Stati Uniti o la Gran Bretagna, o alla scarsa elaborazione del razzismo coloniale. Tuttavia, per il momento ciò è sufficiente a mostrare come l’allarmismo di chi parla dell’imminente ondata di repressione culturale è solamente strumentale e risulta sostanzialmente indistinguibile dal conservatorismo di destra. In sintesi, le ragioni per cui parlare di maoismo in Italia è del tutto infondato hanno a che fare con la diversa “potenza di fuoco” dei movimenti sociali e con lo scollamento che c’è fra questi ultimi e una cultura di massa ancora egemonizzata da forme cangianti di berlusconismo.
L’allarmismo di chi parla dell’imminente ondata di repressione culturale è solamente strumentale e risulta sostanzialmente indistinguibile dal conservatorismo di destra.
Non c’è dunque corrispondenza diretta tra il dibattito anglo-americano sulla cancel culture e quello italiano. Se negli Stati Uniti il fenomeno tradizionalmente inteso come cancel culture può dirsi realmente pervasivo, al punto che una storica come Anne Applebaum ha giustamente messo in luce gli eccessi di quello che rischia di trasformarsi in una forma di neo-puritanesimo – in cui la modalità del linciaggio e la nevrosi giustizialista trovano sempre più spazio –, in Italia la polarizzazione avviene ed è avvenuta su una scala infinitamente più piccola. In Italia, peraltro, non si è dato il minimo risalto alle ritorsioni e alle censure che hanno colpito anche docenti vicini a BLM, studiosi decoloniali ed esponenti della Critical Race Theory, nuovi spauracchi non solo della alt-right ma anche del centro neoliberale, come indica il caso francese, a dimostrazione del fatto che la pratica dell’attacco pubblico inizia ad essere sfruttata anche dalla destra. Inoltre, la discussione italiana coinvolge soltanto nicchie della produzione culturale, tanto che il focus non è più squisitamente politico, ma anzitutto teorico, e quindi emancipato dalle dinamiche socio-economiche del Paese. Non è quindi un caso che quando lo scrittore Walter Siti sembra affrontare il tema, in realtà lo fa solo indirettamente: dal piano politico passa al tema della vocazione politica della letteratura e quindi, a seguito di uno spostamento tanto importante quanto impercettibile, il discorso si fa filosofico e/o estetologico. Detto ciò, ben venga anche questo piano d’analisi, a patto che non si confondano i due livelli. È giusto, come fa Siti, criticare l’impegno alla moda, comodo, facile e superficiale, utile a vendere di più ma non a prendere consapevolezza di contraddizioni, miserie e problemi. La cultura non deve e non può essere soltanto quella che incoraggia le buone azioni e contrasta le cattive, ma forse l’ambiguità, l’irresolutezza, la contraddizione del reale di cui la cultura deve e vuole trattare sono tali se non ci si schiaccia nemmeno sul polo opposto della contemplazione compiaciuta, al tempo pietrificante e malinconica, del caos del mondo, che si può solo descrivere e patire. D’altronde, Siti, alla fine del suo saggio Contro l’impegno si chiedeva se, tutto sommato, la sua furia anti-buonista nella cultura, contro i Saviano, le Murgia, i Carofiglio, etc. (bersagli polemici piuttosto facili) non derivi da una sua condizione soggettiva, senile e crepuscolare. La critica all’impegno a buon mercato diventa così, facilmente, rinuncia a qualunque rapporto tra cultura e società che non sia di tipo dolorosamente descrittivo: il male è ovunque, infinitamente difficile è contrastarlo, sono finiti i bei tempi delle classi sociali contrapposte e decifrabili, tuteliamo la libertà e l’autonomia della cultura, al resto ci penserà qualcuno, possibilmente senza rompere troppo le scatole con i cliché sui maschi bianchi eterosessuali ed eurocentrici. Non a caso il saggio si chiama Contro l’impegno, nonostante poi Siti ci abbia tenuto a spiegare che l’oggetto polemico sia un certo tipo di impegno, il neo-impegno, nella cultura e non l’impegno tout court. Un titolo forse commerciale e ad effetto, subito dall’autore?
Contro il terribile pericolo dello zdanovismo, tramontata la possibilità di stabilire nessi narrativi tra storie individuali e fenomeni sociopolitici, nauseati dalla filosofia critica fintamente rivoluzionaria e veramente commerciale, si rischia di tornare nei dintorni dell’arte per l’arte, o della constatazione dell’esistente perché tutto è sempre più complesso e meno ideologico di quanto sembri – l’ideologia è sempre degli altri, qui si fa critica dal punto zero della verità oggettiva e della conoscenza assoluta. Allo stesso modo anche la rozzezza e la superficialità sono sempre altrui, anche se Siti nell’introduzione alla raccolta di suoi articoli su cultura e impegno, si crea dei nemici di comodo (siamo sicuri che D’Avenia, oltre eventualmente ad uno stile assimilabile, abbia degli obiettivi politici paragonabili a quelli di Murgia?), dimostrando quantomeno superficialità quando si chiede se ci sia più cultura in un copricapo di un nativo d’America o in un’opera di Michelangelo. Nella seconda, scrive ci sono “dentro più cose, più tecnica, più filosofia, più coerenza, più cultura sedimentata”. La critica all’eurocentrismo è risolta un po’ troppo velocemente. Nella raccolta, in un saggio contro l’antifascismo semplice degli scrittori italiani, Siti ripropone anche la tesi del determinismo marxista, ossia che la sfera culturale sia un mero riflesso di quella economica. Anche qui i rozzi alfieri del politicamente corretto – ma lo stesso Marx in altre opere rispetto a quelle a cui si riferisce Siti qui –, o alcuni docenti nei terribili campus anglosassoni e francesi, hanno disarticolato la relazione tra le due sfere e hanno introdotto diverse mediazioni e deviazioni tra i due piani. E da questo non consegue che scrivere sia un atto in sé rivoluzionario e che valga il rapporto inverso tra struttura e sovrastruttura.
È paradossale poi che la critica all’impegno a tesi venga fatta da uno scrittore come Siti che vinse lo Strega nel 2013 con un romanzo sulla finanza, demone degli anni dell’austerità successivi alla crisi del 2008. Eppure la malvagità del mondo della finanza viene mostrata attraverso l’iperbole del finanziere mezzo mafioso e sicuramente pedofilo. Il male non era più impalpabile e sottile, tutti noi non siamo più complici e corrotti di come ci vorremmo rappresentare? La virtù di chi denuncia la cancel culture e il buonismo politicamente corretto nella cultura, da sinistra o dal centro – non ci occupiamo della critica da destra qui – sembra che in fin dei conti consista nel sollevarsi da quello che si pensa essere lo spirito del tempo, un tiepido progressismo che guarda alle “minoranze” – come se i non europei o nordamericani lo fossero, come se i soggetti non binari fossero un gruppo minoritario di capricciosi, come se le donne fossero già affermate e potenti nei posti di comando grazie alle quote rosa. Come se razzismo, misoginia e omo-transfobia fossero strutture del tutto esterne al sistema economico e non anche – contraddittorie – articolazioni del suo funzionamento.
Questo articolo è disponibile gratuitamente grazie al sostegno dei nostri abbonati e delle nostre abbonate. Per sostenere il nostro progetto editoriale e renderlo ancora più grande, abbonati agli Asini.