Crescere a Tehran
L’ultima controversia riguarda lo sport. In Iran, possono le ragazze andare allo stadio per guardare una partita di pallavolo (maschile)? Quando, nel giugno scorso, la capitale iraniana ha ospitato alcuni incontri dei mondiali di pallavolo, tra cui un incontro Usa-Iran, l’eccitazione era al massimo: le autorità avevano annunciato che un certo numero di posti sarebbe stato riservato al pubblico femminile. Per la prima volta delle ragazze sarebbero entrate in uno stadio, cosa finora vietata – in teoria per proteggerle da comportamenti volgari dei tifosi uomini (divieto assurdo e anche irragionevole, dato che tutti possono vedere lo sport in tv e caroselli di tifosi per le strade, di entrambi i sessi, sono frequenti: ma certe proibizioni non sono mai ragionevoli).
Insomma, un tabù della Repubblica Islamica era sul punto di cadere. Da oltre un decennio giovani tifose fanno pressione per entrare negli stadi di calcio – pressioni in senso letterale, perché è successo anche che gruppi di ragazze abbiano sfondato i picchetti della sicurezza. Oppure cercano di sgattaiolare dentro (come racconta Offside, film del regista Jafar Panahì).
Lo “storico” evento però non c’è stato. Per quegli incontri di pallavolo le autorità avevano riservato solo 200 posti (sui 12mila che contiene il Complesso sportivo Azadi di Tehran) a funzionarie della federazione iraniana di pallavolo e parenti di giocatori. Poi hanno cancellato anche quelli: la partita Usa-Iran ha avuto il solito pubblico solo maschile. Sui social media è esplosa la rabbia, da settimane circolano condanne indignate in Iran e fuori, e un’organizzazione per i diritti umani come Human Rights Watch chiede che la Federazione internazionale di Volleyball penalizzi l’Iran perché discrimina le donne.
La storia della pallavolo è solo un episodio tra tanti. Ma è l’ennesimo segnale dello scollamento tra il sistema di norme che regge la Repubblica Islamica dell’Iran e la sua società, soprattutto i suoi giovani: oggi il 65 per cento dei 75 milioni di iraniani ha meno di 35 anni. Ovvero, due terzi degli iraniani sono nati dopo la Rivoluzione che nel 1979 ha rovesciato lo Shah e il suo regime dittatoriale – quella strana rivoluzione insieme politica e religiosa, nazionalista, antimperialista, egualitaria e clericale, che ha dato vita al peculiare sistema politico che è l’Iran oggi. Il fatto è che da allora è avvenuta un’altra rivoluzione, profonda, nella società iraniana, e i vertici del sistema stentano a comprenderlo.
Chi sono dunque i figli della Rivoluzione? Intanto, qualche dato di fatto. L’Iran è una nazione giovane, ma oggi i demografi si preoccupano per l’invecchiamento della popolazione – e per l’aumento dei divorzi. La popolazione iraniana è cresciuta in fretta negli anni ’70 e ’80, poi ha rallentato bruscamente. Le giovani coppie fanno meno bambini: il tasso di fertilità (il numero di figli che una donna mette al mondo nell’arco della sua vita) è 1,7, cioè sotto il tasso di riproduzione di una popolazione. In parte questo è il risultato di una politica deliberata: a partire dagli anni ’90 il governo iraniano ha promosso i servizi di “salute riproduttiva”. La politica ufficiale poi è cambiata, l’amministrazione ultraconservatrice del presidente Ahmadi Nejad ha abbandonato il sostegno alla contraccezione. Ma questo non ha cambiato la tendenza di fondo. Anche percé la società nel frattempo era cambiata.
Ovvio: la scelta di fare più o meno figli va ben oltre ciò che pianificano i governi. Riflette altre trasformazioni sociali, culturali, personali, in cui entrano in gioco l’istruzione, la salute, il benessere, la relazioni tra uomini e donne, le aspirazioni delle persone. E oggi l’Iran è una nazione urbanizzata (quasi tre quarti degli iraniani vivono in città e la popolazione rurale continua a diminuire), dove gli indicatori sociali che definiscono lo “sviluppo umano” sono relativamente alti. E con una popolazione istruita: l’Iran rivoluzionario ha mandato tutti a scuola bambini e bambine. Il tasso di istruzione tra i giovani ormai raggiunge il 97 per cento, alla pari tra uomini e donne.
Un altro aspetto dei cambiamenti profondi avvenuti nella società è l’uso del web. Gli iraniani sono tra i più entusiasti utilizzatori della comunicazione online. Il primo weblog attribuito a un iraniano risale al 2001; nel 2009 erano censiti circa 400 mila blog originati in Iran, di cui circa 70mila attivi. Il web è diventato rapidamente uno spazio pubblico molto frequentato, sia da critici e oppositori che da voci del mainstream. Giornalisti censurati sulla carta stampata sono emigrati sul internet, sono nati giornali e web-tv. Certo, poi la censura ha colpito anche il web, in particolare dopo le contestate elezioni del 2009. Molti blogger hanno conosciuto la galera. In un paese in pieno boom tecnologico, blog e giornali on-line sono già soppiantati dai social media: oggi 4 milioni di iraniani usa Facebook, altrettanti hanno un account twitter – inclusi molti esponenti del regime. Certo, molti siti sono filtrati, oscurati: ma la censura su internet è quasi ridicola, i software per aggirarla sono sempre più semplici e diffusi. Non c’è un limite d’età per usare il web, ma è ragionevole pensare che siano in buona parte giovani ad affollare la “blogosfera” iraniana. E questo significa che i giovani iraniani sono dentro a uno spazio globale di cui condividono film, musica, personaggi, tendenze.
L’università è un elemento chiave della rivoluzione profonda avvenuta in Iran. Intanto, perché l’istruzione superiore è alta: il 58 per cento dei giovani tra 18 e 24 anni frequenta l’università. Significa che ci sono 4,5 milioni di studenti universitari (il dato è del 2013). Non solo: all’Università statale si entra per concorso e ogni anno decine di migliaia di giovani, donne e uomini, fanno l’esame di ammissione. L’esame è nazionale; a seconda del punteggio raggiunto il candidato sarà ammesso nella città che ha chiesto oppure altrove. Dunque ogni anno migliaia di ragazze e ragazzi vanno a studiare in un’altra città, dove staranno nel pensionato universitario, lontano dalla famiglia e a contatto con i coetanei dell’altro sesso. Succede ormai da venti o trent’anni: famiglie più o meno abbienti, più o meno tradizionaliste, di ogni retroterra culturale, di grandi città e piccoli centri di provincia, mandano i figli a studiare fuori casa (anche grazie all’università gratuita). Questo significa generazioni di giovani iraniani hanno non solo preso una laurea o un dottorato, ma hanno fatto un apprendistato di autonomia personale. Si aspettano di trovare occupazioni adeguate ai loro titoli di studio, e di costruire vite indipendenti. Giovani uomini e anche donne si aspettano di poter seguire le proprie aspirazioni, magari continuare a studiare, intraprendere una carriera. Così, se guardiamo le scelte circa il lavoro, formare una famiglia o quanti figli fare, oggi la distanza tra la generazione dei nonni e quella dei nipoti di una stessa famiglia è spesso più grande che tra famiglie rurali o urbane, o tra classi sociali.
L’anno scorso un famoso magazine, Zanan-e-Emruz (“Donne d’oggi”), diretto dalla giornalista e femminista Shahla Sherkat, ha fatto scandalo a Tehran pubblicando un numero speciale sui “matrimoni bianchi”. Si usa chiamare così la convivenza di coppie non sposate, e già il fatto che un giornale se ne occupi dice quanto profondi siano i cambiamenti nella società iraniana. Risulta che molte giovani coppie decidono di convivere prima di decidere un eventuale matrimonio, e che questo è un comportamento minoritario, certo, ma sempre più diffuso: e non solo negli strati alti, più istruiti o più “occidentalizzati”. È una scelta contrastata (tra le testimonianze pubblicate, molti spiegavano di aver cambiato casa parecchie volte per evitare le curiosità dei vicini, o la domanda “ma quando vi sposate?”). Le famiglie a volte approvano, a volte ci si rassegnano. È anche una scelta che può creare guai: la legge vieta adulterio e fornicazione, quindi sesso extra-matrimonio. Eppure si diffonde.
Non solo: i divorzi sono in aumento vertiginoso, e cresce anche il numero di giovani donne che vivono sole, perché non si sposano o perché uscite da una separazione. Secondo le statistiche del Registro civile, il 20 percento dei matrimoni, uno su 5, finisce in divorzio (le cause più frequenti sono quelle economiche, l’adulterio, o il fatto che lui è tossicodipendente o alcoolizzato o violento). Un numero crescente di giovani poi sceglie di restare single: sempre secondo il Registro civile, in Iran 11 milioni di giovani in età da matrimonio (considerata tra 20 e 30 anni per gli uomini, 15-29 per le donne) non sono sposati. Ovvero, quasi metà degli uomini e delle donne in quella parentesi di età non si sposa affatto, o rinvia.
Non è semplice dare una lettura a questi dati, ma una cosa è certa: le strutture familiari tradizionali sono rimesse in discussione, le relazioni tra uomini e donne sono in via di ridefinizione. E per una giovane donna, il matrimonio non è più l’orizzonte inevitabile.
Tutto questo, beninteso, è oggetto di conflitto. Negli ultimissimi anni le correnti conservatrici del clero hanno cominciato a fare campagna perché i giovani si sposino di più e facciano più figli, per la grandezza della nazione e dei valori islamici. Sui giornali conservatori si parla spesso di divorzi, o di matrimoni bianchi, per additarli come elemento di decadenza morale, peccato, rovina delle famiglie. Non stupisce che uno stato fondato sulla morale religiosa condanni le libere convivenze. Il fatto è che non saranno le prediche a cambiare le scelte sempre più diffuse tra i giovani iraniani, a convincerli a fare più figli o tenere insieme matrimoni che si rompono.
Il numero speciale di Zanan-e-Emruz sui “matrimoni bianchi” ha fatto scandalo perché, al contrario della stampa conservatrice, non esprimeva giudizi o condanne: invece dava la parola giovani e giovani donne, per raccontare le loro ragioni in modo simpatetico. L’ha pagata cara però: lo scorso aprile il giornale è stato costretto a interrompere le pubblicazioni per ordine del Tribunale di Tehran, Ufficio speciale per la stampa, che lo ha accusato di “incoraggiare il fenomeno a-sociale e irreligioso noto come matrimonio bianco”. (Zanan-e Emruz era uscito nel giugno 2014, e sarebbe una storia a sé: era la reincarnazione del mensile fondato nel 1992 sempre da Shahla Sherkat; allora si chiamava solo Zanan, “Donne”, e aveva segnato un’epoca).
Dunque una rivoluzione che ha modernizzato la società iraniana, diffuso la scuola di massa, creato cittadini dove prima c’erano sudditi, ha anche dato vita a una popolazione di giovani istruiti, immersi nella comunicazione globale, grandi consumatori del web, emancipati, che aspirano a benessere e indipendenza.
Solo che queste aspirazioni sono compresse. Sia perché la disoccupazione è alta, dopo anni di depressione dell’economia. Sia per i tanti divieti e censure della vita quotidiana – dalle prescrizioni sull’abbigliamento a quelle sui comportamenti pubblici. Le espressioni culturali, la musica, il cinema sono sottoposti a censura. Questo non impedisce che la scena culturale sia vivace. A Tehran e in altre città si moltiplicano le produzioni musicali: ma devono circolare underground, incidere in proprio e distribuire su internet; è molto difficile ottenere i permessi per concerti pubblici, e praticamente impossibile quando si tratta di musica pop, per non parlare di rock, rap, o altro. Poi c’è l’eterna battaglia sulla voce femminile: l’assolo è vietato, le donne possono cantare ma solo in coro, possibilmente senza apparire troppo. Concerti e recital con voci femminili in realtà non sono rari, ma devono limitarsi in occasioni semi-private, presso associazioni. Decine, centinaia di giovani si dedicano al documentario, al cinema, alla scrittura – ma anche loro in un continuo negoziato con le autorità, permessi, visti della censura.
L’attivismo sociale è altrettanto compresso. Pensare che nel 2005, alla fine della presidenza del riformista Mohammad Khatami, in Iran c’erano oltre 4.000 “organizzazioni non governative” registrate – associazioni culturali, sociali, sportive, ricreative d’ogni genere, tra cui organizzazioni di donne, gruppi per l’ambiente, associazioni professionali. Nel 2013, alla fine dell’amministrazione di Ahmadi-Nejad, erano ridotte a 54: una società civile annientata. Con la presidenza di Hassan Rohani è tornata qualche apertura, negli ultimi due anni sono state registrate 550 organizzazioni indipendenti, ma resta una strada lunga. L’establishment conservatore guarda con sospetto le espressioni indipendenti della società civile: le considera una minaccia, tentativi di sovvertire il sistema. Peggio: sospetta che siano strumenti per la penetrazione di agenti esterni, fautori di “rivoluzioni di velluto”.
L’attivismo politico studentesco è stato particolarmente represso: gli attivisti di organizzazioni studentesche arrestati, in particolare dopo il 2009, spesso hanno ricevuto sentenze più pesanti di altri dissidenti, artisti, giornalisti. Centinaia di attivisti studenteschi sono fuggiti all’estero in quegli anni, e ancora nelle università non si è ricostruita un’organizzazione studentesca indipendente.
Già, il 2009: l’anno della contestata rielezione del presidente Ahmadi Nejad, a cui è seguita da un’ondata di proteste mai vista dai tempi della Rivoluzione. Le proteste hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone, per lo più giovani (ma non solo), e hanno colto tutti di sorpresa: non s’era mai vista una sfida di tali proporzioni al sistema nato dalla Rivoluzione islamica. Si chiamava “l’onda verde”, dal colore usato durante la campagna elettorale dai candidati riformisti Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, poi messi agli arresti domiciliari. Un anziano esponente politico da sempre dissidente, il leader del partito nazionalista Ebrahim Yazdi, in quei giorni mi diceva che quei giovani per le strade erano i veri figli della rivoluzione: «Le loro madri erano scese per le strade, nel ’79, in nome della libertà. I loro figli hanno imparato questo: che se non ti piace lo stato di cose, protesti».
Quel movimento è stato represso con durezza, e il secondo mandato di Ahmadi Nejad è stato particolarmente soffocante. Ma la leadership è rimasta scoccata, e in qualche modo ha imparato la lezione – come dimostra poi l’elezione di un moderato come Rohani, e le relative aperture portate nella società.
In modo più disincantato, la scrittrice Mahsa Mohebali parla di “terremoto”. Un suo romanzo di grande successo, Non ti preoccupare (tradotto anche in italiano da Ponte33, 2015), ha per protagonista una ragazza alla ricerca di una dose di oppio – la tossicodipendenza è molto diffusa in Iran. In città c’è il terremoto, tutti fuggono, e le strade sono invase da giovani, d’improvviso padroni della scena. Musica a tutto volume, chi balla, chi urla. Blues, jazz, rock, metal: hanno “la città in pugno” e finalmente tutto è possibile. Il romanzo è stato pubblicato in Iran (sì, ha anche avuto l’imprimatur della censura) poco prima delle elezioni del 2009, e più tardi qualcuno ci ha visto una sorta di premonizione. Mahsa Mohebali però spiegava, quando l’ho incontrata a Tehran lo scorso aprile, che «a Tehran ogni giorno c’è il terremoto». In una società sotto pressione, dice, «anche solo un piccolo spiraglio diventa l’occasione per scatenarsi – ballare in strada, fare ciò che è vietato». Citava ad esempio il calcio: «Quando la nazionale di calcio iraniana vinse all’ultimo minuto una partita del campionato mondiale, nel 1998, a Tehran migliaia di persone uscirono a festeggiare. Era poco dopo l’elezione del presidente Khatami. Quella sera le ragazze lasciavano cadere i foulard e gli agenti non potevano impedirlo. Finì con uno scatenamento generale, vandalismi, macchine della polizia rovesciate. Era una manifestazione di felicità: pensa se fosse stata di rabbia!».
I giovani in particolare non hanno niente da perdere, e vogliono cambiare, dice Mohebali: «È la logica conseguenza della repressione». «C’è un potenziale di energia nei giovani, lo vedono tutti. Sei mesi dopo la pubblicazione del mio romanzo c’è stato il movimento dell’onda verde: no, non avevo previsto nulla, avevo solo visto ciò che era sotto gli occhi di tutti, una grande energia pronta a esplodere».