Pavia: Nel loro piccolo già lo sanno
La settimana scorsa alle mie classi ho dato un tema. Scrivo queste righe nelle pause fra una correzione e l’altra. Era una simulazione della prima prova di maturità, la seconda traccia consisteva nell’analisi di un editoriale scritto da Michele Sicca, della Rete degli studenti medi, pubblicato sul numero 5 del settimanale Left, uscito agli inizi di febbraio, nel cuore di una rivolta studentesca che arriva in un’epoca strana per la scuola, che da due anni sta proclamando un ritorno alla normalità: da Trastevere la impongono, salva fatta la costellazione di indicazioni e circolari cavillose su cosa fare con un contagiato, con due, con tre. Noi insegnanti cerchiamo di costruirla questa scuola, tra creatività disperazione e rassegnazione, ma gli studenti proprio non la vedono, e provano ad aprire un conflitto che sembra generazionale, ma chiama in causa i ruoli sociali di tutti gli attori coinvolti.
Nella traccia, oltre all’analisi dell’articolo, ho chiesto ai miei alunni di argomentare sulla possibilità di abolire il Pcto, anche alla luce dell’esperienza di stage e del particolare indirizzo dei loro studi: vivo e lavoro in una sonnacchiosa città della ricca provincia lombarda, ma la mia è una scuola di frontiera, un istituto tecnico e professionale i cui iscritti fanno in media 50 km al giorno per seguire le lezioni. Tra le emozioni contrastanti che provo quando li guardo, c’è anche una profonda ammirazione: i miei studenti a 14 anni hanno deciso che sarebbero diventati cuochi, pasticceri, baristi. Io alla loro età non avevo le idee così chiare. Ma non so se tutti i ragazzi che ho di fronte un giorno diventeranno cuochi, pasticceri, baristi. Magari biologi o insegnanti, a dispetto delle statistiche; o più semplicemente disoccupati. E io devo prepararli per ciascuna di queste eventualità: non mi rassegno a una scuola che settorializza gli studenti in uscita dalle medie e che immagina il futuro di chi sceglie un professionale solo in funzione del suo potenziale produttivo nel mondo di domani. Anzi, a un tornitore, a un meccanico, serve più che a un liceale capire come guardava il mondo Leopardi, o perché scoppiano le guerre di ieri e di oggi; e serve farlo bene, aiutandolo a trovare gli strumenti giusti, perché difficilmente nel corso della sua vita avrà l’occasione o il tempo di costruirsene altri, senza il supporto della scuola.
Correggendo i temi, mi sono reso conto che una buona parte dei miei alunni non ha compreso la traccia: la richiesta era di analizzare i pro e i contro dell’ex alternanza scuola-lavoro, ma quasi tutti si sono concentrati sulla narrazione della loro prima esperienza nell’attività che – almeno stando al pezzo di carta che conquisteranno entro luglio – dovrebbe impegnare la loro vita fino alla pensione. La prima cosa che mi colpisce è questa urgenza di raccontare: traspare un senso di inadeguatezza professionale, di ansia nei confronti del mondo del lavoro, che lo stage solo in parte riesce a compensare.
“Personalmente non ho voluto affrontare lo stage previsto dal mio percorso scolastico perché non lo ritenevo inerente al mio futuro, ma ho voluto crearmi un’esperienza lavorativa adeguatamente retribuita che non riguardasse la mia scuola” scrive R., che fa fatica a immaginarsi nella cucina di un ristorante. Invece che lavorare in azienda ha deciso di frequentare una serie di corsi online che il mio istituto ha individuato per garantire lo svolgimento del Pcto anche in piena emergenza sanitaria. Tutte le attività consistevano in una serie di videolezioni con questionari per valutare l’assimilazione dei contenuti, la cui natura riflette perfettamente la visione del rapporto scuola-lavoro formalizzata dalla legge 107/2015: una standardizzazione delle competenze che vede predominare il sapere sul saper fare, la promozione di una cultura aziendale fatta di business plan e project-work, di competitività ed efficienza. Se alcuni corsi che abbiamo somministrato potevano avere una effettiva utilità pratica, ad esempio fornendo indicazioni su come redigere un curriculum oppure affrontare un colloquio di lavoro, altri invece mi hanno lasciato più perplesso: veramente ai miei alunni servono informazioni sull’efficientamento energetico realizzate in collaborazione con un noto distributore di materiali per il fai da te? Quanto è utile un percorso di educazione finanziaria promosso da un colosso delle assicurazioni e da una branca di Confindustria? Quali suggerimenti può dare il distributore italiano dei prodotti della più grande multinazionale di bibite gassate ai giovani che si affacciano sul mondo del lavoro? Pur comprendendone la logica emergenziale, rimango molto critico su questa scelta; se tra le intenzioni della “Buona scuola” c’era l’idea di un triennio come un ponte fra istruzione e futuro professionale, nei fatti le prospettive sono ribaltate: è l’azienda a entrare nella scuola, non viceversa. Ma nella contrapposizione fra emergenza e ritorno alla normalità, la sostituzione di parte del monte ore del Pcto con dei corsi online è solo uno dei tanti sacrifici che abbiamo dovuto imporre ai nostri studenti. Verso maggio, una volta chiaro che la ristorazione avrebbe ripreso le proprie attività regolarmente, abbiamo lasciato facoltà di scelta: gli alunni potevano fare esperienza in azienda per le rimanenti 90 ore, oppure optare per altre attività a distanza. Una buona parte di loro ha deciso di mettersi alla prova, perché è evidente che gli istituti professionali non possono prescindere dalla preparazione pratica dei propri alunni in una situazione di realtà. Dal terzo anno gli studenti dell’alberghiero scelgono un indirizzo, e parte dell’orario settimanale viene dedicata ad attività di laboratorio che dovrebbero fornire competenze di base da spendere nel contesto lavorativo futuro: lo stage quando arriva è un vero e proprio banco di prova in cui, spesso per la prima volta, quanto appreso nell’ambiente protetto della scuola viene testato di fronte alle concrete necessità e ai ritmi di lavoro di un’azienda del settore. Leggendo i temi ripenso all’ansia e alla voglia di fare che avevano sette mesi fa: ora nelle loro parole sento tante aspettative tradite, tante paure confermate.
N. ad esempio è molto deluso dalla sua esperienza, non si riteneva sufficientemente formato per entrare in una cucina e lavorare in autonomia, per tre settimane si è sentito abbandonato a sé stesso. Secondo lui il percorso “è da riscrivere, perché ci dovrebbe essere un insegnante con te che valuti come lavori e quali sono le tue abilità. In una cucina di un ristorante la pressione di servire cento o centocinquanta persone non permette allo chef di fermarsi a spiegare con chiarezza e con calma come vanno svolti i compiti al tirocinante, che potrebbe essere confuso impreparato”. La figura a cui si riferisce dovrebbe essere il tutor aziendale, il mio omologo, quello che segue pari passo l’alunno durante lo stage: in realtà i nostri rapporti sono sottomessi alla più tradizionale forma di burocrazia scolastica. Con alcuni di loro ho scambiato qualche parola al telefono, ho preparato dei moduli da firmare e controfirmare, ho ricevuto e letto schede di valutazione e relazioni finali, poche crocette su un questionario preparato dalla scuola, a volte qualche laconica riga di commento, raramente capace di restituirmi l’esperienza reale dello stage. La carta c’è tutta, archiviata in bell’ordine e a prova d’ispezione, ma quello che manca, come al solito, è una rete di relazioni il cui centro sia l’alunno, non la documentazione che testimonia della forma e quasi nulla della sostanza.
Tutte le contraddizioni del Pcto sono perfettamente evidenti agli occhi dei miei studenti, ciononostante nelle mie classi non si protesta contro l’alternanza: nessuno di loro vorrebbe abolirla, e spesso prevalgono argomenti retorici contro i fannulloni che scioperano perché non vogliono fare l’esame o lo stage, nei quali si legge un certo tono paternalistico; trionfa l’imperativo del lavoro a ogni costo. E noi dovremmo insegnare che no, il lavoro ha un costo preciso, dei diritti e delle garanzie. Dovremmo spiegare che il rispetto e la dignità del lavoro non devono andare di pari passo con la retribuzione o la posizione nell’organigramma aziendale, che il nonnismo da caserma dovrebbe essere sbattuto fuori dai posti di lavoro, e che ci sono leggi precise che lo proibiscono. E che alzare la voce serve, se sai quali parole usare: anche a questo serve la mia materia.
Però mi rendo conto che i miei alunni, nella loro imperizia e insicurezza, sono paradossalmente preparati a questo mondo del lavoro, fatto di sfruttamento e assenza di garanzie. Sono attori perfetti per obbedire, mandare giù senza contestare, conservando e sfogando le proprie recriminazioni nella loro sfera privata, in un paese che rimuove il conflitto e impone a chi comincia a lavorare ritmi ed esigenze che spesso cozzano con la scala delle priorità reali di giovani poco più che maggiorenni. Nel loro piccolo, sanno già che saranno sottopagati, costretti a svolgere mansioni che sono svilenti o troppo complesse per le loro competenze, in un sistema competitivo e disposto a sacrificare la sicurezza in nome della produttività: di questo raccontano nei loro temi. Da un perverso punto di vista, molte delle loro esperienze di stage li hanno davvero preparati per il loro futuro, ma invece che contribuire a costruire una confidenza in sé e nelle proprie capacità, in molti casi hanno incancrenito ansie e paure che sono già all’ordine del giorno nella mente di un adolescente.
Nel mio compito di insegnante, inteso come membro attivo e critico del mondo in cui vivo, c’è però anche la responsabilità di immaginare un futuro là dove gli studenti – e a volte gli stessi dirigente di viale Trastevere – non lo vedono. Ci sono molti modi di riscrivere il rapporto tra scuola e lavoro, affrontare la questione significa confrontarsi ancora una volta con i due tasti più dolenti che condizionano il mondo dell’istruzione: risorse e spazi. Rifletto sul mio istituto, che nel suo piccolo è un esempio virtuoso: abbiamo progetto di azienda simulata – forse la modalità più valida tra quelle previste dalla normativa sui Pcto – per far svolgere a una parte degli studenti alcune ore di stage all’interno della scuola. È un ristorante didattico aperto al pubblico, nel quale gli studenti per un giorno ogni due settimane svolgono lo stesso servizio che farebbero in azienda, sotto la guida dei loro stessi insegnanti: i cuochi preparano il pranzo, il personale di accoglienza raccoglie le prenotazioni, quello di sala serve ai tavoli. Il tutto in un ambiente protetto, sicuro e al contempo professionale: i miei colleghi di laboratorio hanno anni di esperienza sul campo, sono specificamente formati per la didattica e sono assolutamente consapevoli delle capacità dei propri studenti, perché ci lavorano ogni giorno. Mi spingo oltre con la fantasia: quanto sarebbe bello se per il mio istituto fosse sostenibile prendere in gestione una vera struttura alberghiera, capace contemporaneamente di rispondere alle esigenze del territorio, formare professionisti, pagare i costi di esercizio e al contempo produrre anche un ritorno economico con il quale compensare le strutturali carenze di fondi? Quanto sarebbe bello, se invece che far entrare le aziende a scuola, fosse la scuola stessa a creare una realtà dove l’istruzione convive con la formazione, dove il capitale sociale e quello umano coincidono, includendo gli studenti come parte attiva di questa progettualità, contribuendo a gestire la struttura, magari facendola diventare un vero tassello del loro percorso lavorativo, non solo una snervante parentesi per ottenere un diploma. Allora probabilmente anche le materie teoriche come economia o scienza dell’alimentazione acquisterebbero un senso differente: si tratta di colmare il gap tra scuola e mondo reale, passando dall’obbligo d’istruzione all’ambizione di conoscere, per fare meglio e crearsi un futuro più libero. Un piccolo passo verso la felicità, insomma, che come dice Leopardi è il sommo bene.
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