Cosa fece Franco Basaglia
Franco Basaglia è considerato, a trentadue anni dalla sua scomparsa
Franco Basaglia è considerato, a trentadue anni dalla sua scomparsa, il maggior rappresentante della psichiatria italiana. Il suo nome è familiare anche a chi non si occupa della materia. E’ legato, in modo indissolubile, alla stagione che ha portato alla chiusura dei manicomi civili e alla nascita del sistema territoriale di salute mentale. Ma Basaglia è stato molto di più di quanto il suo stesso mito racconta, così come molto più difficile di quanto possa apparire è stata l’affermazione del movimento cosiddetto “anti-psichiatrico”. Il libro di Oreste Pivetta non è, in assoluto, la prima ricostruzione della biografia di Basaglia. Segue gli ottimi lavori di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio [Franco Basaglia, Bruno Mondadori 2001] e di Maria Grazia Giannichedda.
Pivetta ha però il merito di offrire un testo di agevole lettura, con una puntuale e ampia ricostruzione della vita e del pensiero di Basaglia, utile in particolare a chi voglia per la prima volta approfondire una storia bella e affascinante. Pivetta ricostruisce il clima sociale e politico di quegli anni e ripercorre, con attenzione, il percorso che ha portato “il dottore dei matti” ad essere l’interprete e il rappresentante del movimento che, in un appassionante ventennio di lotte, ha portato al superamento dell’orrore manicomiale e alla realizzazione della prima riforma psichiatrica. Franco Basaglia, veneto, figlio di una famiglia di media borghesia, dopo la laurea in medicina, trascorre oltre dieci anni come assistente nella clinica universitaria di Padova. Il suo professore, lo chiama “il filosofo” perché accompagna alla sua ricerca psichiatrica la lettura di Heidegger, Binswanger, Merleau-Ponty e, soprattutto, di Sartre. È un ricercatore intelligente e brillante, ma l’accesso al mondo universitario gli è precluso. Lui stesso ricorderà, in seguito, “avevo imparato molte cose della logica istituzionale, cioè avevo direttamente sperimentato come questa potesse distruggere una persona e come ci si potesse ammalare di sindrome universitaria”.
Nel 1961 la svolta, Basaglia lascia l’università. Vince il concorso per ricoprire l’incarico di direttore del manicomio civile di Gorizia, oltre cinquecento internati, trattati per lo più ad insulina e d elettroshock. Il manicomio gli appare, da subito, un enorme letamaio, non un ospedale di cura, ma un’ istituzione di custodia. “Quando vi entrammo – ricorderà qualche anno dopo – dicemmo no, un no alla psichiatria, ma soprattutto un no alla miseria”. La legge che, all’epoca, disciplinava i manicomi risaliva al 1904. Basaglia deve misurarsi con un paese in cui lo stigma della malattia mentale è indelebile e nel quale il malato è un dimenticato, privo di dignità e diritti. Comprende da subito che deve rovesciare il meccanismo di istituzionalizzazione del disagio. Deve egli stesso negare quella istituzione che lo vorrebbe, esclusivamente, come tecnico di un sapere custodiale. Incontra i pazienti, rifiuta di indossare il camice bianco, chiama attorno a sé un nucleo di giovani e motivati operatori, apre i reparti, fa sparire grate e letti di contenzione, restituisce identità e dignità ai pazienti, motiva gli infermieri, introduce un modello di gestione basato su assemblee di gestione tra malati e personale medico. Non è affatto facile. Un percorso lungo, oltre dieci anni, che da un lato vedrà diventare Gorizia il punto di riferimento culturale del nascente movimento di critica psichiatrica, dall’altro comporterà fatica, rischi e anche decine di denunce e processi. Basaglia ha l’intelligenza di rompere ogni forma di isolamento, senza per questo accettare mediazioni al ribasso. Costruisce relazioni con i mezzi di informazione, invita fotografi e giornalisti a vedere di persona cosa è il manicomio. Sergio Zavoli si reca a Gorizia e realizza, per la Rai, il documentario I giardini di Abele che rende visibile ad un intero paese lo stato di abbandono e indigenza dei sofferenti psichici. Basaglia dialoga, senza cedimenti, con le istituzioni responsabili del manicomio, ma è intransigente sull’obiettivo.
Scrive, nel libro L’istituzione negata, (pubblicato con Einaudi nel 1968) nel quale si raccontava l’esperienza di Gorizia, “finché si resta all’interno del sistema, la nostra situazione non può che essere contraddittoria: l’istituzione è contemporaneamente negata e gestita, la malattia messa tra parentesi e curata, l’atto terapeutico rifiutato e agito”. E se questa contraddizione non può essere superata, la si può portare al limite delle sue possibilità, fino a giungere al superamento del manicomio. Perché il manicomio va distrutto, ma non è solo in questa forma che si realizza la violenza istituzionale della psichiatria. Basaglia è sempre molto attento a richiamare l’attenzione ai meccanismi capillari del controllo psichiatrico. Il problema non è trasformare il manicomio in una comunità dorata e asettica. Il tema è porre come questione centrale quella della libertà del sofferente psichico. La libertà non è un dono del medico, ma una conquista del malato che deve liberarsi prima di tutto da un sapere medico che lo vuole imbrigliare, custodire, sorvegliare. Bisogna far riemergere la soggettività di chi soffre di disturbi psichici. Il che non significa affermare, spiega, che la sofferenza psichica ha origine solo dalla miseria materiale ma che “esiste una miseria sociale che ci impedisce di esprimere i nostri stessi bisogni e ci costringe a trovare strade anomale e tortuose che passano attraverso la mediazione della malattia, perché ci è impedito di esprimerci in modo immediato”.
Dopo Gorizia, Basaglia si ripeterà (dopo un breve passaggio a Parma) a Trieste, tra il 1971 e il 1978. Anche qui di nuovo, una stagione di lotte, di apertura, di affermazioni, ma anche di contestazioni e incertezze. Una stagione che in parte raggiunge i suoi obiettivi. Si approva la riforma psichiatrica. La legge 180, del 1978, segna di fatto la lunga fine dei manicomi civili (che chiuderanno realmente solo molti anni dopo) e precede di due anni la morte di Basaglia, giunto, nel frattempo, a lavorare a Roma. Una legge della quale coglie le potenzialità, ma che, ne è consapevole, non è priva di ombre. Sartre insegna “le ideologie sono libertà quando si fanno, oppressioni quando son fatte”. La legge, però, spezza “la logica dell’emarginazione di classe, consentita dal manicomio e dalla psichiatria, senza richiudere la crisi aperta in nuove teorie”. Non è sufficiente determinare, in maniera astratta, quale sia il sistema di salute mentale ottimale, la legge di riforma altro non è che una possibilità, una sfida che va colta. Un servizio psichiatrico che contenga un elemento utopico, spiega, è quello nel quale “il tecnico ha la possibilità di vivere praticamente la contraddizione tra il suo ruolo di potere e il suo sapere”.
Non possiamo vincere, possiamo solo convincere, ripeteva, richiamando ad una lotta concreta nella quale si potesse vedere il futuro reale di una situazione che cambia. La morte, giunta solo due anni dopo l’approvazione della riforma, ha interrotto la sua lotta. La lotta di un uomo di grande dimensione intellettuale, ma allo stesso tempo leader carismatico e generoso. Che poteva nascondersi dietro un camice bianco, un ricco stipendio, una scrivania ordinata e che, invece, ha affrontato, a viso aperto, “il letamaio infernale del manicomio”. Interessato, innanzitutto, a quelle vite che andavano, prima ogni altra cosa, liberate, “perché non è vero che lo psichiatra ha due possibilità, una come cittadino e l’altra come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo”.