Come si forma un prete
Nel 2000, anno giubilare, ho conseguito il baccalaureato in teologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Una delle poche donne, e delle pochissime laiche, nella mia “classe”. Affollata da decine di seminaristi. Studentessa lavoratrice, correvo affannata da una lezione a un’intervista da fare o a un convegno da seguire per poi scrivere un articolo, prendendo autobus e metropolitane. Spesso arrivavo trafelata in aula o ne scappavo appena suonata la campanella. Ricordo che alcuni miei compagni di corso, seminaristi, si lamentavano per i troppi esami o per la stanchezza. Allora chiesi: “Scusate, ma com’è organizzata la vostra giornata?”. “Lodi, colazione, poi il pulmino ci porta qui e ci riporta in seminario alla fine delle lezioni; pranzo, riposino e poi tempo per lo studio, Vespri e Messa, cena…”. Replicai: “Ma non vi occupate di cucinare, di fare la spesa, di lavare e stirare i panni?”. Silenzio, qualche velato imbarazzo. A parte lavare i piatti e sparecchiare, il loro tempo era consacrato tutto alla preghiera e allo studio. Problemi pratici, gestionali e domestici pari a zero. Neppure la fatica di prendere i mezzi pubblici e mescolarsi fra la gente.
Ancora, ai corsi – di liturgia, di teologia pastorale, di sacramentaria – gli esempi concreti erano pochi, nei libri di testo men che meno. Quasi che i seminaristi dovessero formarsi con una solida dottrina, ultra-ortodossa, ma non fossero dati loro gli strumenti, o almeno “la cassetta degli attrezzi”, per metterla in pratica. Anzitutto nella loro vita, per testimoniare quella fede incarnata che parla da sola ai fedeli, ai credenti di altre religioni e pure ai non credenti. La ricchezza umana incredibile che vedevo con i miei occhi – vocazioni giovani e adulte, ragazzi provenienti dai quattro angoli del pianeta – mi appariva come un incredibile potenziale di annuncio del Vangelo, che restava però come in sospeso, compresso, in attesa del “la” di un direttore d’orchestra per potersi esplicitare. Le regole, pur necessarie, rischiano sempre di massificare, di comprimere le personalità carismatiche, diventando al tempo stesso un’alibi per le persone pavide, pigre, alla ricerca di un ruolo codificato nel mondo dato dal clergyman al collo e qualche altro segno esteriore. Segni anche questi necessari, ma incapaci di incidere nel profondo di un’anima e di una personalità se la propria libertà non lascia uno spiraglio alla contaminazione interiore dello Spirito.
Una lunga premessa per dire che ho visto con i miei occhi lo scollamento tra teoria e pratica, tra una formazione filosoficamente e teologicamente ineccepibile e il suo travaso nella vita quotidiana di seminaristi troppo “protetti” dalla realtà quotidiana, dalla fatica, dalla concretezza di indossare un grembiule e pelare le patate o stirarsi una camicia. Perché il Verbo si è fatto carne, non è rimasto etereo. Perché la Parola di Dio in ebraico si dice “Dabar”, che vuol dire “parola-fatto”, cioè qualcosa che si realizza, che entra nella storia non per modo di dire. Quindi impregnare di Vangelo i gesti di tutti i giorni, non solo le liturgie solenni, forse è la chiave di volta per una formazione davvero integrale. Non so, forse sarà “deformazione francescana”, ma il mistero dell’incarnazione è collegato così strettamente con quello pasquale da far aborrire una formazione di un futuro presbitero lontana da un percorso esperienziale. Don Luigi Di Liegro, compianto direttore della Caritas romana scomparso nel 1997, parlava di “sporcarsi le mani” e non è una metafora. Il sacerdote cristiano, chiamato come ogni credente a essere un altro Cristo, non può essere “separato” dagli altri, privilegiato, protetto. Fin dal seminario.
Pastorale? Poca teoria, scarsa pratica
Nell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis (n. 57), datata 25 marzo 1992 e relativa alla “formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali”, papa Wojtyla auspicava che il seminarista approfondisse “lo studio di una vera e propria disciplina teologica, la teologia pastorale o pratica, che è una riflessione scientifica sulla chiesa nel suo edificarsi quotidiano con la forza dello Spirito dentro la storia”. Espresso in parole povere, era un invito a mettere “le mani in pasta”, come specifica ulteriormente il pontefice: “Lo studio della teologia pastorale deve illuminare l’applicazione operativa mediante la dedizione ad alcuni servizi pastorali che i candidati al sacerdozio, con necessaria gradualità e sempre in armonia con gli altri impegni formativi, devono assolvere: si tratta di “esperienze” pastorali, che possono confluire in un vero e proprio “tirocinio pastorale”, che può durare anche per diverso tempo e che chiede di essere verificato in maniera metodica”.
A tutt’oggi durante il ciclo di studi teologici, che dura un triennio, c’è soltanto un esame obbligatorio – al terzo anno – in teologia pastorale; tra i corsi opzionali, alla Pontificia università gregoriana di Roma, figura anche quello in “Comunicazione e pastorale: fondamenti teologici e contesti operativi” e quello in “Fragilità della vita: attenzioni pastorali”. Dopo il baccalaureato (il titolo raggiunto a conclusione del triennio), la facoltà di teologia permette di proseguire gli studi per la durata di un anno, offrendo corsi di approfondimento sulla “teologia dell’attività pastorale della Chiesa”; al termine viene rilasciato un diploma in teologia pastorale.
Presso la Pontificia università lateranense l’Istituto pastorale Redemptor hominis – eretto da Pio XII con la costituzione apostolica Ad uberrima del 3 giugno 1958 – prepara i futuri docenti in teologia pastorale e in dottrina sociale della Chiesa per le facoltà ecclesiastiche, i seminari e le scuole di teologia. Due gli indirizzi di specializzazione, per conseguire la licenza in teologia pastorale (con le specializzazioni in teologia pastorale della comunità ecclesiale, teologia dell’evangelizzazione, teologia dell’educazione, teologia della comunicazione) e in dottrina sociale della Chiesa. Ancora poco, troppo poco.
Un’esperienza significativa
Lo scorso anno quattordici seminaristi romani hanno animato una missione popolare presso i campi Rom della capitale; i giovani del Seminario romano maggiore avevano tra i 20 e i 42 anni ed erano guidati da don Paolo Lojudice, uno dei direttori spirituali, che prima di questo incarico è stato parroco nel quartiere periferico di Tor Bella Monica. Don Paolo frequenta da tempo con i seminaristi il campo rom di Salone, dove in container di due metri e mezzo per otto vivono da circa quindici anni in dodici persone.
Il progetto inedito di una missione popolare nei campi Rom è maturato progressivamente, durante quattro anni di servizio, un pomeriggio a settimana, insieme ai seminaristi e ad alcuni ragazzi dell’anno propedeutico al seminario. “Cosa abbiamo fatto? Incontri e colloqui con le famiglie, visite negli insediamenti non solo di Salone, ma del Salario, di Castel Romano, di Corso Francia, di Candoni alla Magliana: una presenza che ha suscitato inizialmente perplessità e curiosità, poi attesa e accoglienza” Per i tanti bambini, qualche momento di catechesi anche attraverso filmati, giochi e partite di calcetto presso la parrocchia di Sant’Alessio a Case Rosse.
Filo rosso dell’esperienza, la Messa celebrata ogni mattina a turno dai vescovi Giuseppe Marciante, Guerino Di Tora, mons. Enrico Feroci (direttore della Caritas romana) e padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli. “Eucarestie curate e al tempo stesso essenziali, per testimoniare come Chiesa vicinanza e amicizia alla comunità Rom: è il prossimo che il Signore ci ha posto accanto, chiamandoci alla vicinanza e a prenderci cura”, sottolinea il ventottenne romano Michele, originario della parrocchia di Santa Maria della Fiducia alla borgata Finocchio. Uno stile pastorale che Michele ha appreso anche conoscendo la figura di don Luigi Di Liegro, direttore della Caritas scomparso nel ‘97. “Un faro per la diocesi, soprattutto nella carità: ho fatto mia la sua espressione in cui invita a sporcarsi le mani, perché non si può amare a distanza, senza condividere”, testimonia il seminarista.
Proposte educative e formative
“Particolare importanza assume la formazione dei seminaristi, dei diaconi e dei presbiteri al ruolo di educatori. La vicinanza quotidiana dei sacerdoti alle famiglie li rende per eccellenza i formatori dei formatori e le guide spirituali che, nella comunità, sostengono il cammino della fede di ogni battezzato” (in Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 34).
Durante l’Udienza ai partecipanti alla 59ª assemblea generale della Cei del 28 maggio 2009, Benedetto XVI ha sottolineato il compito urgente e fondamentale dell’educazione per la Chiesa e la società: “C’è bisogno di educatori autorevoli a cui le nuove generazioni possano guardare con fiducia. Un vero educatore mette in gioco in primo luogo la sua persona e sa unire autorità ed esemplarità nel compito di educare coloro che gli sono affidati”. Partendo da questo presupposto, Creativ – associazione che si occupa di formazione a 360 gradi – ha pensato di ideare e strutturare moduli integrativi per la formazione umana e pastorale dei seminaristi. Sottolineando: “L’educare è parte dell’esercizio della carità pastorale, e siamo giunti a un tempo in cui questo servizio non può essere semplicemente delegato, ma va assunto con responsabilità, impegno e passione, unendo competenze teologico-pastorali con competenze psico-pedagogiche”.
Nel 1997, al numero 147, già il Direttorio generale per la catechesi aveva sintetizzato questa linea di fondo nella frase “evangelizzare educando ed educare evangelizzando”. Insomma, non bastano le infarinature filosofiche, teologiche e pastorali. I futuri preti devono essere formati anche a essere educatori e maestri dell’ascolto e dell’accoglienza, con nozioni di psicologia e di pedagogia, capaci di rapporti liberi e gratuiti. “Di fronte alle personalità più fragili dei nostri giovani, e così anche dei nostri seminaristi, è indispensabile un accompagnamento formativo anche sul loro stile e sulle loro competenze relazionali e comunicative. L’ascolto, l’autocontrollo, l’empatia, l’assertività,… sono tutte competenze allenabili, che si possono educare e affinare con la presa di coscienza e l’esercizio. Persone che non sanno so-stare nelle relazioni non riescono a vivere relazioni autentiche, libere, in grado di fare e desiderare gratuitamente il bene dell’altro, minando l’altrui ma anche la propria realizzazione umana e spirituale”, osservano giustamente i responsabili di Creativ.
Nata nel 1994, Creativ ha riunito un gruppo di professionalità nel campo formativo, educativo, psicologico, dell’animazione e dello spettacolo “con l’intento di dare vita a una nuova e originale realtà in grado di rispondere ai più svariati bisogni, domande, problemi e desideri delle persone, aiutandole ad accendere la mente per usare al pieno le potenzialità, le abilità e i talenti di cui ognuno di noi dispone”. Allenando la mente “per fronteggiare la complessità del mondo e il suo movimento di cambiamento continuo in modo creativo e innovativo, riducendo ansie, frustrazioni, resistenze, fissità, routine, aperti a nuove soluzioni e prospettive, pronti a sfidare e a non subire la realtà”. Il gruppo Creativ, attraverso gli attuali 200 e oltre tra dipendenti e collaboratori, ha incontrato decine di migliaia di persone in Italia e in Europa. Unendo teoria e pratica.
Formazione filosofica e teologica… e poi?
“Umana, spirituale, intellettuale e pastorale”: sono le caratteristiche della formazione dei nuovi sacerdoti indicate dall’esortazione apostolica Pastores dabo vobis, firmata il 25 marzo 1992 da Giovanni Paolo II. Si tratta del documento conclusivo del Sinodo dei vescovi tenutosi dal 1° al 28 ottobre 1990, che aveva messo a tema proprio la formazione dei presbiteri nella società contemporanea.
Sul versante intellettuale, i seminaristi compiono lo studio della filosofia e della teologia presso le università e gli atenei pontifici. Un biennio di studi filosofici è propedeutico al triennio di studi teologici, cardine della formazione intellettuale della formazione del seminarista: lo studio della sacra doctrina è un modo per porsi domande sulla propria fede, come spiega la Pastores dabo vobis: se il teologo è innanzitutto “un credente, un uomo di fede», allo stesso tempo «s’interroga sulla propria fede” per raggiungere una comprensione più profonda della fede stessa. “I due aspetti, la fede e la riflessione matura, sono profondamente connessi, intrecciati” (n. 53). Significa, leggendo tra le righe, che il sacerdote non è un oracolo, un uomo “arrivato”, ma una persona costantemente in ricerca della verità e della somiglianza a Cristo.
Durante gli studi teologici, il futuro prete si tuffa nell’approfondimento del testo biblico, della Parola di Dio, ma anche nella teologia fondamentale; importanti la storia della Chiesa e i padri d’Oriente e d’Occidente (che hanno interpretato e attualizzato la Scrittura), il diritto canonico e la teologia morale, la liturgia e i sacramenti. E poi non può essere trascurata la dottrina sociale della Chiesa, insieme allo studio della missione, dell’ecumenismo, delle altre religioni non cristiane compresi ebraismo e islam. A questo proposito si esprime Paolo VI nella Optatam totius, decreto del Concilio vaticano II sulla formazione sacerdotale, datato 28 ottobre 1965: “Tenendo opportuno conto delle condizioni delle varie regioni, gli alunni vengano indirizzati a meglio conoscere le Chiese e comunità ecclesiali separate dalla Sede apostolica romana, affinché possano contribuire al ristabilimento della unità tra tutti i cristiani” (n. 16). La sensibilità al dialogo ecumenico, dunque, figura come parte integrante della formazione di un futuro sacerdote. Ma è realmente così? I futuri preti sono allenati al dialogo ecumenico? Conoscono cristiani di altre religioni? Li incontrano, si confrontano con loro?
Allo stesso tempo, è necessario conoscere i documenti del magistero, cioè dei vescovi e del papa in primis: pronunciamenti di diversa importanza sui problemi contemporanei. Ma la formazione intellettuale non basta: ci vuole un aggiornamento continuo. E anche l’intervento dei vescovi, preposti alla crescita dei sacerdoti operanti nella propria diocesi.
Istruzioni per l’uso
Consigli a un rettore di seminario sulla formazione? Li ho chiesti qualche anno fa, pubblicandoli nel volume Fare il prete non è un mestiere. Una vocazione alla prova (Gli asini), a un parroco romano. Don Fabio è alla guida della parrocchia San Bernardo a Centocelle. E si è reso conto sulla sua pelle che essere parroco “implica, tra le altre cose, la capacità di amministrare il denaro, la competenza per verificare la manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili. Non solo: un futuro prete dovrebbe avere una conoscenza reale e ragionata dei gruppi e dei movimenti ecclesiali, perché siano governati rispettandone il carisma ma anche perché siano accompagnati e corretti con competenza laddove è necessario farlo”. Infine, sarebbe auspicabile sapere “tutto quello che concerne almeno le nozioni di psicologia di base, per fare catechesi ai bambini ma anche per ascoltare ed entrare nelle dinamiche coniugali, oppure per riconoscere vere patologie psichiatriche che affiggono tanti nostri parrocchiani”.
Nel suo percorso di vita, il parroco romano ha avvertito le carenze della formazione teologica ricevuta: “Presso il Pontificio seminario romano maggiore, l’organizzazione della giornata prevedeva fondamentalmente la preghiera e lo studio. Solo una volta alla settimana, e a partire dagli ultimi anni, si andava in una parrocchia per fare esperienza pastorale: troppo poco. È una formazione di base più adatta ai monaci con il voto della stabilitas loci che non ai futuri preti, chiamati a confrontarsi con una realtà complessa e in costante cambiamento della nostra moderna “società liquida” ”.
E poi, ricorda don Fabio, “in seminario mi chiedevo quale fosse la differenza tra un laico impegnato e un prete: allora spesso mi si rispondeva: “Il sacerdote perdona i peccati e celebra i sacramenti”. In realtà era tutto molto diverso e molto di più di quanto si potesse immaginare; di fatto l’ho dovuto imparare sul campo, molte volte da autodidatta, com’è inevitabile che sia. Bisogna però dire che probabilmente si sarebbero potute ricevere un po’ più di indicazioni prima di essere catapultati nel mare aperto, pensavo. Anche se molto va appreso inevitabilmente sul campo, mi sembra che la distanza tra ciò che ci veniva insegnato e la realtà dei fatti fosse davvero troppa”.
Programmi da integrare. Con urgenza
“Mi sto rendendo conto che, a forza di vivere in questa missione, mi viene richiesto dal popolo di Dio affidatomi il ruolo di padre e – di fatto – la grazia di Dio lavora nello stesso senso, trasformandomi nel profondo della mia identità. Non è mai troppo evidente che, come dice papa Benedetto XVI, all’inizio dell’essere cristiano – o di una vocazione, aggiungo io – non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva. Ma essere prete è molto altro ed è stato per me una scoperta progressivamente sempre più sorprendente”, evidenzia don Fabio, ricordando ciò che gli veniva preannunciato durante gli anni della formazione: “Il prete – mi dicevano – è chiamato a essere anzitutto un padre. In effetti è proprio così; non immaginavo che fosse davvero possibile e anche così bello”.
E cos’è la paternità spirituale? Il parroco cerca di spiegarlo: “Un padre possiede la forza spirituale di generare la fede. La fede non è un teorema celeste, ma è quella scintilla che in tutti gli uomini attende di essere accesa e alimentata perché si possa cominciare a vivere davvero. Mi rendo sempre più conto che a una persona non si può fare un bene più grande di accendere in essa la vita divina e coltivarla con autorità e dedizione, per accompagnarla con trepidazione nella sua maturazione”. Un dono, dunque, e allo stesso tempo una grande responsabilità: “Un padre va acquisendo non senza faticare e sbagliare un ventaglio oserei dire iridescente di virtù umane permeate dello spirito evangelico. A questo lavoro maieutico contribuisce soprattutto il popolo di Dio, che è giustamente molto esigente e spesso bisognoso di cure complesse a causa delle gravi difficoltà della vita”.
L’impegno, poi, si allarga ancora: “A un padre si richiede anche il lavoro di creare a tutti i livelli ‘comunione’: nel presbiterio, tra i collaboratori laici e tra tutti gli altri fedeli, vicini e lontani. Un padre deve rimanere fedele anche alla sua chiamata profetica di partecipare all’attività creativa dello Spirito Santo, che non smette mai di formare la sua Chiesa. Essa si trova ogni giorno a rispondere alle sfide sempre più impegnative e inedite della nostra epoca”. Don Fabio ne è convinto: “Noi preti di parrocchia siamo davvero coloro che stanno in prima linea e leggiamo sui libri dei grandi teologi o psicologi o sociologi quello che almeno un anno prima avevamo già fronteggiato, navigando spesso solo a vista. Le accelerazioni e le circostanze moderne sono a volte così frenetiche, specie in una metropoli, che superano di molto la nostra fantasia”.
Come gestire questi cambiamenti veloci, che toccano comunque la vita parrocchiale? “I dinamismi di una fraternità cristiana sono complessi e sempre bisognosi di essere affrontati con concentrazione, per garantire sempre un equilibrio accettabile”, fa notare don Fabio, precisando: “Ogni territorio ha bisogno di una parrocchia come un villaggio ha bisogno della sua fontana, diceva già papa Giovanni XXIII. Formare una comunità ecclesiale – che diventi punto di riferimento di un quartiere dove si possa incontrare gente esperta in umanità – è una grande sfida; partecipare a quest’opera è un grande onore e, secondo me, la cosa più utile e bella che si possa fare nella vita, altrimenti avrei fatto altro. Dopo oltre 25 anni di presbiterato, don Pieroni prova a delineare una verifica della formazione teologica ricevuta, rileggendola alla luce del percorso compiuto: “I programmi di studio hanno enormi margini di miglioramento”.
La sintesi teologica
“Non basta frequentare le lezioni di una Università pontificia e avere voti alti agli esami per diventare un buon pastore. Un dottore in teologia potrebbe essere tranquillamente un cattivo maestro. Mi sembra che ogni teologo dovrebbe essere soprattutto verificato nell’ortodossia della sua sintesi teologica per essere un buon pastore”.
Avere maestri…
“Il Signore mi ha concesso di incontrare tanti fratelli in Cristo da cui ho imparato molto; li considero i miei maestri – riferisce don Pieroni -. La capacità di imparare dagli altri, cogliendo il bello delle loro capacità, non è una cosa scontata, perché spesso si cade nella critica sterile o nella competizione degli invidiosi. Se dovessi fare la lista, potrei indicare una decina di nomi”.
… ma soprattutto entrare in rete
“Attualmente la mia forza l’attingo dal legame pastorale con il popolo di Dio che mi viene affidato, ma anche dalla grazia di essere entrato in ‘rete’ con una serie di sacerdoti amici con cui preghiamo, litighiamo; ci divertiamo e ci confrontiamo insieme”.
La comunione presbiterale
Un altro punto fondamentale, secondo il prete romano, “è essere in comunione con i sacerdoti con cui lavoro in parrocchia. Essere in comunione non significa naturalmente gustare insieme la stessa musica o fare il tifo per stessa squadra, ma condividere il medesimo orizzonte teologico”.
La capacità di collaborazione
“La capacità di lavorare insieme con i laici è un arricchimento fondamentale; sperimentare la corresponsabilità con loro ti fa sentire che si sta combattendo insieme la stessa battaglia”, testimonia don Pieroni.
Crescere in umanità
Imparare a maturare umanamente è un percorso ineludibile, precisa il sacerdote: “Gestire la propria emotività e libertà interiore e crescere in umanità: è il compito che deriva dalla castità. La castità non è impostare rapporti disinfettati e gelidi, ma imparare a comunicare anche emotivamente quello che la carità pastorale comporta, dalla consolazione alla correzione, all’affetto sincero”.