Come rispondere
La carriera scolastica di uno studente non può essere ridotta a un percorso a ostacoli tra lezioni, esami e voti. Eppure questa è la routine quotidiana della vita scolastica di uno studente e il mantra ossessivo dalle elementari alle superiori è: “devi meritarti voti alti e buoni risultati, a scuola come nella vita”.
Io sono stata un “Distinto” alle elementari, alle medie mi sono guadagnato un bel po’ di “Ottimo” ed “Eccellente” e, al liceo, mi attestavo sulla media spaccata dell’8. La mia classe è arrivata alla maturità senza grossi stravolgimenti: nessuna bocciatura, i primi della classe hanno varcato le porte del liceo da primi della classe, gli altri si sono divisi tra chi ha mantenuto la propria buona ma non eccezionale media e chi è riuscito a strappare la sufficienza. In molti ci siamo iscritti all’università; io, per esempio, ho scelto la facoltà di filosofia e continuo da 2 anni quindi a raccogliere voti e crediti e, mentre vedo la mia unviersità inserita nelle classifiche Anvur elaborate dagli esperti di valutazione e l’attuale III H del mio liceo preoccupata per l’introduzione dei test Invalsi all’esame di Stato, non capisco perché ancora nessuno abbia chiamato me e i miei compagni di classe a discutere del tema. Chi è più esperto di noi che di voti ne abbiamo presi a centinaia? Chi è più esperto dei nostri prof che ci hanno propinato compiti in classe e verifiche a sorpresa per anni? Chi è più esperto di mia madre che si è sorbita decine di incontri scuola-famiglia e di frasi fatte della serie “se si impegna può migliorare”?
La cultura della valutazione è stata imposta infatti non soltanto con un vocabolario che riduce l’istruzione a un comparto produttivo, ma essa si è affermata dall’alto anche a suon di decreti legge: i test standardizzati dell’Invalsi coinvolgono infatti oggi la totalità degli studenti che frequentano le classi nodali del nostro sistema d’istruzione (II e V elementare, I e III media, II e, dall’anno prossimo, V superiore) e sono, stando a un DL del Maggio 2012, attività “ordinarie” degli istituti. I test vengono ancora oggi presentati come strumenti d’indagine statistica ma, per la vastità della platea cui si rivolgono e per la loro obbligatorietà, è evidente che essi siano tutt’altro. Questi non si limitano a scattare istantanee sul nostro sistema d’istruzione, né forniscono indicazioni utili ai nostri decisori politici sullo stato di salute del sistema, bensì operano attivamente in seno a esso per cambiarlo. Il sistema dei test rappresenta per la scuola italiana una vera e propria “riforma della didattica” che da un lato asseconda la stortura autoritaria e spersonalizzante, che pure caratterizza il nostro sistema scolastico, dall’altro minaccia di fare tabula rasa di quella pedagogia critica nata negli anni ‘60 dalle rotture con l’impostazione gentiliana, e di cui ci sono tracce importanti nell’impostazione pedagogica della nostra scuola.
Non è casuale che nella più becera retorica meritocratica spesso si prenda a pretesto il ‘68 e l’egualitarismo come punto di non ritorno per il “degrado” della scuola e del sistema di istruzione italiano in generale. Il ‘68 ha fatto breccia nell’autoritarismo che caratterizzava il sistema d’istruzione ma il percorso di reale apertura e democratizzazione dell’istruzione per cui si lottava è a oggi ben lontano dall’essersi realizzato.
Gli esperti nonché i ministri hanno quindi preso il lessico aziendale e lo hanno usato per descrivere e riformare il sistema d’istruzione con l’intento, dicono, di renderlo una macchina perfettamente funzionante. Valutare vuol dire però innanzitutto individuare dei valori, positivi e negativi, con cui analizzare e formulare giudizi sull’oggetto in questione, nel nostro caso l’organizzazione degli istituti, la qualità degli insegnamenti e i livelli d’apprendimento. I valori che ci vengono imposti attualmente non parlano di una scuola inclusiva ma servono a schedare gli studenti dividendoli in “asini e secchioni”, a partire dai 5 anni, sono propagandati come “valori tecnici e oggettivi” e invece sono espressione di punti di vista particolari, quelli cioè delle classi sociali dominanti. Quello che si cerca di fare è parlare di valutazione eludendo una domanda di per sé ineludibile: quale modello di scuola si vuole oggi costruire?
I valori che ci vengono propinati sono quelli della spendibilità e della produttività, sono funzionali a costruire una filiera della conoscenza recettiva agli interessi del mercato. Chi guarda alla scuola come a un comparto produttivo mira a valutarne il “valore aggiunto” rispetto al contesto di partenza ma si scontra col fatto che i suoi “prodotti”, intelligenze e creatività di migliaia di studenti, non sono valutabili semplicemente a fine processo ma soltanto nel lungo periodo, si scontra col fatto che non tutti i fattori che concorrono a creare il “prodotto finito”della conoscenza sono misurabili e che pertanto una valutazione meccanicistica non è possibile. La valutazione in ambito scolastico non può coincidere con la misurazione dei risultati raggiunti dai suoi singoli attori, non può esistere – come pretende l’Invalsi – una sommatoria oggettiva tra i livelli d’apprendimento degli studenti, la qualità degli insegnamenti e quella dell’organizzazione burocratica degli istituti.
Ciò implica la necessità di analizzare e fare esperienza concrete delle situazioni che si vivono nelle scuole, condividendo e non imponendo a studenti,docenti e presidi un modello di valutazione. Crediamo infatti che esistano più modelli di valutazione: esiste una valutazione autoritaria ed una più democratica, esiste una valutazione funzionale solo alle esigenze del mercato ed una valutazione capace invece di aiutare le persone a superare i propri limiti.
Il voto non può essere uno strumento di controllo, premio o punizione. a oggi i voti numerici che gli studenti ricevono sono spesso invece resi tali dalla mancanza di confronto con gli insegnanti e dalla mancata consapevolezza e condivisione degli obiettivi didattici da raggiungere insieme. Il voto così fatto, al pari di una didattica ferma per prassi e contenuti da 20 anni, è spesso oggi nelle classi uno strumento discriminante che allontana e demotiva gli studenti allo studio. E’ evidente che non è soltanto necessario mettere in discussione il sistema Invalsi ma ripensare l’intero impianto valutativo e pedagogico italiano. Il voto numerico per esempio per essere uno strumento utile al recupero e alla crescita, deve realizzarsi su un piano orizzonatale e multicentrico. Esistono infatti più punti di vista che necessitano un incontro. La valutazione insegnate-studente è un processo monco se rimane unidirezionale e non risponde invece anche a meccanismi di autovalutazione, se il docente stesso non si mette in gioco per essere valutato dallo studente, e per apprendere in cooperazione col gruppo classe. C’è bisogno di un’idea di valutazione narrativa e processuale, che non veda i percorsi formativi come percorsi lineari, su cui o si va avanti o si va indietro, o si viene promossi o bocciati, ma come processi circolari di cui la valutazione descrive di volta in volta le lacune e i punti di forza.
Il fatto che nel dibattito pubblico sia passata l’idea per cui sui temi dell’istruzione e della valutazione non ci fosse alternativa alle strade intraprese, nè differenza tra destra e sinistra, è inquietante e in buona parte imputabile alla complicità di chi a sinistra ha sostenuto negli anni la formazione di un Sistema Nazionale di Valutazione invasivo e dannoso come quello che l’Invalsi, l’Iindire e il corpo ispettivo vanno oggi a costituire. Il dibattito continua pertanto a essere finto e autorizza esperti e fautori della cultura della valutazione a pontificare sul tema etichettando invece chi esprime dubbi o è apertamente contrario al sistema come “chi ha paura della valutazione”. Negli anni abbiamo assistito a un imbarazzante silenzio anche da parte delle componenti progressiste del mondo sindacale, quasi chiuse in una torsione corporativista a tutela del “potere” del ruolo di insegnante che non ha prodotto altro che ulteriori storture nel dibattito pubblico sulla valutazione. a oggi però a pagare le conseguenze del modello Invalsi non sono solo gli studenti o il sistema in generale ma anche gli insegnanti, che vedono da un lato svilita la propria professionalità ed il proprio ruolo educativo, dall’altro assistono addirittura a messe in discussione delle tutele contrattuali (pensiamo ad esempio all’idea, paventata da alcuni, di introdurre meccanismi premiali differenziati sulla busta paga in base al merito o al criterio reputazionale).
La necessità che oggi si impone è costruire quindi un dibattito vero attorno al tema della valutazione, scavalcando i recinti che i diversi teorici della meritocrazia hanno costruito attorno a esso. Tutti i cittadini hanno infatti il diritto di scegliere la direzione che prende l’istruzione nel nostro Paese . La mobilitazione che in questi ultimi 3 anni ha visto migliaia di studentesse e studenti in tutta Italia boicottare i test Invalsi e attivarsi contro l’imposizione di un modello standard di didattica e valutazione ha voluto dire proprio questo. Per un verso la contestazione è stata contro la prassi delle riforme calate dall’alto, oramai purtroppo consolidata nel mondo della scuola, per un altro verso l’appello è stato all’intera società: quale valutazione per quale scuola? quale scuola per quale Paese? a oggi queste domande devono interrogare tutti ed esigono che si faccia una scelta di campo: la valutazione è un dispositivo di controllo e disciplina delle condotte che aiuta il capitalismo a riprodursi, scuole e università rappresentano il laboratorio in cui si è sperimentato in questi anni un uso autoritario e coercitivo di questo strumento. È evidentemente impossibile pensare che gli studenti che boicottano i test siano al 100% coscienti dei meccanismi che i test Invalsi mascherano, ma quello a cui abbiamo assistito negli ultimi anni – da quando l’Unione degli studenti ha lanciato la campagna di boicottaggio “Valutati, non schedati” – è la manifestazione di un rifiuto sempre crescente e quasi naturale del test. Oso un paragone che potrebbe apparire azzardato ma credo che nel rifiuto della prova Invalsi si palesi un meccanismo di protesta quasi luddista, l’espressione di un disagio verso uno strumento che si identifica dannoso per se stessi. Molti insegnanti infatti utilizzano illegittimamente le prove per valutare gli studenti sui registri di classe, capita allora che gli studenti boicottino le prove per contrastare l’utilizzo che ne viene fatto nei propri confronti, ma anche per dare voce a un disagio collettivo che in quella giornata provano centinaia di migliaia di studenti. Questo tipo di protesta avviene poi in modo innovativo e sarcastico, quasi con una volontà di mettere in ridicolo l’autorevolezza delle prove e di una valutazione che mira al controllo, con l’esigenza di condividere poi l’esperienza con tutti. Il topic trand di Twitter più diffuso nelle giornate attorno alle date nazionali delle somministrazioni diventa infatti #Invalsi proprio perchè gli studenti condividono foto, commenti e critiche personali alle prove, riversando in rete la propria contrarietà a un modello di valutazione che invece li vuole giudicare e schedare sulla base di anonime x.
Le prove Invalsi rappresentano lo strumento principe ma non unico in questo processo di dequalificazione dell’istruzione. La valutazione permette di ripensare scuole e università in funzione alle esigenze di mercato piuttosto che a quelle sociali o personali di ognuno, essa concede cioè la messa a produzione delle intelligenze: nel farlo ha l’esigenza di selezionare ciò che le interessa e di neutralizzare tutto ciò che è altro, qualificato come elemento di disturbo (creatività personale, pensiero critico, saperi non monetizzabili, etc …). “Rethinking education” è non a caso il titolo della strategia europea di reindirizzo delle politiche in materia d’istruzione, questa tesi punta tutto sul ruolo delle skills, competenze o risultati d’apprendimento gerarchicamente classificati a livello europeo (ad esempio oggetto di valutazione delle indagini Ocse-Invalsi sono le abilità di base in lettura e scrittura). L’acquisizione di abilità spendibili in maniera flessibile sul mercato del lavoro, piuttosto che il conseguimento di un titolo di studio o di un certo bagaglio di conoscenze, deve diventare in quest’ottica la bussola d’orientamento per la riforma dei sistemi d’istruzione, colpevoli dell’attuale disoccupazione giovanile per non essere riusciti a offrire competenze adeguate alle domande del mercato del lavoro e delle imprese.