Come e perché correre secondo Mauro Covacich

La passione per la corsa è stato (almeno così credo) il pretesto di Mauro Covacich per scrivere Sulla corsa – libro che già dal titolo lascia intendere non si tratti di un romanzo, bensì di una serie di riflessioni sull’atto del correre.
Il libro, oltre che sulla passione di Covacich, verte su una domanda che la sorella gli pone: al termine di una gara estenuante Covacich definisce “amatori” sé e gli altri partecipanti intenti a mangiare in un rifugio a fondovalle e lei, che evidentemente non è affetta da questa “prodigiosa malattia della mente”, gli chiede “ma amatori di cosa?”
La risposta non può essere univoca, ognuno ha la sua motivazione che lo spinge, in certi casi direi obbliga, a correre; certo è che le riflessioni scritte nel libro spaziano, seppur all’interno di una gamma di caratteristiche precipue del corridore, intorno a questa domanda ricercandone le varie sfumature. Tra le sensazioni che concorrono a far continuare gli amatori in un’attività che ha, sotto alcuni aspetti, del masochistico, ce n’è una che credo abbia enorme importanza. Covacich la definisce “di sradicamento e libertà”.
Si potrebbe discutere per ore di sradicamento e libertà, e in parte lo si fa, da un anno a questa parte, a causa della pandemia. Ma appunto, se ne parla in relazione al virus e alle nuove condizioni di vita a cui ci stiamo abituando (o ci siamo già abituati?) – sradicati dal nostro modo di vivere, dai nostri affetti e con libertà (di movimento, personali ecc.) più ristrette – come se tali questioni non fossero già esistenti. Passando ai mesi della chiusura/confinamento dello scorso marzo, tra i vari argomenti c’era quello sui modelli di vita da ripensare, modelli più sostenibili, sia a livello ambientale che a livello umano, di un’opportunità, quella della pandemia, per cambiare in meglio il nostro stare nel e al mondo. Ma tutti questi discorsi sono morti con il passare dei mesi; l’agenda politica, o sarebbe il caso di dire economica, ha relegato quelle riflessioni a temporaneo passatempo dei media, i quali tra le varie onde cavalcate non si sono fatti mancare quella del “ne usciremo migliori”, e ci ha riportati alla realtà: ciò che conta è pur sempre il denaro: sì a una nuova economia (ma sempre improntata sul consumo smodato sia chiaro) e sì a un nuovo modo di vivere, ma non come lo intendiamo noi.
Se c’è qualcosa che dovremmo aver capito più o meno tutti nel corso di questo anno è che il modo in cui vivevamo prima della pandemia non era sano (si parla spesso di salute fisica omettendo che essa non può essere scissa dalla salute mentale nel valutare lo stato globale di una persona), anche nei paesi cosiddetti sviluppati. È sempre attuale secondo me l’aforisma di Kafka: “Credere nel progresso non significa credere che un progresso sia già avvenuto”.
Non penso sia un caso se Covacich inizialmente, prima di virare verso l’autobiografismo puro, ritorni più volte sul tema della libertà nella corsa (la sensazione provata la definisce anche “un’espressione di dissenso, una temporanea evasione dall’uniforme civile”).
Ma tale evasione è stata ed è tuttora espressa in varie forme nell’ultimo anno. Nonostante si sia tutti, chi più chi meno, addormentati da televisione e altri schermi, quando ci si è trovati di fronte all’impossibilità di andare al lavoro e alle limitazioni nell’uscire di casa, di motivazioni per mettere il naso fuori dalla porta ne abbiamo trovate parecchie. La pista ciclabile su cui corro non è mai stata così affollata come nei mesi passati e come è tuttora: nel fine settimana diventa letteralmente impossibile correrci tante sono le persone. Ci si corre, ci si va in bicicletta, ci si passeggia con il cane e con altre persone; e anche al parco con gli attrezzi ginnici, a differenza degli anni passati, i bambini giocano tra loro e con i genitori, i ragazzi si allenano. E sembrano veramente contenti, hanno espressioni diverse rispetto a quelle che vedevo e vedo sugli stessi visi in altre circostanze. Emanano quella sensazione di “sradicamento e libertà” di cui parla Covacich riferendosi alla corsa, e sradicamento va qui inteso come distacco dalla nostra quotidianità.
È il tempo che torna a essere nostro, invece di essere adoperato per azioni e in occupazioni spesso alienanti, nel senso della non realizzazione di sé attraverso il lavoro – anche se ormai il senso di alienazione si estende ben oltre la sfera lavorativa, siamo circondati da strumenti fatti per astrarci da noi stessi. Grazie ad azioni diverse, ma alla cui base c’è sempre la non-accettazione dello status quo in cui siamo immersi, il tempo torna a essere vivo. È un tipo di non-accettazione che ha la sua forza nella non adesione ai modelli imposti. L’augurio è che quando (e se) si tornerà a una quotidianità pre pandemia, questa non-accettazione possa continuare, altrimenti questi mesi saranno passati invano.