Ci serve un nuovo vocabolario politico
Ripubblichiamo un articolo uscito nel numero 16/17 giugno-settembre 2013 de Gli asini.
La prima grande vittoria politica del collettivismo burocratico è giunta nel 1928, quando Stalin mandava infine Trotsky in esilio e preparava, l’anno successivo, il primo Piano quinquennale. Tra la Rivoluzione francese (1789) e il 1928, le tendenze politiche possono in modo corretto e accurato dividersi in «destra» e «sinistra». Ma i termini della lotta per la liberazione umana sono mutati nel 1928 – il mutamento era in corso da tempo, naturalmente, ma il 1928 può essere opportunamente considerato uno spartiacque. È stata l’incapacità di Trotsky di comprendere questo fatto che ha dato un carattere sempre più irreale alla sua gestione della «questione russa», proprio come la costante cecità dei liberali1 e dei socialisti nei confronti di questo cambiamento rende oggi accademico, o peggio, il loro comportamento politico.
Cerchiamo di definire «sinistra» e «destra» tra il 1789 e il 1928.
La sinistra comprendeva quanti favorivano un cambiamento nelle istituzioni sociali in modo da rendere la distribuzione della ricchezza più equa (o assolutamente equa) e da ridurre i privilegi di classe (o di azzerare del tutto le classi). Il concetto intellettuale centrale era la validità del metodo scientifico; il concetto morale centrale era la dignità dell’Uomo e il diritto individuale alla libertà e al pieno sviluppo personale. La società era quindi concepita come un mezzo per un fine: la felicità individuale. C’erano importanti differenze di metodo (come riforme/rivoluzione, liberalismo/lotta di classe) ma sui principi appena descritti la sinistra nel complesso era concorde.
La destra era composta da quanti erano o soddisfatti dello status quo (i conservatori) o volevano un assetto ancora più diseguale (reazionarì). Nel nome dell’Autorità, la destra resisteva al cambiamento, e nel nome della Tradizione, si opponeva anche, abbastanza logicamente, a quello che era diventato il motore del cambiamento: quel desiderio, comune a Bentham e a Marx, a Jefferson e a Kropotkin, di seguire l’indagine scientifica ovunque conducesse e di ridefinire le istituzioni di conseguenza. Quelli della destra pensavano in termini di società «organica», in cui la società è il fine e il cittadino è il mezzo. Giustificavano le diseguaglianze di reddito e il privilegio affermando intrinseche diseguaglianze individuali, sia di abilità sia di valore umano.
La grande linea di divisione è diventata sempre più nebulosa col sorgere del nazismo e dello stalinismo, i quali combinavano entrambi in modo sconcertante elementi di destra e di sinistra. In altre parole, sia la vecchia destra sia la vecchia sinistra hanno quasi smesso di esistere come realtà storiche, e i loro elementi si sono ricombinati nella dominante tendenza moderna; una società non egalitaria e organica in cui il cittadino è un mezzo, non un fine, e i cui governanti sono contro le tradizioni e dotati di una mentalità scientifica. Il cambiamento è accettato di principio – in effetti, gli spiacevoli aspetti della realtà presente sono giustificati proprio come il prezzo che deve essere pagato per assicurare un futuro desiderabile, che questo sia l’hitleriana dominazione dei nordici sulle razze inferiori, o la staliniana emancipazione della classe lavoratrice mondiale, o il nostro liberale mondo pacifico del futuro da conquistare con la guerra. La stessa idea di processo storico, che un secolo fa era patrimonio della sinistra, è diventato l’argomento più persuasivo degli apologeti dello status quo.
In questo ibrido di destra e sinistra, la nozione di Progresso è centrale. Una più accurata terminologia può quindi riservare il termine «destra» per vecchi conservatori come Herbert Hoover e Winston Churchill, e lasciar cadere del tutto il termine «sinistra», sostituendolo con due parole: «progressista» e «radicale».
Con progressista si intendono quanti considerano il presente come un episodio sulla via di un Futuro migliore; quanti pensano più in termini di processo storico che di valori morali; quanti credono che il guaio più grande per il mondo sia in parte la mancanza di conoscenza scientifica e in parte la mancata applicazione di tale conoscenza agli affari umani; quanti, soprattutto, considerano la crescita del dominio dell’uomo sulla natura come un bene in sé e giudicano il suo utilizzo per scopi esecrabili, come la bomba atomica, una perversione. Questa definizione, credo, copre abbastanza bene la gran parte di ciò che si chiama ancora sinistra, dai comunisti («stalinisti») passando per i gruppi riformisti come i nostri New Dealers, i laburisti britannici, e i socialisti europei, fino ai piccoli gruppi come i trotzkisti2.
«Radicale» si applica agli ormai pochi individui – soprattutto anarchici, obiettori di coscienza, e marxisti rinnegati come me – che rifiutano il concetto di Progresso, che giudicano i fatti a partire dal loro significato e risultato effettivo, che credono che la capacità della scienza di guidarci negli affari umani sia stata sovrastimata e che perciò ristabiliscono l’equilibrio enfatizzando gli aspetti etici della politica. Essi, o piuttosto noi, considerano una questione aperta se la crescita del dominio dell’uomo sulla natura nei suoi attuali effetti sulla vita umana sia un bene o un male, e preferiscono una tecnologia a misura d’uomo piuttosto che un uomo a misura di tecnologia, anche se questo significasse – come potrebbe accadere – un regresso tecnologico. Non «rifiutiamo» il metodo scientifico, come ci viene spesso rimproverato, ma pensiamo che la gamma di scopi per cui esso può dare risultati utili sia più stretta di quanto generalmente si ritenga. E sentiamo che il terreno più solido da cui combattere per quella liberazione umana che era l’obiettivo della vecchia sinistra non è il terreno della Storia ma quello non storico dei Valori Assoluti (verità, giustizia, amore ecc.) che Marx ha reso impopolari tra i socialisti.
Il progressista pone la Storia al centro della sua ideologia. Il radicale pone l’Uomo. L’atteggiamento progressista è ottimista sia riguardo la natura umana (che egli pensa essere fondamentalmente buona, per cui basta cambiare le istituzioni per dare a quella bontà una possibilità di operare) sia riguardo la possibilità di capire la storia attraverso il metodo scientifico. Il radicale, se non proprio pessimista, è almeno più sensibile alla natura duale dell’uomo; vede tanto il male quanto il bene alla base della natura umana; è scettico riguardo alla capacità della scienza di spiegare le cose oltre un certo limite; è consapevole della presenza di un elemento tragico nel destino umano non solo oggi ma in ogni possibile tipo di società. Il progressista pensa in termini collettivi (l’interesse della Società o della Classe lavoratrice); il radicale sottolinea la coscienza e la sensibilità individuali. Il progressista parte da ciò che effettivamente sta accadendo; il radicale parte da ciò che egli vuole che succeda. Il primo deve avere il senso che la Storia è «dalla sua parte». Il secondo si muove lungo vie indicate dalla sua stessa coscienza individuale; se anche la Storia si muove nella sua direzione, ne è contento; ma segue con una certa testardaggine «ciò che dovrebbe essere» e non «ciò che è».
Poiché la sua enfasi tragica, etica e non scientifica corrisponde parzialmente all’atteggiamento della vecchia destra, e muove critiche alla dottrina progressista che spesso assomigliano a quelle avanzate dalla destra, il punto di vista radicale crea oggi una certa confusione. È a volte chiamato «obbiettivamente reazionario». Non sarebbe difficile rispondere, tuttavia, che ì progressisti hanno dei cattivi seguaci, gli stalinisti. Il fatto è che gli atteggiamenti di entrambi progressisti e radicali, come sono qui definiti, siano trasversali rispetto alla vecchia linea di divisione destra/sinistra, e in questo senso creano entrambi confusione e sono perfino «obbiettivamente reazionari» se si continua a pensare con le vecchie categorie.
Un’altra frequente accusa dei progressisti, specialmente di quelli di fede marxista, è che il punto di vista radicale frequentemente espresso da “politics” è necessariamente religioso. Se con «religioso» si intende semplicemente non materialistico e non scientifico, allora è vero. Ma se ci si riferisce a Dio o a qualche altro tipo di ordine metafisico della realtà, allora non penso che lo sia. II punto di vista radicale è certamente compatibile con la religione, mentre non lo è il progressivismo; e radicali come D.S. Savage e Will Herberg hanno mentalità religiose; ma io personalmente non vedo una relazione necessaria, né sono consapevole di un mio particolare interesse religioso.
Potrei aggiungere che l’approccio radicale, almeno come io lo intendo, non nega l’importanza e la validità della scienza nella sfera che le compete, o degli studi storici, sociologici ed economici. Né afferma che l’unica realtà sia l’individuo e la sua coscienza. Piuttosto definisce una sfera che è fuori dalla portata della ricerca scientifica, e i cui giudizi di valore non possono essere provati (anche se possono essere dimostrati in termini .appropriati del tutto non scientifici); questa è la tradizionale sfera dell’arte e della morale. Per il radicale ogni movimento come il socialismo che aspira a un tipo di società eticamente superiore è radicato in quella sfera, anche se può essere modellato dal processo storico. Si tratta della sfera dell’interesse umano, personale e, in questo senso, la radice è l’uomo.
I marxisti migliori oggi non vedono ragioni per sezionare la vecchia sinistra come si propone qui. Mantengono ancora la classica fede di sinistra nella liberazione dell’uomo attraverso il progresso scientifico, pur ammettendo che siano necessarie delle revisioni della dottrina e delle rifiniture dì metodo. Questa era la mia opinione fino a quando ho iniziato a dirigere “politics”; in The Future of Democratic Values (“Partisan Review”, luglio-agosto, 1943), sostenevo che il marxismo, come erede del liberalismo del XVIII secolo, era l’unica guida affidabile verso un futuro democratico; l’esperienza della direzione della rivista, però, e di conseguenza l’essere costretto a seguire nei dettagli gli eventi tragici degli ultimi due anni, mi hanno fatto lentamente cambiare idea. Ora penso che le difficoltà siano molto più profonde di quanto assumano i progressisti, e che la crisi sia molto più seria. La brutalità e l’irrazionalità delle istituzioni sociali occidentali hanno raggiunto un picco che sarebbe sembrato incredibile soltanto una generazione fa; le nostre vite sono dominate da una guerra di una ferocia e su una scala senza precedenti nella storia; i governanti di nazioni civilizzate hanno commesso orrori che difficilmente avrebbero potuto essere migliorati da Attila: lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti; i vasti campi di lavoro forzato nell’Unione Sovietica; il nostro ricoprire di bombe le città tedesche e «l’atomizzazione» degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Il presente articolo è scritto su questo sfondo; è tutto questo che ha messo in discussione le idee in cui ho a lungo creduto.
(da La radice è l’uomo in H. Arendt, A Caffi, P. Goodman, D. Macdonald, politics e il nuovo socialismo, a cura di Alberto Castelli, Marietti 2012, pp.127-132)
1 Si traduce qui con liberale la parola Liberal, che negli Stati Uniti Ìndica, come è noto, un orientamento politico di sinistra non antisistema.
2Non si intende suggerire che non vi siano importanti differenze tra queste tendenze. Gli stalinisti, in particolare, dovrebbero essere separati dagli altri, li loro progressivismo è un abbandono completo al processo storico, qualsiasi cosa accada, finché è nell’interesse della più «alta» forma di società russa. Gli altri gruppi, benché pongano maggiore enfasi sui processo storico di quanto sia compatibile con i valori che essi professano, restano vicini a certi principi generali e riconoscono certi limiti etici. [N.d.A.]