Chi sono gli illegali?
Incontro con Giacomo D’alessandro
Chi è illegale? Negli ultimi anni si è tentato di rendere illegale la solidarietà declinata nelle varie forme: è diventato illegale chi fa soccorso in mare, chi aiuta le persone che approdano a Lampedusa o in transito a Ventimiglia, chi dà assistenza ai migranti sulla rotta balcanica, e così via. Nella mia attività di legale ho visto capi d’imputazione in cui il reato era distribuire cibo, coperte o “precisi consigli” per chiedere protezione internazionale in Italia. L’articolo 2 della nostra Costituzione garantisce diritti e doveri inderogabili, tra questi la solidarietà che, lungi dall’essere un reato è, appunto, un dovere inderogabile. Partendo da questo cardine, ho sostenuto insieme ad altri colleghi e attivisti per i diritti umani “battaglie” legali in favore di chi opera sulle frontiere, come i cosiddetti “no borders” di Ventimiglia. Si tratta di uomini e donne, professionisti, ricercatori o “semplici” cittadini, che mettono a disposizione tempo ed energie per provare a esercitare il dovere della solidarietà. A molti di loro erano stati notificati dalle forze dell’ordine dei fogli di via basati su norme obsolete, che avevano come effetto concreto quello di limitare l’accesso non solo alla città di Ventimiglia (e quindi alla frontiera) ma anche a una serie di comuni limitrofi. Abbiamo impugnato questi provvedimenti sulla base anche e soprattutto dell’articolo 2 della Costituzione e sono stati dichiarati illegittimi. Sulla stessa base si stanno difendendo altri solidali che operano sui confini e anche le ONG che vengono accusate di salvare vite in mare.
Dal mio punto di vista è illegale chi omette o peggio vieta il soccorso in terra o in mare, chi discrimina, chi calpesta diritti inviolabili. Insieme ad altri avvocati che si mettono a disposizione gratuitamente per monitorare eventuali violazioni dei diritti umani, prepariamo esposti, richieste di accesso ad atti e segnaliamo ogni volta che possiamo abusi, omissioni, discriminazioni posti in essere ai danni dei più vulnerabili e di chi prova ad aiutarli. Non solo prepariamo esposti ma ci “esponiamo”, spesso anche fisicamente, frapponendo i corpi in frontiera, quando capitano situazioni di tensione o di bisogno. Questo tipo di attività ha un prezzo: quello di essere spesso considerati noi gli illegali. Ma quando si assiste a violazioni di diritti umani, e se ne ha la possibilità, esporsi è necessario.
Sono cresciuta in una famiglia in cui non si sopportavano le ingiustizie, ed era cosa normale che persone in difficoltà trovassero accoglienza: i miei mi hanno insegnato che le fortune vanno condivise. A questo si aggiunge una componente di personalità che mi impedisce di tacere e mi costringe a intervenire quando lo sento urgente. E poi ci sono incontri che cambiano le esistenze. Ero appena diventata avvocato quando mi si presentò un cittadino ecuadoriano che aveva ricevuto l’espulsione; c’erano 24 ore di tempo per impugnarla, e lavorando tutta la notte ce la facemmo. Riuscimmo a farla annullare. Scoprii solo dopo che questo signore era considerato il fondatore della comunità ecuadoriana a Genova, e quindi in breve tempo mi riempì lo studio di clienti stranieri. Mi appassionai inesorabilmente al diritto dell’immigrazione. Poi c’è stata l’esperienza del Genoa Legal Forum al G8 del 2001. Ero coinvolta insieme a molti colleghi che avrebbero dovuto aiutare a monitorare le manifestazioni e a evitare abusi e violenze, e che presero botte come tutti gli altri. Quel momento ci ha cambiato l’esistenza, fu un punto di non ritorno. Io ho fatto le scuole elementari alla Diaz: avere visto le mie aule imbrattate di sangue è stato doppiamente traumatico. Questa esperienza terribile ha avuto per alcuni di noi l’effetto di rafforzare i nostri ideali ma anche di percepirne la vulnerabilità.
In questi anni, difendendo migranti e vittime di ingiustizie mi sono spesso ripetuta le “Regole del Viaggio” riportate da Alessandro Leogrande ne La Frontiera, rinvenute a Roma nel bagaglio di due giovani profughi etiopi. Credo siano valide anche per chi fa “attivismo”: “Avere una forte motivazione / Avere molta pazienza / Sapersi mettere nelle mani di qualcuno senza mai fidarsi ciecamente / Avere fortuna / Avere coraggio / Non avere paura di chiedere / Essere consapevole dei propri diritti anche quando vengono brutalmente negati / Mantenere la propria dignità a tutti i costi / Non guardarsi mai indietro”. Queste regole per me sono un sostegno perché ci si sente molto soli a prendere in carico certe situazioni. Spesso i difensori dei diritti umani vengono infangati e delegittimati. A me è capitato recentemente di vedere pubblicate intercettazioni telefoniche di mie conversazioni con miei clienti. In passato, quando eravamo riusciti a bloccare con i ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo dei respingimenti di massa verso la Libia, io e altri colleghi subimmo ritorsioni da parte delle autorità che avevano predisposto quei respingimenti.
È tutta pesantezza, complica i rapporti e la gestione di casi delicati. Genera scoraggiamento e a volte afflizione. Il rischio è di restare isolati: quando la propria vita professionale diventa una passione il resto rischi di perderlo, perché il tempo e le energie si esauriscono tutte lì. Negli anni ti accorgi che si spezzano rami secchi, ma nascono anche legami nuovi.
“Che fare?” mi chiedono tante e tanti di continuo nei vari incontri in cui si parla di violazioni dei diritti umani. Tutto serve: informarsi, diffondere notizie, non tacere davanti alle ingiustizie, firmare appelli, fare post di segnalazione e denuncia sui social. Ma senza limitarsi al “virtuale”: chi sfoga la propria indignazione sui social, magari con un semplice like, in coscienza pensa di aver fatto la sua parte, ma occorre altro: bisogna esserci fisicamente, oltre che virtualmente, mobilitarsi ogni volta che si può, metterci anima e corpo.
Il ruolo dei media resta fondamentale e in alcuni casi la diffusone di certe immagini è stata, almeno nel breve termine, determinante. Penso ad alcune fotografie che hanno avuto un potere pazzesco: quella del piccolo Aylan con la maglietta rossa e le braghette blu, riverso a pancia in giù sulla spiaggia di una delle nostre coste, ha avuto un effetto politico devastante. Dopo quella foto la Merkel ha deciso di aprire la Germania ai profughi siriani. E ha detto una frase che ripeto da avvocata e attivista: “i diritti umani non vanno per quote”, sono indivisibili, valgono per tutti o per nessuno. Le costituzioni e le convenzioni ce lo confermano, smentendo tutte le politiche dei vari governi che vanno in direzione contraria. L’immagine del corpo di quel bambino ha scatenato atti politici. È stata così impattante perché era bella: le persone si sono soffermate a guardarla, si sono accostate a quel bambino bianco che sembrava quasi steso sulla spiaggia a dormire: sembrava un bambino “dei nostri”. Siamo rimasti lì a guardare, senza difese, il tempo giusto per entrare in empatia, prima di capire che era un bambino morto. Che non avremmo mai voluto vedere. L’orrore è arrivato dopo, di colpo. E dopo quella foto io stessa ho ricevuto decine di mail di persone che chiedevano cosa poter fare per quei bambini, per evitare che morissero in mare. Quella foto sembrava aver funzionato più di anni di conferenze e di sensibilizzazione, ma i bambini e gli adulti purtroppo continuano a morire in mare e sulle frontiere.
Anche le parole sono importanti: se oggi si usa di meno la parola “clandestino” è grazie a lunghe battaglie. Non esistono clandestini, ma persone che cercano di esercitare uno dei diritti più sacri, quello all’asilo, e non hanno vie alternative per farlo. La parola “clandestino” ha evocato per anni qualcosa di illegale, di sporco, da respingere. Non bisognerebbe neanche usare la parola “sbarco”, sono gli eserciti che sbarcano. Le persone, come mi hanno insegnato i miei amici a Lampedusa, non sbarcano, ma approdano. Usare nel linguaggio quotidiano le parole “invasione, clandestini, sbarco”, crea inevitabilmente discriminazione e talvolta odio.
Uno dei nostri limiti – parlo del mondo dell’attivismo ma anche dei media – è che siamo spesso “noi” a raccontare la “loro” storia, raramente si dà parola a chi il razzismo e le disuguaglianze le subisce sulla propria pelle. Un caso eccezionale è rappresentato da Aboubakar, il sindacalista dei braccianti. Lui ha diritto di parlare, di denunciare e di proporre. Sa cosa vuol dire, sta in quelle terre. A me capita a volte di perorare la causa delle vittime di tratta, o dell’infibulazione, ma dovrebbe parlarne una donna che ha cercato di sottrarsi o subisce le conseguenze di queste violazioni. I media dovrebbero dare spazio alla “loro” voce. E ogni talk show sull’immigrazione dovrebbe aprire con una premessa: perché i profughi vengono via mare? Perché prendono la barca? Non parlo solo delle cause delle migrazioni ma delle cause di quel tipo di viaggio pericolosissimo. Non viene mai spiegato che le persone fanno quella maledetta rotta perché non c’è una via legale d’accesso in Europa per chiedere asilo. I trafficanti costano in termini di denaro e di sofferenza molto di più di un volo aereo. Chi si mette in viaggio sa che con molte probabilità verrà stuprato, picchiato, torturato, vedrà morire figli e amici in mare, rischierà lui stesso di annegare, ma sale sulla barca lo stesso, perché è l’unico mezzo per provare a esercitare il diritto a chiedere asilo in Italia.
Potrebbe andare diversamente se l’Europa decidesse che le persone, quando scappano, possono rifugiarsi nella prima ambasciata del paese di accoglienza, e lì fare richiesta di un visto per motivi umanitari o richiesta di asilo. Le persone si “distribuirebbero” da sole nei posti dove vorrebbero vivere, di cui già conoscono la lingua, dove hanno amici e parenti, dove i loro titoli di studio verrebbero riconosciuti, così graverebbero meno su tutto il sistema del paese di accoglienza.
Se esistesse un simile sistema di ingresso regolare per chi fugge da violenze, persecuzioni, guerre, disastri ambientali, povertà estrema, discriminazioni, potremmo sapere prima chi entrerà nella “fortezza Europa”, con vantaggi per lo screening sanitario e la sicurezza sociale, oltre che per la vita dei profughi. Le vie d’accesso legali per i migranti consentirebbero una redistribuzione naturale nei vari paesi che hanno ratificato la Convenzione di Ginevra ed eviterebbero le inaccettabili violenze del viaggio e i morti in mare. Ma questa ipotesi di ingressi legali i governi non la vogliono neppure prendere in considerazione.E quindi non la si spiega neanche, perché sarebbe imbarazzante dire come mai la si esclude.Allora ognuno con la propria professione, sensibilità, visibilità, dovrebbe far conoscere e pretendere l’applicazione del diritto dell’Unione Europea e del codice dei visti Shengen; è la strada giusta, ci sono brecce percorribili per dimostrare e far valere il diritto del richiedente asilo a fare richiesta sul territorio in cui si trova (in ambasciata o in un consolato) di un visto legale, senza essere costretto a vie illegali e disumane di fuga.
Bisogna insistere, crederci e non farsi distrarre.
Ricordarsi che lotte non si fanno mai da soli.
E “avere coraggio”.
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