Che fare? Gli operatori sociali dentro la crisi
![Illustrazione di Alicia Baladan](https://gliasinirivista.org/wp-content/uploads/Masso-su-casa.jpg)
di Giovanni Zoppoli
Questo articolo è uscito sul numero 16-17 de “Gli asini”, giugno/settembre 2013. Abbonati ora per avere la versione cartacea o acquista l’ultimo numero.
Siamo ormai al secondo anno di crisi conclamata, anche del “sociale”. Due anni sono bastati a ridurre in macerie molte delle organizzazioni che si occupavano di povertà, emarginazione e più in generale di disagio e dei relativi servizi del pubblico e del privato. Ma due anni sono abbastanza anche per la serie di dissertazioni pratico-teorico attorno al tema, avvalorando la sensazione, anche dopo le due giornate di studio “Operatori nella crisi, che fare?”, che sulla crisi e sul sociale si sia ormai detto abbastanza.
Sarebbe insomma arrivato il tempo del “fare”, ma più forte sembra la tentazione di rimanere nel guado. Ciò malgrado tenterò di sporgere un po’ la testa dalla fanghiglia in cui mi trovo in pieno anch’io, e il Mammut di cui faccio parte, per abbozzare qualche ipotesi sulla stasi.
Dovrebbero ormai essere chiare a tutti le tappe percorse fin qui: la costruzione di uno stato sociale pubblico e gratuito; la delega ai privati di molte delle funzioni vecchie e la creazione da parte del mercato di nuovi bisogni e servizi; il terzo settore come bacino del consenso e area privilegiata del voto di scambio; la neutralizzazione della funzione politica e inchiestatrice delle realtà di base (religiose e politiche) nella progressiva medicalizzazione (a basso costo) della società.
Se guardiamo a queste tappe con approccio economicista di stampo vetero marxista non ci sarà difficile vedere come “il sociale” sia stato complice della produzione in serie di tipo industriale. Soprattutto se per “sociale” intendiamo le organizzazione chiamate a lavorare sul “latte versato”, ovvero sul disagio conclamato come “ragazzi a rischio”, “periferie”, “dispersione”, “minori non accompagnati” … Mettendo pezze a colori ai guasti del sistema e contribuendo di fatto a creare cittadini piatti. E questo non solo per quanto riguarda i cosiddetti destinatari dell’intervento, ma anche per gli educatori.
Concetto meglio comprensibile se includiamo un altro approccio, quello psicologico di autori quali Carl Rogers, Alexander Lowen, Eric Berne. La costruzione di un falso sé messo in luce nel lavoro di Rogers riceve nello studio sul narcisismo di Lowen una fondamentale attualizzazione, per calarsi ancor di più nella psicologia dell’intervento sociale grazie al contributo di Berne e di altri transazionalisti. Oltre a Rogers molti sono gli autori (come Alice Miller in Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé) che hanno studiato i meccanismi con cui il bambino prima e l’adulto poi finiscono per mettere da parte impulsi e sentimenti autentici, il proprio vero sé, per aderire al modello ideale richiesto dalle figure genitoriali di riferimento. Ne Il narcisismo di Lowen, la disperata ricercata del consenso adulto diventa l’adesione totale a un immagine a cui bisogna somigliare, arrivando ad una scissione più o meno completa dai propri sentimenti, emozioni, sensazioni. Unico obiettivo del narcisista diventa appunto coincidere con questa immagine per assicurarsi il consenso di un altro, ogni “altro” diventa uno strumento da manipolare per raggiungere l’obiettivo (perché strumento è diventato prima di tutto il proprio sé). L’altro semplicemente non esiste, ognuno è una pedina, tassello di un piano immaginario. In Berne e nel triangolo drammatico di Stephen Karpmann, questo assetto si incastra con uno dei giochi psicologici più frequenti nel campo del sociale, quello del triangolo vittima/salvatore/persecutore. Avendo perso il contatto con il proprio vero sé, ciascuno degli attori in campo non è in contatto con i bisogni autentici propri o dell’altro, e l’unica cosa che cerca realmente è preservare il proprio (misero) equilibrio. Cosa che risulta possibile continuando a recitare il copione di vita appreso da bambino: fare la vittima, il persecutore o il salvatore. Questo in psicologia non è un male né un bene, è semplicemente il modo con cui ciascuno è riuscito a sopravvivere e quindi potrebbe anche andar bene così. Nel sociale, invece, è sicuramente un male: se non si esce da questo triangolo, ovvero se non si riesce ad entrare in contatto con l’autenticità propria e altrui, non si potrà rompere la situazione di svantaggio e vessazione (in cui versa la presunta vittima) né di superiorità e perfidia (di salvatore e persecutore). E l’ingiustizia, anziché cessare, trova nuove gambe per perpetuarsi.
Tornando al nostro approccio economicista dunque, l’annullamento di autenticità e capacità critica autonoma ha visto in molti dei meccanismi psicologici prevalenti in ambito del sociale un impareggiabile alleato. Il lavoro nel sociale ha permesso tanto al salvatore (l’educatore) quanto alla vittima di trovare una condizione economica ideale per perpetuare il proprio copione di vita: una condizione in cui è possibile (e necessario) mettere da parte la propria autenticità per assomigliare ad un’immagine. In molti casi l’immagine a cui somigliare ha anche un corrispondente storico, per l’educatore ci sono ad esempio le icone del passato remoto (S.Francesco o il Budda) e del passato più recente (Dewey, Dolci, Don Milani) o del presente (Madre Teresa, Zanotelli, Don Gallo), mentre per l’educando c’è il repertorio di redenti storici, dal figliol prodigo in poi. Se da parti opposte la scelta del modello è per Berlusconi o Borghezio, il risultato non cambia di molto: la perdita del contatto col proprio sé e l’obbedienza al mondo delle immagini conduce ad approdi vicinissimi. A complicare e aggravare il presente c’è la cultura del web, l’incidenza dei social network e le nuove possibilità di strutturare identità virtuali socialmente affermate.
L’omologazione ha avuto insomma il suo esercito di operatori sociali, partorendo un’umanità di teste e cuori vuoti (o meglio scollegati), coincidenti per lo più con immagini (buone o cattive poco conta). Ciò che importa è che queste immagini siano molto più facilmente manipolabili e asservibili alle necessità di mercato di individui in contatto con la propria integrità. Debord e la società dello spettacolo rimangono così quanto mai attuali. Il sociale ha naturalmente avuto una piccola parte in tutto questo, non essendo certo sua responsabilità se oggi ci troviamo dove siamo. Ma ha avuto la sua parte e, soprattutto, non sembra minimamente intenzionato a ravvedersi. Anzi, il più delle volte tenta di mettere in campo situazioni palliative che più che un’inversione di rotta sembrano fornire nuovi alibi a queste tendenze.
Per esempio una delle soluzioni più sbandierate alla crisi è la creazione di impresa con gli “svantaggiati”. Già quattro anni fa l’assessora regionale al sociale suggeriva a noi del Mammut questa soluzione. Il Mammut è un centro territoriale con sede a Scampia nato per volontà della Regione Campania. Non sapendo che pesci prendere ai tempi della faida di camorra del 2000, l’assessorato ci chiese di dar vita a un centro capace di lavorare con il territorio, producendo innovazione didattica e trovando qualche soluzione alla disgregazione e allo sbando vissuto in primis dai ragazzi di quelle zone: non una scuola, non un ospedale, non assistenti sociali, non un centro di accoglienza per migranti e rom, non una società di formazione e ricerca ma un’organizzazione e un metodologia capaci di integrare tutti questi servizi. Una cosa non proprio semplicissima insomma. Anche in questo caso non ci soffermiamo sull’analisi sociologica del quartiere Scampia (un quartiere come tanti), dove esiste una grande varietà di umanità, compresa la schiera di ragazzini che tutti hanno espulso e che passano la propria giornata alla ricerca di luoghi e persone su cui scaricare la propria rabbia. Il Mammut si trova appunto nel bel mezzo di una piazza fino a poco tempo fa colonia esclusiva di chi andava a bucarsi e di questi ragazzini (che chiameremo Mario e Giulio). Tra i riscontri positivi della sperimentazione Mammut c’è la possibilità collaudata di trasformare anche uno spazio come quello della piazza di Scampia dove il Mammut ha sede: attraverso la promozione di relazioni autentiche anche il luogo più inumano può diventare casa dove bambini, ragazzi, genitori, italiani, migranti, rom… possono trovare il proprio spazio. E questo è stato, ed è, possibile solo grazie al lavoro a tempo pieno e professionale degli operatori che ci dedicano le proprie intelligenze e il proprio cuore. E alla gratuità che permette all’abitante nulla tenete delle vele di condividere un tempo e un luogo con l’altro borghese che abita un metro più in là e con il quale probabilmente non si incontrerebbe mai.
Ora, a chi vendere tutto questo? Come farlo diventare impresa? Ce lo siamo chiesti e abbiamo provato. Arrivando alla conclusione che un centro territoriale a Scampia non può essere un’azienda che fa profitto. Non ci possiamo vendere Mario e Giulio, né Tiziana e Sofia. A parte il fatto che nessuno se li comprerebbe probabilmente, noi non siamo disposti a venderceli.
E allora che fare?
Abbiamo anche provato a mettere su una piccola impresa artigiana tra i ragazzi che frequentano il centro, grazie soprattutto al contributo generoso dell’urbanista e designer Riccardo Dalisi. Ma molto presto sono venuti al pettine i nodi che chi tenta di realizzare un’impresa sociale di questo tipo incontra. L’impresa diventa facilmente il modo con cui la vecchia associazione tenta di conquistare una nuova tipologia di fondi, indossando maschere più attuali. I ragazzi e gli “svantaggiati” in genere impiegano un bel po’ di tempo prima di arrivare ad avere capacità d’impresa (quella specifica – ad esempio riparare le biciclette – e quella imprenditoriale tout court). Tempo che serve ai membri della vecchia associazione, novella azienda, ad ottenere fondi e favori per la fase di start up, ovvero per la formazione di presunti imprenditori. Purtroppo il più delle volte sono gli stessi membri dell’associazione (che si candida ad essere incubatore di impresa) a non aver minimamente idea delle specificità tecniche né della capacità necessarie a fare profitto. Ma l’apparenza basta e oggi tanto il mercato privato quanto il pubblico sono molto più disposti a finanziare start up di impresa che interventi sociale “a perdere”.
Poco importa se il tutto si rivelerà utile più ad appagare il narcisismo (e/o le esigenze economiche del momento) dei vecchi educatori che le esigenze lavorative dei millantati (probabilmente mancati) imprenditori.
I ragazzi con cui avevamo avviato questa sperimentazione al Mammut hanno scoperto molto presto l’ inghippo e noi non siamo stati disposti a non vederlo. Avremmo potuto raccogliere un bel po’ di soldi e di consenso, dare qualche spicciolo ai nostri ragazzi artigiani, liquidarli con la soddisfazione di qualche ora di formazione con un grande artista e poi dichiararci soddisfatti. Ma non siamo stati capaci di venderci Mario e Giulio. E in ogni caso, anche se in tempi di crisi fosse decollata l’impresa artigiana, questa avrebbe mai potuto mantenere un impianto organizzativo come quello che serve a un centro territoriale? Basta fare due conti. Senza voler arrivare ai compensi dei dirigenti e agganciandoci allo stipendio medio di dipendente del sociale pubblico (decurtato ovviamente di tredicesime, malattie, ferie…) arriveremmo ad un costo lordo di circa 2.700 euro ad operatore (la metà l’associazione deve pagarlo in tasse, andando al lavoratore un netto di circa 1400 euro). Riducendo al minimo le esigenze di un centro territoriale che lavora nel bel centro di Scampia con bambini, ragazzi e adulti servirebbero almeno un educatore a tempo pieno per ognuna delle fasce d’età, e almeno uno che si occupi di amministrazione. 2.700 euro per 4 operatori per 12 mesi fanno 129mila euro. Escluse le spese di materiali, delle utenze, di un vetro che si rompe… Come potrebbe mai un’impresa artigiana agli esordi e nei tempi bui di oggi riuscire a mantenere i propri sgangherati lavoratori senza competenze e per di più produrre un utile di 130mila euro all’anno? Dunque, l’azienda con gli svantaggiati non si è rivelata una soluzione per il Mammut.
E allora, che fare?
La soluzione sembra semplice, banale chiara come il sole. Se si vogliono svolgere delle attività professionali, a-confessionali e gratuite per gli utenti di un centro territoriale a Scampia o chi le svolge deve essere privo di necessità economiche (ricco di famiglia, vincitore di una lotteria…) o a finanziarle deve essere il pubblico.
Oggi anche le pietre sembrano risponderti: sì ma il pubblico non ha soldi! Soprattutto quando questo pubblico è il Comune di Napoli. Ma è così? Come si fa a dire che il pubblico non ha soldi quando l’assessorato comunale da cui dovrebbero dipendere i locali del Mammut macina centinaia di milioni al mese? E li macina per lo più per mantenere il proprio apparato organizzativo. Apparato che anche a voler mettere da parte ogni popolusistico cinquestellismo, sembra proprio passare le sue giornate a trasmettersi carte da un ufficio all’altro (fatte salve le dovute sacrosante eccezioni). Un apparato ostaggio di un manipolo di dirigenti che si sentono al sicuro e che del lavoro su campo spesso non ne sanno un fico secco. Perché io devo garantire a quel dirigente, all’intero assessorato, al Comune, alla Regione… la buona pace e l’equilibrio rimanendo operatore sociale e costringendo me stesso e i membri della mia equipe di lavoro senza un euro di compenso (al punto da non avere più nemmeno i soldi per girare in macchina tra scuole, campi rom e gli altri spazi di questo immenso quartiere dell’area nord di Napoli), rischiando pietrate, vetrate in testa e le uscite di capa di chi non ce la fa più a resistere alla crisi?
Certo, oltre allo Stato esistono le ong e le fondazioni bancarie. Non sembra vera la facilità con cui queste organizzazioni tirano su centinaia di milioni di euro in pochi mesi, se non giorni. Esiste evidentemente un sistema fatto di donatori, leggi e prassi bancarie e industriali e soprattutto di marketing del sociale, per cui chi dispone di un apparato di uomini e mezzi e know how (concentrati in palazzi di almeno due piani) riesce a tenere in piedi centri educativi, programmi scolastici e affini.
Ad accomunare gli assessorati e gli altri apparati pubblici con queste grandi organizzazioni private c’è la stragrande quantità di soldi impiegati per mantenere l’organizzazione stessa, e i pochi spiccioli che finiscono a chi sta direttamente su campo. La differenza è che mentre a nutrire l’apparato pubblico sono le tasse dei cittadini, il foraggiamento alle grandi organizzazione private lo fornisce il mercato. Ai primi tutto spetta senza molta fatica. I secondi devono guadagnarsi il pane con gli artigli.
Il Mammut non ha mai fatto alcuna divisione tra chi sta su campo e chi ha ruolo organizzativo, e soprattutto ormai dell’equipe originaria siamo rimasti in quattro a fare il lavoro con bambini, ragazzi e adulti che prima svolgevamo in venti. Anche se avessimo i due piani da destinare all’organizzazione di ricerca fondi, non avremmo a disposizione sufficiente manodopera. E poi, ormai si sarà capito, non siamo disposti a venderci Mario e Giulio.
Nell’attesa di riuscire a tirarci fuori da questo pantano, non ci resta che specchiarci nel fango. A differenza del mitologico stagno, il fango ha almeno il pregio di mostrarci in tutta la sua deformità l’immagine del nostro presente. Facendo risaltare ciascuna delle contraddizioni che sembrano incollarci alla poltiglia.
Pensiamo che Dewey e i pedagogisti del Novecento avessero ragione, non c’è pedagogia senza progetto di società a cui tendere. Cioè solo se abbiamo presente il tipo di città da costruire potremmo formare i cittadini che la abiteranno. Ora, autori come Goodman e Illich ci hanno messo in guardia dalla società dei servizi, dal modello di uno Stato che assiste dalla culla alla bara. E da qui il nostro sospetto per tutto quello che è lo Stato sociale pubblico, il nostro impegno rivolto a “difenderci dai servizi”. Idea che si rifà a un modello di società di stampo social-anarco-libertario. Dall’altro lato l’approccio statalista classico, quello per cui la sanità, la scuola, la cultura sono un diritto e quindi il pubblico deve garantirli ad ogni costo. Opzione per cui bisogna spendere la propria vita per “difendere i servizi”.
Penso che per uscire dal pantano si debba fare prima di tutto questa scelta: optare per il primo o il secondo modello società, sapendo che oggi non si può più tenere il piede in due scarpe. E che molti di quelli che pensano di star facendo la rivoluzione libertaria stanno in realtà servendo la vittoria sul piatto d’argento al più bieco capitalismo (che non dimentichiamoci continua ad essere il modello prevalente, basato sulle convinzioni liberiste per cui il mercato si autoregola e l’importante è diffondere una sana cultura d’impresa). Oppure diventare davvero consapevolmente pragmatici e smetterla di fare sociale e critica sociale per portare acqua ad una delle due tesi. Operando scelte e agendo di conseguenza di volta in volta in direzione di quello che sembrerà la situazione migliore. Seppure un modello di società ideale a cui tendere bisognerà comunque averlo e soprattutto esserne consapevoli.
Insomma, anche se per il Mammut non so davvero che fare e nella fanghiglia mi sa che ci rimarrò ancora un po’, per il sociale mi sembra che un paio di direzioni verso cui tendere oggi vadano chiarendosi. Di seguito qualche banalità di facile comprensione e in ordine sparso:
1. Smascherare ognuno dei meccanismi dell’omologazione, a partire da quelli del narcisismo e della realizzazione del falso sé. Smettere di inseguire le immagini e diventare innanzitutto consapevoli di quanto ognuno di noi stia andando in questa deriva, lavorando perché in comunicazione ci siano il più possibile le autenticità di ciascuno.
2. Avvalersi di tutti gli strumenti delle scienze sociali e non. Recuperare ad esempio l’apporto che l’antropologia e la sociologia possono dare in fase di analisi e monitoraggio dell’intervento. Il lavoro sociale come lavoro di inchiesta di base è una delle principali possibilità per mantenersi lucidi, anche in fase di erogazione del servizio.
3. Lottare perché le risorse dello Stato vadano a finanziare il “sociale” piuttosto che le altre sacche del potere. Non abbassare cioè la guardia perché nella ridistribuzione delle ricchezze il welfare, la scuola, la ricerca possano avere quante più euro possibili.
4. Invertendo, se proprio necessario, l’ordine delle cose: precarietà e bassa soglia di garanzie lavorative per chi se ne sta in ufficio con ruoli gestionali e lavoro ben pagato e non precario per chi opera professionalmente su campo.
5. Attuare ogni misura necessaria perché il servizio, qualsiasi servizio, possa equivalere a:
a) effettiva possibilità di emancipazione/liberazione per educato e educando
b) riduzione del gap socio culturale tra i cittadini
c) collegamento con circuiti e reti sociali che il singolo o il gruppo di appartenenza non potrebbero scovare
d) sviluppo (quasi omeopatico) di capacità e potenzialità dei singoli e dei gruppi con cui si lavora
6. Non lavorare mai, né nella fase di analisi né tanto meno in quella di realizzazione dell’intervento, per confermare le proprie tesi di partenza. Tenendo comunque presente, ed esplicitando, il tipo di società a cui si sta formando sé stessi e il cittadino destinatario del servizio.
7. Finalità del servizio sociale è la modificazione della situazione di svantaggio, nessun altro. Se non si ottiene il cambiamento auspicato, vuol dire che qualcosa non va come dovrebbe.
8. Tendere alla modificazione di quanto sta alla base della situazione di disagio. Senza andare ai massimi sistemi, non è difficile capire che i problemi di Scampia li risolverebbe molto di più una nuova legislazione sulla droga che valangate di soldi al sociale.
9. Obiettivo del lavoro sociale è fare in modo che tutti stiano meglio e non che tutti stiano peggio.
Questo articolo è uscito sul numero 16-17 de “Gli asini”, giugno/settembre 2013. Abbonati ora per avere la versione cartacea o acquista l’ultimo numero.