Gli Asini - Rivista

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Catalogo di accuse comuni a uno scrittore

disegno di Roberto Catani
4 Aprile 2022
Gianfrancesco Turano

Si diventa scrittori per genio o per amore della lettura. La seconda categoria forse dovrebbe lasciare perdere ma l’amore non corrisposto è, a sua volta, un grande classico della letteratura e quindi non ho lasciato perdere.

Alcuni decenni dopo non so se sono uno scrittore, probabilmente no. Ma mi mantengo con la scrittura e sono rimasto un lettore forsennato. Leggo di tutto, dalla toponomastica agli annunci immobiliari, dai numeri di targa agli avvisi di decesso. Tutto può ispirare, persino un post apparso su quella Rsa digitale che è Facebook. Erano poche righe che lamentavano come l’asticella delle pubblicazioni letterarie italiane fosse sempre più bassa e la narrativa sempre più povera.

Contro la mia abitudine di evitare gli argomenti letterari, ho ripreso il post con lodi all’autrice – mal me ne incolse, come si vedrà – e qualche osservazione aggiuntiva dettata dall’esperienza della mia cosiddetta carriera di scrittore.

Durante gli anni ho spesso affrontato il giudizio di editor, agenti e critici vari. Quello che segue è un breve catalogo di accuse ricevute da scrittore che da lettore non ho mai capito.

1. Mi hai costretto a tornare indietro.

Disponibile anche nelle versioni “ho dovuto rileggere” e “ho dovuto saltare”, questa imputazione rovescia l’onere della prova sull’autore. È sempre lui a dovere dimostrare di non essere un inetto dalle idee confuse.

La mia linea difensiva più comune è che non conosco libro dove non abbia dovuto rileggere. E, sì, sono tornato indietro e, a volte, ho saltato con notevoli sensi di colpa. Erano classici e io non sono un classico. Questo fa una differenza enorme, sempre e comunque. Ma anche un non classico, forse soprattutto un non classico, ha diritto a un passaggio a vuoto perché si diventa classici soprattutto imponendo i propri vizi. A imporre le virtù è buono chiunque.

Per venire incontro al lettore il mondo editoriale ha proposto edizioni abbreviate di Iliade, Robinson Crusoe, Moby Dick. Anni fa in Francia c’è stata una lunga polemica sull’opportunità di tradurre Montaigne dal francese del sedicesimo secolo al francese di adesso per renderlo comprensibile a un pubblico più vasto. Tutto legittimo. Gutenberg faceva l’orafo e ha inventato la stampa a scopo di lucro. Ma anche senza arrivare agli omogeneizzati e preservando l’edizione originale, resta legittimo che il lettore ipocrita si sottragga a qualche riga della descrizione sulle interiora della balena spermaceti.

2. Questo evento storico è complicato/complesso.

Succede spesso con gli eventi storici. Sempre, per la verità. Sono complicati o complessi o entrambi. Sta nell’abilità di chi scrivere rendere semplice il complicato/complesso ma c’è un limite oltre il quale la semplificazione diventa un tradimento del reale. Il rischio film peplum con il centurione di Cinecittà che guarda l’orologio da polso incombe. La Storia è tornare indietro.

3. Nessuno conosce i fatti che stai raccontando.

In linea di principio sembrerebbe una dichiarazione di grande interesse. È il contrario. Si è diffusa l’idea che, se una storia non la conosce nessuno, la storia non merita di essere conosciuta. Può essere vero ma può essere falso. In genere, il sospetto verso vicende poco note ha come conseguenza che la letteratura costretta nel seminato finisce per raccontare sempre la stessa storia. Di solito è una vicenda di tipo intimista visto che quasi tutti possiedono un intimo. Chi non possiede intimità degne di interesse è pregato di scrivere romanzi storici su vicende di facile comprensione, per non costringere il lettore a tornare indietro.

4. Mi hai costretto a prendere in mano il dizionario.

Questa è l’efferatezza assoluta, di quelle che la pena di morte è poco. Costringere una persona che lavora nell’editoria, ed è dunque colta, intelligente, brillante, chiaroveggente rispetto al successo o all’insuccesso di un libro, a prendere in mano il dizionario è la pietra tombale su ogni tentativo di pubblicazione. Sebbene il dizionario sia in effetti consultabile attraverso il telefonino che ormai guida le sorti dei sapiens sapiens e l’operazione non richieda più sforzo di quanto ne serva a informarsi sul meteo di domenica, il supposto intento pedagogico dell’autore è ritenuto offensivo verso il chiaroveggente. Da parte del lettore si configurano addirittura azioni per risarcimento danni.

5. Ho fatto fatica.

La summa delle accuse da 1 a 4 è ben riassunta dalla 5. L’idea che leggere un testo possa costare fatica, che addirittura ci vogliano anni di sforzi per comprendere un testo complesso, che questo esercizio aumenti le capacità culturali del lettore, tutto ciò è ammesso soltanto per i classici, con un bel cheppalle come sottotesto. Un grandissimo lettore e scrittore come Jorge Luís Borges sosteneva che il Chisciotte per alcuni era un capolavoro, per altri la forma più famosa della noia nonché il pretesto per oscene edizioni di lusso.

L’irriverenza verso un classico è una cosa. La guerra alla fatica, a quanto posso dire dalle mie frequentazioni estere, è un’esclusiva del mondo letterario italiano. Leggere Toni Morrison e John Banville o Georges Feydeau e Assia Djebar o Francisco Quevedo e Juan Carlos Onetti costa fatica. Persino uno scrittore considerato popolare come Dashiell Hammet, con il suo gergo hard-boiled, può essere molto impegnativo. A volte bisogna tornare indietro e certe sue espressioni risultano oscure anche avendo a disposizione un dizionario dello slang Usa dei primi del Novecento. L’alternativa alla fatica è abbassare il livello verso una chimera dell’editoria contemporanea. Sono i lettori-non lettori, mostri mitologici che devono essere conquistati alla lettura attraverso un percorso facilitato, riposante, rassicurante, in modo da salvare l’industria editoriale grazie a una domanda nuova.

Alla fine dei cinque punti rimangono due conclusioni banali.

Conclusione banale 1. Tutto costa fatica.

Conclusione banale 2. La differenza sta nel saldo, negativo o positivo, fra fatica e piacere della lettura. Non solo l’editore, anche il lettore ha il suo conto economico.

Su Facebook invitavo a tirare su l’asticella del rischio e non pubblicare spazzatura per sartine contrabbandandola per letteratura. Un po’ rude, forse. Eppure ripeto in questo articolo l’espressione di Guido da Verona “letteratura per sartine” (in francese, midinette) proprio perché ha dato fastidio e mi ha procurato accuse di fascismo e di sessismo che, per la verità, ormai non si negano a nessuno.

Non sono state le uniche. Mi hanno dato dello stupido perché ci metto tanto a leggere Toni Morrison, del morto di fama perché avevo taggato Loredana Lipperini per procurarmi visibilità, del milite ignoto perché chi è ignoto deve stare muto e non permettersi di cercare avventure nel meraviglioso mondo delle lettere italiane.

Si è scatenata la partigianeria fra due tesi che, in realtà, non erano distanti fra loro, anzi, condividevano la necessità di rischiare di più. Così ho cercato di capire perché un invito alla qualità può essere così irritante.

Tassonomia del lettore

La letteratura italiana contemporanea, come la Gallia di Cesare, è divisa in tre parti: intimismo, giallo-noirismo, libri su Mussolini. Questi isolotti sono circondati da un mare interno di marginalità dove, fin dai tempi di Guido Morselli, possono esistere scrittori eccellenti. Questo non basta a sollevare la letteratura italiana dal suo livello che, calcisticamente, è paragonabile a un campionato di terza fascia (Svezia oppure Slovacchia) perché la letteratura è un gioco di squadra e per questo gioco ci vuole un certo numero di autori fra loro organici ossia capaci di crescere insieme attraverso confronto, antagonismo, frequentazione, magari odio personale.

Un esempio virtuoso riportato da due film del 2021 (Qui rido io di Mario Martone e I fratelli De Filippo di Sergio Rubini) è quello del teatro napoletano fra Ottocento e Novecento, capace di esprimere dall’interno di una comunità tutto sommato piccola, una pluralità di voci dagli Scarpetta al trio Eduardo-Peppino-Titina, da Raffaele Viviani a Salvatore Di Giacomo passando per uno strepitoso autore orale come Totò.

Questi artisti vivevano di una misura non sempre vincente fra rischio estetico e bisogno di tenersi stretto il pubblico pagante per evitare la fame.

Il sistema attuale è molto diverso. Gli isolotti che producono reddito si restringono per l’innalzamento degli oceani e la lingua italiana è una terra bassa, parlata da pochi. La società letteraria che lavora con la lingua italiana è amministrata secondo il metodo prevalente in tutte le amministrazioni italiane cioè attraverso consorterie che procedono per cooptazione.

Più l’isolotto si restringe, più è difficile l’accesso. Meno potere e soldi garantisce l’isolotto, più la lotta per il dominio diventa accesa fino al punto di caduta finale, quando si combatte per un impero inesistente e ogni nuovo arrivato può essere il distruttore.

Ho sentito dire al direttore commerciale di una nota casa editrice: «Io vorrei un libro che vende duecentomila copie. Invece me ne date duecento che ne vendono mille».

Non è il caso di aggiungere che il romanzo per sartine da duecentomila copie va benissimo, come va benissimo l’ennesimo investigatore con profili psicotici eppure animato da desiderio di giustizia. Su un livello superiore ci sono libri come M e Canale Mussolini che mettono insieme indagine storica, ambizioni narrative e fatturato. Per citare in modo sommario un altro esempio virtuoso, nel cinema italiano del secondo dopoguerra c’erano i film di cassetta (Totò e Peppino o Franchi e Ingrassia), i film commerciali (Risi, Monicelli) e poi c’erano i film d’arte (Fellini, Visconti, Rossellini). Il sistema dei grandi incassi consentiva di alimentare avventure più rischiose.

Ma anche il pubblico dei lettori, come lo scrittore, è un gioco di squadra fatto da persone che si confrontano, litigano, concordano sulla dimensione di un’opera. Non c’è grande arte senza un grande pubblico. Questo non significa critici laureati ma persone che vedono tanto cinema, tanto teatro, leggono tanti libri e ascoltano tanta musica da essere competenti sul fraseggio di un soprano come il mitico loggionista della Scala.

Il nocciolo del problema, e una modesta proposta di soluzione, sta quindi nell’alzare l’asticella e nel rinunciare alla pretesa che ogni lettore si senta scrittore. L’indulgenza di chi pensa “questa cosa la saprei scrivere anche io” non migliora le vendite. Aumenta soltanto il numero degli aspiranti scrittori fino al raggiungimento del rapporto uno a uno: un romanziere per ogni lettore di romanzi o magari un romanziere che non ha mai letto romanzi.

Il senso di inferiorità del lettore, che non per questo abdica dal giudizio critico, produce sana invidia, salubre ripugnanza di sé e, infine, il fanatismo necessario a comprare libri.

Chi vive la letteratura, e soprattutto il leggere, come passione incurabile si identificherà in questa parabola finale.

Un giovanotto men che ventenne con manie di scrittura prende in mano il primo libro della Ricerca. Legge una, due, tre pagine. Alla quarta, nonostante il suo rispetto sacrale verso l’oggetto libro, tira Proust contro il muro perché capisce che non arriverà mai a quel livello. Dopo qualche minuto a passeggiare nervosamente per la stanza, il giovanotto raccoglie il libro e continua a leggere, con fatica, tornando indietro, dizionario alla mano. Intanto pensa che oggi Proust non lo pubblicherebbe nessuno.

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