Carne da macello. Quando decisero di uccidere l’Università
Aggirarsi nei corridoi di una qualsiasi università (pubblica) italiana vuol dire incrociare un certo numero di volti, più giovani, meno giovani. Alcuni di questi lavorano per l’istituzione accademica a vario titolo: docenti, ricercatori, assegnisti di ricerca, dottorandi, uscieri, personale tecnico-amministrativo. Altri sono studentesse e studenti. Una massa umana di notevoli proporzioni, quale che sia la grandezza del singolo ateneo. Le traiettorie sono differenti e dipendono dal posizionamento che la singola persona ha nel proprio ateneo e nel proprio dipartimento. Tuttavia, per molti la prospettiva del presente e, ancor più tragicamente, del futuro è simile. Una parte di essi, in particolare gli uscieri, sono personale “esternalizzato”, assunti attraverso bandi di gara vinti da singole cooperative. Parlandoci, l’impressione è che negli ultimi anni le condizioni di lavoro, in particolare quelle salariali, si siano sempre più compresse e degradate. Poi c’è il comparto legato alle discipline che vengono praticate e insegnate, così come quello che sovraintende a tutta la (gigantesca) mole burocratica che investe l’università: docenti, ricercatori a vario titolo, personale tecnico-amministrativo. Gran parte di essi sono assunti a tempo determinato, nel mezzo a un guado esistenziale la cui durata è variabile ma che difficilmente è più breve – almeno per i più fortunati – di un decennio. Ovviamente, gli effetti a cascata di questa sistematica frammentazione del modello di reclutamento nel mondo universitario colpiscono anche coloro per i quali l’università – le sue competenze, le sue professioni, le sue comunità – esiste: gli studenti.
Rimaniamo al comparto della ricerca e dell’insegnamento. Con la legge 240/2010 – nota come “Legge Gelmini”, dal nome del ministro che la promosse – il pre-ruolo, cioè quel periodo che va dalla fine del dottorato all’ottenimento di una posizione permanente (periodo, peraltro, di puro precariato e non, come spesso si è voluto far passare, di formazione personale) è stato spezzettato in tre figure differenti. Si tratta degli assegnisti di ricerca, dei ricercatori a tempo determinato di tipo A e di tipo B (Rtd-A e Rtd-B). La differenza tra queste figure è fondamentale. Gli assegnisti percepiscono un salario netto di circa 1.400 € e sono figure para-subordinate, inquadrabili dunque nei fatidici schemi contrattuali del tipo “Co.co.co” e “Co.co.pro”; il contratto in genere è di un anno, a volte rinnovabile (cosa che, però, non implica il fatto che effettivamente venga rinnovato). Gli Rtd-A e Rtd-B invece prevedono un contratto di 3 anni, con un salario netto variabile (1.700-2.000 €) a seconda della regione in cui è situato l’ateneo: si tratta di contratti di lavoro subordinato che prevedono anche un carico didattico (fino a 60 ore per un Rtd-A e fino a 90 per un Rtd-B: entrambi i carichi didattici, a quanto mi risulta anche solo per il confronto quotidiano con colleghe e colleghi, sono spesso ampiamente superati). La differenza tra le due tipologie è che mentre un Rtd-A può avere una proroga di 2 anni ma non vincola l’università a un assorbimento del ricercatore all’interno di una posizione stabilizzata, nel caso di un Rtd-B che avesse conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale come professore di II Fascia si procede, generalmente, a una stabilizzazione. Insomma, alla fine del triennio si viene assunti come professori associati. Il contratto da Rtd-B, nel gergo accademico, è definito “ricercatore in tenure track”.
Ora, quando durante il Governo Berlusconi IV l’allora ministra Maristella Gelmini elaborò questo schema diabolico di riforma del reclutamento universitario, proseguendo un percorso di smantellamento dell’università pubblica già avviato nei due decenni precedenti (si veda, in proposito, l’articolo di Luca Scacchi Il sistema universitario nazionale e le sue faglie, in Articolo 33, n. 9, settembre 2024), una significativa fetta del mondo universitario, dagli studenti fino ai professori di I fascia, si mobilitò per tentare di arrestare il disegno di legge. Esso, infatti, oltre a fragilizzare le posizioni lavorative, implicava un netto taglio al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), principale fonte di approvvigionamento del mondo universitario che copre gran parte delle spese non solo relative al reclutamento ma anche ai meccanismi di tutela del Diritto allo Studio (si veda, sul movimento di protesta, il numero di MicroMega, Un’onda vi seppellirà, dicembre 2008). La mobilitazione, purtroppo, fallì.
A testimonianza di questo fallimento, possiamo notare come questo ginepraio di forme contrattuali, sistematizzato e (parzialmente) risolto dalla legge 79/2022, resta ancora nelle menti e nei cuori di coloro che, in continuità proprio con quel Governo Berlusconi IV, compongono l’attuale esecutivo. Per comprendere la situazione attuale bisogna però fare ancora un passo indietro. La Legge 79, spesso chiamata “Riforma Draghi”, prevedeva infatti due sole figure pre-ruolo. La prima è il contrattista di ricerca, che andava a sostituire il vecchio assegnista (art. 22, L. 240/2010), in un quadro giuslavorista ben più favorevole (contratto subordinato della durata di 2 anni, rinnovabile per altri 2, il cui trattamento economico dipendeva da una contrattazione collettiva nazionale e non poteva essere inferiore a quello degli attuali Rtd). La seconda, invece, è il ricercatore in tenure track (RTT), posizione della durata di 6 anni, con possibilità di assorbimento in ruolo già a partire dal terzo anno di contratto. Una revisione dei meccanismi di reclutamento certamente più onerosa ma che garantiva continuità lavorativa, tutela fiscale, salariale e previdenziale, muovendosi verso una rinormalizzazione di un sistema che aveva palesato, nel suo complesso e nell’individualità delle vite che a esso erano state esposte, una perversa capacità patologizzante (si veda, ad esempio, il testo di Marianna Nardi e Davide Vadacchino, Curami. Sono un post-doc, apparso su Roars, il 21 maggio 2019).
Nei recenti mesi, a soli due anni di distanza, con il Disegno di Legge 1240, che potrebbe passare tristemente alla storia come “Riforma Bernini”, ci troviamo ad affrontare una nuova stagione di destrutturazione del mondo universitario, rispetto alla quale urge trarre alcune implicazioni e conseguenze.
Vale la pena presentare brevemente il contenuto di questa “riforma” (per un approfondimento sistematico si veda il numero monografico della rivista Articolo 33, settembre 2024, e quello della rivista Jacobin, La guerra all’università, settembre 2024). Le figure del pre-ruolo diventeranno 6. Resterà in essere l’RTT della legge 79/2022, sebbene vada rimarcato che negli ultimi due anni pochissimi posti di questo tipo sono stati messi a bando. Il contratto di ricerca, invece, verrà ridotto rispetto alla 79/22 (da 1 a 3 anni) e, in realtà, rischierà di non vedere mai la luce per assenza di volontà a procedere a una contrattazione nazionale collettiva. Esisteranno poi un “assistente alla ricerca senior” e un “assistente alla ricerca junior”, doppioni in minore del vecchio assegno di ricerca – in minore poiché il trattamento economico sarà determinato unicamente dal conferente (cioè dall’ateneo che bandisce il posto). Ci sarà poi un contratto post-doc (da 1 a 3 anni), anche questo doppione del vecchio assegno. Infine vedremo apparire un altisonante “professore aggiunto” che, sotto il velo della pomposità retorica del titolo, nasconde l’attuale imbarazzante situazione dei docenti a contratto, ovvero precari (precarissimi!) del mondo universitario che offrono didattica venendo remunerati, di fatto, a prestazione (si va da 600 € a 1500 € lordi per un corso universitario; i più fortunati possono arrivare a 2.500 €, ma spesso questo è l’intero salario annuale di un ricercatore).
Cosa producono questi modelli di reclutamento? Basta guardare i numeri: al 15 aprile 2024, il personale precario nell’università (stando solo al comparto insegnamento e ricerca) rappresentava il 48,9% dell’intero corpo accademico, con un rapporto di 0,95 a 1 strutturato (cioè, un docente o ricercatore a tempo indeterminato). In numeri assoluti, l’università italiana, a quella data, contava 43189 precari e 45103 strutturati. Queste cifre offrono però una panoramica eccessivamente “ottimistica” per almeno tre motivi. Innanzitutto, in esse non sono contati i docenti a contratto (futuri “professori aggiunti”, quelli cioè che lavorano per 600-2500 € l’anno). Inoltre, non sono contabilizzati coloro che sono assunti con contratti precari attraverso le ultime iniezioni di denaro provenienti dal PNRR successive al 15 aprile. Infine, e soprattutto, non sono considerati tutti quelli che lavorano per l’università e che al momento non sono inquadrati in nessuna situazione contrattuale. Si tratta di un’enorme schiera di persone che producono sapere, pubblicando articoli e libri, svolgono didattica non riconosciuta per un docente-mentore, fanno parte di commissioni di esami come cultori della materia (che in inglese verrebbe tradotto come free fellow, ovvero “accademico che lavora gratuitamente”). Numeri enormi, quindi, che sarebbero inammissibili in molti altri contesti lavorativi pubblici (su questo rimando a un vecchio mio testo polemico, pubblicato in Il Lavoro Culturale, Una storia di solitudine. Ricerca, nomadismo e precariato, 25/11/2020).
In questi mesi abbiamo avuto modo di ascoltare molte giustificazioni “razionalizzanti” che sarebbero alla base di questa ulteriore revisione peggiorativa del mondo della ricerca, la più bizzarra delle quali – se non si trattasse di una scena sociale desolante – è che un tale sistema renderà attrattivo il modello italiano anche per i più brillanti ricercatori esteri. La definisco quantomeno bizzarra perché, almeno nell’Europa Occidentale, non esiste un modello di reclutamento così afflittivo, denigrante e penalizzante quanto quello italiano. Gli effetti di una simile riforma – che peraltro si accompagnerà a un già annunciato taglio radicale del Fondo Finanziamento Ordinario, quantificabile in oltre 500 milioni di euro, e a un nuovo blocco del turn-over al 75% (ogni 4 docenti o ricercatori che andranno in pensione verrà bandito solo 1 posto), elementi sui quali anche il Consiglio Universitario Nazionale (CUN) e la Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI) si sono pronunciati più che duramente nel corso di questi mesi – sono prevedibili. Una diaspora accademica, che espellerà gran parte delle attuali ricercatrici e ricercatori che dovranno trovare un altro lavoro fuori dall’università o un’accogliente università fuori dai confini italiani. Il che mi riporta a 5 anni fa, quando con alcune colleghe e colleghi demmo vita all’articolazione pisana della piattaforma Ricercatori Determinati. In questi 5 anni, del nucleo fondatore di quell’esperienza, solo un collega ha avuto continuità salariale e professionale. Gli altri – alcuni credo abbiano a oggi anche abbandonato l’università – hanno proseguito il loro cammino diasporico: chi in Francia, chi in Polonia, chi in Inghilterra, chi a San Marino, etc. Tutti, tranne uno, abbiamo passato lunghi periodi (mesi, a volte anni) lavorando per l’università senza uno stipendio, spesso senza neppure la disoccupazione (poiché non tutte le forme contrattuali della ricerca danno diritto al sussidio di disoccupazione). In compenso, non ci è capitato di incontrare molti colleghi che dall’estero fossero venuti in Italia, se non in ambito puramente scientifico-applicativo, dove però le forme contrattuali e le corrispettive forme salariali sono legate a grandi finanziamenti internazionali che poco hanno a che vedere con i doverosi investimenti dello Stato.
Ciò che i vari ministri dell’università, Gelmini in primis e ora Bernini, hanno prodotto in questi ultimi 15 anni sono vite professionali spezzate, forme di ricatto istituzionale insopportabili, poiché la scarsità di risorse e l’aumento vertiginoso, costante e prolungato della competizione ha solidificato rapporti di potere orizzontali – tra coloro che gestiscono il reclutamento – e verticali – con coloro che, in qualche modo, lo “subiscono” –, sgretolamento delle relazioni pedagogiche, che mancano di continuità, impoverimento della comunità scientifica, ormai in larga parte composta da migranti accademici che articolano la propria esistenza in luoghi sempre diversi, senza possibilità di stanzialità, senza radicarsi in nessun luogo (professionale ed esistenziale). E, come detto, tra una sosta accademica e l’altra spesso in situazione di depauperazione economica. Persone atomizzate, disconnesse da comunità scientifiche e politiche, distratte da una possibile inscrizione in reti sociali solide e stabili, avulse da meccanismi di protezione istituzionale. L’università, negli anni, è stata trasformata in una selva competitiva, dove ognuno è costretto a giocare il ruolo dell’avventuriero o del peone, senza patria culturale, politica ed esistenziale, senza filiazioni scientifica e sociale. Un grande laboratorio istituzionale dove la logica aziendalista a ribasso ha scaricato sugli ultimi (precari e studenti) l’onere della sopravvivenza. Un laboratorio neoliberale, certamente, pronto a dismettere qualsiasi cultura dell’appartenenza, qualsiasi amore di conoscenza. Il sapere, e le “strutture reali” atte a produrlo collettivamente, sono stati svenduti sull’altare della flessibilità (si scrive flessibilità ma si legge “precarizzazione”; su questo si vedano i bei testi di R. Castel, La gestione dei rischi, Mimesis, in corso di stampa, e Le metamorfosi della questione sociale, Mimesis, 2019). La riforma Bernini è un passo ulteriore in questa direzione: la trasformazione di coloro che hanno ritenuto possibile fare della conoscenza una professione in un esercito di sottoproletari intellettuali e, spesso, materiali. O più prosaicamente, in carne da macello.