Bolaño tra Alcira e auxilio. Il ‘68 a Città del Messico

Questa sarà una storia del terrore. Sarà una storia poliziesca, un noir, un racconto dell’orrore. Ma non sembrerà. Non sembrerà perché sono io quella che la racconta. Sono io a parlare e quindi non sembrerà. Ma in fondo è la storia di un crimine atroce. Io sono l’amica di tutti i messicani. Potrei dire: sono la madre della poesia messicana, ma è meglio che non lo dica. Io conosco tutti i poeti e tutti i poeti mi conoscono. Perciò potrei dirlo. Potrei dire: sono la madre e qui soffia da secoli uno zefiro del cazzo, ma è meglio che non lo dica. Potrei dire, per esempio: ho conosciuto Arturito Belano quando aveva diciassette anni ed era un ragazzino timido che scriveva opere di teatro e poesie e non sapeva bere, ma sarebbe in qualche modo una divagazione e mi hanno insegnato (con la frusta me l’hanno insegnato, con una bacchetta di ferro) che bisogna evitare le ridondanze e restare in tema. Quello che invece posso dire è il mio nome. Mi chiamo Auxilio Lacouture…
(Roberto Bolaño, Amuleto, Adelphi)
Siamo in Messico, a Città del Messico per la precisione, che è una delle città più grandi del mondo; negli anni Cinquanta ha raddoppiato il numero dei suoi abitanti e adesso – siamo nel 1968 – ospita otto milioni di persone e continua a crescere. Il premio Nobel Octavio Paz regna come sovrano assoluto sul mondo letterario con tutto il peso dell’establishment governativo, ma la scena underground è molto vivace. Si moltiplicano le riviste di poesia, i corsi di scrittura, gli spettacoli teatrali, le presentazioni di libri. I bar sono pieni di fumo e di poeti. Le librerie sono frequentatissime, specie quelle di seconda mano.
È il 1968 e anche i giovani messicani sognano un mondo migliore. Si susseguono le manifestazioni di protesta. Il 27 agosto oltre 200mila studenti scendono in piazza, nello Zócalo, il cuore antico della città; l’indomani, in un clima di tensione crescente, vengono dispersi dalle baionette dei soldati. Il 7 settembre, nella piazza di Tlatelolco si tiene l’affollatissima Manifestazione delle torce. Il 13 settembre, con la Marcia del silenzio, 300mila sfilano con le bocche imbavagliate per protesta sui viali della città.
In questo clima elettrico arriva nel quartiere Lindavista, uno degli infiniti quartieri di una città infinita, un ragazzino quattordicenne che si chiama Roberto Bolaño. È nato e cresciuto in Cile, in aperta campagna, nella zona di Valparaíso. I genitori – León Bolaño, camionista, e Victoria Ávalos, insegnante – hanno una relazione tempestosa e si sono trasferiti nella capitale messicana coi figli – Roberto appunto e sua sorella Salomé – per iniziare una nuova vita. Di lì a non molto la coppia si separerà.
Roberto passa tutto il giorno a leggere, vuol diventare un poeta. Spiegherà in un’intervista: “Mio padre non ha fatto solo il camionista: è stato anche campione dei pesi massimi del Cile meridionale come pugile professionista. Davanti a quell’uomo non avevi scelta: o eri più forte di lui o passavi direttamente all’omosessualità. Se fosse dipeso da me, sarei passato direttamente all’omosessualità, che mi sembra un magnifico sbocco estetico, ma non era nella mia natura, sono eterosessuale. A quel punto mi restavano solo il cinema e i libri, e in sostanza da ragazzino mi sono dedicato a guardare un sacco di film e a leggere un sacco di libri, e a cercare di uccidere mio padre, è chiaro. Mio padre, naturalmente, mi ha sempre voluto un gran bene, come ogni padre”.
Roberto Bolaño diventerà non solo un poeta ma il più importante scrittore di lingua spagnola della sua generazione. Susan Sontag dirà di lui che soltanto García Márquez gli sta a pari.
Ma non dobbiamo correre troppo, è ancora il 1968. Il 18 settembre, al mattino, muore León Felipe, poeta repubblicano in esilio nel Distretto federale dalla Spagna di Franco. Alle 10 di sera dello stesso giorno, l’esercito messicano con decine di carri armati, una brigata di fanteria, il 12º reggimento di cavalleria, un battaglione di paracadutisti, una compagnia del battaglione Olimpia, due compagnie del secondo battaglione di genieri e un battaglione di Guardie presidenziali, insomma diecimila soldati, occupa l’Unam – Università nazionale del Messico. I soldati picchiano e trascinano via studenti e professori.
Dalla finestra di uno dei bagni al quarto piano della facoltà di Lettere e filosofia una donna osserva la scena spaventata. Si chiama Alcira Soust Scaffo, ha 44 anni ed è una poetessa uruguaiana. Alta, grandi occhi verdi, un’aria da attrice neorealista italiana, è stata molto bella. Adesso è segnata da una vita difficile. Non teme solo la violenza dei soldati, non ha i documenti in regola e rischia di essere rimpatriata.
È nata a Durazno, in Uruguay, il 4 marzo 1924, terza di tre sorelle, e ha studiato da maestra. Negli anni Quaranta ha insegnato in zone rurali, ha fondato biblioteche e creato orti scolastici. Nel 1952, a 28 anni, arriva in Messico, a Pátzcuaro, nel Michoacán, con una borsa di studio dell’Unesco, per specializzarsi al Crefal – Centro di cooperazione regionale per l’educazione degli adulti in America Latina e nei Caraibi. Alla fine della borsa decide di fermarsi ancora un po’ e lavora con le comunità indigene. Nel 1954, si trasferisce nella capitale, fa volontariato all’ospedale pediatrico e inizia a collaborare intensamente con l’Istituto latinoamericano de cinematografía educativa. Si sposa anche, con un medico della Croce Rossa, ma dopo un paio di anni si separa.
Negli anni Sessanta, diventa assistente di Rufino Tamayo nella realizzazione di un murale, Dualidad, al Museo nacional de antropología, e lavora a Radio Unam con lo scrittore Juan José Arreola. Traduce e adatta racconti per ragazzi. È Emilio Prados, un altro poeta spagnolo della Generazione del ’27 in esilio a Città del Messico, che la incoraggia a scrivere versi. Adesso vive facendo mille lavoretti all’Unam, per esempio traduzioni dal francese, e anche cose molto più umili. Spesso non ha i soldi per affittarsi una camera, quindi dorme dove capita, da amici o in facoltà o per strada.
Per Alcira la poesia è una forma di vita e al tempo stesso un modo di cambiare il mondo, ecco perché ciclostila le sue poesie, e anche traduzioni di poeti francesi (Baudelaire, Rimbaud, Éluard, Lautréamont), che poi distribuisce come fossero volantini, insieme a fiori, in giro per l’Unam, alle marce di protesta degli studenti e agli scioperi. È un progetto artistico che chiama Poesia en armas. Crea anche grandi cartelloni colorati con calligrammi, usando matite, pastelli, acquarelli, materiali vari, inventandosi una sorta di alfabeto composto da segni siderali e vegetali e frecce, in cui si coglie l’influenza di Tamayo, Miró e dell’argentino Xul Solar. E infine fa nascere un giardino all’università dedicato a Emiliano Zapata, dove pianta alberi in onore di poeti morti o come simbolo dei valori che difende. La poeta Margarita Castillo ricorda come li battezzava uno per uno e come li concimava coi suoi versi. Scrivono le curatrici della bella mostra a lei dedicata dalla Unam due anni fa: “La sua è una pedagogia della bellezza, un’identificazione contemplativa di poesia e natura, che coltiva al contempo la memoria e l’azione politica”.
Ricorda Bolaño dei poeti underground di quegli anni: “Accettavamo di vivere con pochissimo. Non avendo mezzi, eravamo molto spartani, ma al tempo stesso eravamo ateniesi e sodomiti perché ci godevamo i piaceri della vita, eravamo poveri ma lussuriosi. (…) Essere un poeta voleva dire, allo stesso tempo, essere rivoluzionario e restare completamente aperto a qualsiasi manifestazione culturale, a qualsiasi espressione sessuale, insomma aperto a tutto, a qualsiasi esperienza con le droghe. Era una tolleranza… Più che tolleranza, parola che non ci piaceva molto, era una fratellanza universale, una cosa totalmente utopica”.
Alcira resterà chiusa nei bagni della Unam per dodici giorni, bevendo acqua del rubinetto e leggendo poesie di León Felipe. Le truppe lasciano infatti la città universitaria il 30 settembre e Alcira viene ritrovata mezza morta dal poeta Rubén Bonifaz Nuño. Ma si è salvata dai soldati e diventa così un simbolo di resistenza, un mito per gli studenti messicani. Dopo aver trascorso un mese in ospedale per recuperare le forze, torna alla sua vita, riprende a scrivere versi, a partecipare a manifestazioni di protesta e a scioperi, scampando sempre all’arresto.
Un paio di anni dopo l’occupazione dell’università, Alcira e Bolaño diventano amici. Lui è un ragazzino timido di diciassette anni, scrive opere di teatro, che poi brucerà, e versi. Lei non è solo una poetessa, è amica di tanti esuli repubblicani spagnoli come León Felipe, Pedro Garfias, Remedios Varo, María Zambrano, Emilio Prados, con cui condivide la condizione di sradicamento. È amica anche di importanti scrittori messicani come Juan José Arreola e José Revueltas. Ma soprattutto è una sorta di ponte fra le generazioni perché è “la madre dei giovani poeti messicani”. Alcira legge i loro manoscritti, li discute, suggerisce quali libri leggere, fa le ore piccole insieme a loro a parlare di letteratura nei bar del Df, come il Café La Habana di Calle Bucareli. E forse, come Auxilio, anche Alcira qualche volta va incestuosamente a letto con loro.
Questa figura femminile così forte, così libera, così orgogliosa, così dedita alla sua arte e al suo impegno civile, non viene dimenticata. Molti anni dopo, Bolaño, che ha ormai lasciato il Messico e vive in Catalogna, le dedicherà un capitolo dei Detective selvaggi, il grande romanzo in cui racconta la sua giovinezza, il mondo dei poeti underground del Df, delle fogne del Df come dice lui, e le sue avventure di infrarealista, il movimento poetico che fonda col suo grande amico Mario Santiago, ispirandosi a Rimbaud, al surrealismo, ai beatnik e all’antipoesia del connazionale Nicanor Parra. Bolaño definirà in seguito l’infrarealismo “una specie di Dadà alla messicana”. Gli infrarealisti sono “nec spes nec metus”, senza speranza e senza paura: emarginati da un sistema conservatore e familistico come quello della cultura messicana, si fanno ben presto conoscere contestando tutti i poeti dell’establishment, compreso Octavio Paz, e boicottando le loro presentazioni in pubblico. Naturalmente vengono messi al bando, naturalmente nessuno li pubblica.
E tuttavia l’esperienza umana e artistica dell’infrarealismo non solo confluirà nell’Università sconosciuta, la summa di tutta la poesia di Bolaño (che a ottobre uscirà in italiano da Sur), ma andrà a costituire il nucleo creativo di tutta la sua l’opera, narrativa compresa. La poesia di Bolaño irrompe nella sua prosa all’improvviso, è lo scarto inatteso, l’espressione imprevedibile, l’immagine surreale, una specie di tempesta elettrica nel cielo notturno, per usare un’immagine ricorrente nei suoi romanzi. Scrive Bolaño: “Io fondamentalmente sono poeta. Ho cominciato come poeta. Quasi sempre ho creduto – e continuo ancora a crederlo – che scrivere prosa è di pessimo gusto. E lo dico sul serio”. Bolaño ha più volte raccontato come solo la nascita del figlio Lautaro lo avesse spinto a scrivere prosa nel tentativo di fare della sua arte anche un mestiere.
Alcira nei Detective selvaggi prende il nome di Auxilio Lacouture ed è un personaggio talmente affascinante che Bolaño decide di dedicarle un libro intero: Amuleto. Bolaño definirà Amuleto un romanzo intimista, l’assolo di una voce senza contrappunto, una voce che spesso suona delirante perché si sposta continuamente avanti e indietro nello spazio e nel tempo. Il bagno da cui Auxilio parla diventa come la cantina del racconto di Borges, l’Aleph, un punto nascosto dove si trovano “tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. E Auxilio ricorda senza distinzione il suo passato e il suo futuro e il passato e il futuro dei giovani latinoamericani.
La storia raccontata da Auxilio in Amuleto è un racconto del terrore, dove il terrore arriva dalla Storia con la S maiuscola e dove il peggio, i drammatici avvenimenti che seguiranno all’occupazione dell’Unam, si manifesta sotto forma di metafora, sogno, delirio. Dopo l’occupazione militare dell’università, gli studenti si radunano di nuovo in protesta nella piazza di Tlatelolco. È il 2 ottobre e il presidente del Messico, Gustavo Díaz Ordaz, dà ordine all’esercito di sparare sulla folla. Cadono centinaia di ragazzi (il numero esatto non si è mai saputo). I corpi vengono portati via coi camion della spazzatura. Anche Oriana Fallaci, che assiste come giornalista, viene ferita da tre colpi di arma da fuoco; creduta morta, finisce all’obitorio. Colpisce che già nel 1521, nella stessa piazza, il conquistatore spagnolo Hernán Cortés coi suoi soldati aveva massacrato 40mila indigeni, segnando la fine della civiltà azteca. La strage di Tlatelolco segna parallelamente la fine delle speranze dei giovani messicani. Auxilio commenta: qui soffia da secoli uno zefiro del cazzo. La violenza con cui vengono soffocate le speranze di un mondo migliore prefigura tragicamente quello che avverrà di lì a poco in Cile e poi in tutta l’America Latina: golpe, guerra sporca, desaparecidos, esilio.
Nel 1973, Bolaño ventenne abbandona la sua bohème messicana per correre a sostenere il governo di Salvador Allende, in Cile. Alcira, che in quel periodo vive a casa sua, ospite della famiglia, lo accompagna alla corriera e la sera cerca invano di rasserenare la madre. Il ragazzo attraversa avventurosamente tutta l’America Latina, “un viaggio lungo, lunghissimo, infestato di pericoli” scrive Bolaño “il viaggio iniziatico di tutti i poveri ragazzi latinoamericani, attraversare questo continente assurdo che capiamo a stento o che non capiamo per nulla”. Ironia della sorte arriva a Santiago giusto in tempo per il golpe e viene arrestato. Per fortuna trova fra i poliziotti due vecchi compagni di scuola che lo lasciano scappare, o così vuole la leggenda.
Quando rientra in Messico è senza documenti. Consumata rapidamente l’esperienza dell’infrarealismo, che gli ha fatto terra bruciata intorno, abbandonato dal suo grande amore Lisa Johnson, che si è stancata della bohéme, Bolaño decide di emigrare a Barcellona, dove si è già trasferita la madre. È il 1977, ha ventiquattro anni. La sua vita, da Barcellona a Gerona, a Blanes, in Costa Brava, sarà a lungo come quella di Auxilio e di tanti altri esuli: mille lavori saltuari, mille difficoltà, che nel suo caso si accompagnano a tanta scrittura matta e disperatissima in cui si racconta la sconfitta di un progetto di vita diverso.
Le esistenze che ci racconta Bolaño, prima fra tutte quella di Auxilio/Alcira, sono piene di speranze e di fallimenti. I buoni non vincono nell’opera di Bolaño, vanno faticosamente in direzione opposta alla Storia. La sua è una letteratura di perdenti per perdenti, di precari per precari, in cui – come dice Nicola Lagioia – molti di noi, travolti dalla crisi non solo economica dell’Occidente, si riconoscono più che in quella di maestri come Philip Roth o David Forster Wallace.
Dopo l’occupazione dell’università, Alcira comincia a soffrire di disturbi nervosi. Il trauma che ha vissuto la spinge, quando ha problemi, a chiudersi in bagno e a non volerne uscire. L’ansia legata alle difficili condizioni economiche aggrava la situazione. Alcira dimagrisce, si trascura, la sua esistenza si fa sempre più marginale. Bolaño la perde di vista prima di partire per l’Europa e avrà notizie delle sue ultime vicissitudini solo molti anni dopo, grazie a una lettera di un professore della Unam.
Nel 1988, dopo trentasei anni in Messico, l’Unam fa rientrare Alcira a Montevideo in modo che la famiglia possa prendersi cura di lei. Il suo equilibrio psichico è compromesso. Le condizioni di salute peggiorano a tal punto che viene internata. Alcira Soust Scaffo muore per problemi respiratori il 30 giugno 1977 ed è seppellita in una fossa comune. Ma, come raccontano all’Unam, il grande albero di jacaranda da lei piantato alla facoltà di Psicologia è oggi enorme e continua a fiorire.
Il testo su Amuleto di Roberto Bolaño è stato presentato al festival Babel il 20 settembre scorso, nel Teatro sociale di Bellinzona, accompagnato da una performance di Simone Spoladore e Anahì Traversi.
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