Black Lives Matter: cos’è in gioco negli Stati Uniti

incontro con Fulvia Antonelli e Simone Cangelosi
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Tiffany Rea-Fisher direttrice artistica della compagnia di danza Elisa Monte Dance, situata nel quartiere di Harlem a New York e community organizer nella comunità dei danzatori di New York e dentro i gruppi locali di abitanti di Harlem legati al movimento Black Lives Matter. In occasione del Juneteenth – la ricorrenza che celebra ogni anno negli Stati Uniti la fine della schiavitù proclamata in Texas nel 1865 – il 19 giugno del 2020, Tiffany ha organizzato una marcia e una serie di altri eventi che hanno visto la partecipazione di molte compagnie di danzatori della città esplicitamente impegnate sul fronte dei diritti civili e a sostegno del movimento. Ecco la sua testimonianza.
Gli artisti sono fondamentali per riflettere su quello che accade nella loro epoca, perciò è in questo che consiste il mio lavoro, nel riflettere su quello che sta avvenendo e ovviamente la mia esperienza di donna nera in America attraversa tutta la mia arte. Quando sono cominciate a succedere un po’ di cose ho capito che era necessario iniziare a organizzare il mio campo. Come danzatori noi veniamo allenati a stare in silenzio e a fare quello che ci viene insegnato. Nel nostro allenamento noi dobbiamo stare rigorosamente dritti, abbiamo di fronte uno specchio, veniamo giudicati per ogni piccolo impercettibile movimento, “non lì, non lì, proprio lì, proprio lì”. E ti viene insegnato solo ad accettare. Non importa cosa. Perciò quando arriva un momento del genere devi essere pronto ad alzare la voce. Molti giovani danzatori non ne hanno gli strumenti, perché sono così abituati a stare in silenzio, sono così abituati ad accettare la realtà che hanno attorno così com’è. È su me stessa che ho detto prima di tutto no, non è il modo con cui riusciremo a superare questa situazione, ho capito che avevo delle esperienze da mettere a disposizione. Il mondo della danza è così molteplice per culture e per generazioni, perché abbiamo un sacco di persone che provengono dai paesi più svariati e che danno un contributo al mondo della danza degli Stati Uniti, proprio per questo è un perfetto calco demografico degli Stati Uniti. Attraverso la comunità della danza possiamo mostrare la parte migliore degli Stati Uniti, che aspetto possono avere l’immigrazione, la diversità culturale, l’unificazione, e come possano ruotare attorno a qualcosa di importante. Ho chiesto a coloro che fanno parte della comunità di allenare e flettere i loro muscoli civici.
Il 4 giugno del 2020 abbiamo organizzato una manifestazione in occasione dei funerali di George Floyd. Abbiamo stabilito che saremmo scesi in marcia vestiti nei modi più eleganti. Volevamo infatti fosse molto chiaro che questa manifestazione era fatta per onorare qualcuno che era morto, e in un caso del genere vai vestito come si va vestiti a un funerale, a una cerimonia. Se qualcuno non aveva una cravatta o un vestito elegante glielo abbiamo prestato noi. Volevamo essere sicuri di riuscire a controllare l’immagine che i media avrebbero dato di noi. Lo scopo che ci siamo dati era quello di rappresentare la gente nera nel modo in cui vuol essere percepita, perché molto spesso nei media le persone nere sono rappresentate in un modo che non corrisponde per niente alla realtà, alla mia realtà concreta, a quella dei miei amici. Ci sono intere comunità qua negli Stati Uniti la cui esperienza dei neri è solo attraverso i media, perciò se noi riusciamo a controllare questa rappresentazione negativa allora noi riusciamo a modificare qualcosa. Ad Harlem ad esempio c’è gente di tutti i tipi: neri, bianchi, asiatici, latini, c’è di tutto, uno accanto all’altro, ma non è così dappertutto, perciò in molti posti che non hanno quel tipo di melting pot, quello che la gente vede in tv è tutto quello che vede. In quei quartieri la gente davvero non ha un amico o un collega nero, un’esperienza che gli faccia riconoscere la falsità di certe rappresentazioni.
Abbiamo terminato la manifestazione di fronte a una chiesa nell’East Side. Il più delle volte le manifestazioni non vanno nella zona East di New York perché è una zona molto bianca, una zona delle élite, ma volevamo avvicinarci all’ospedale che è da quelle parti, per far sentire la nostra voce a quelli che di solito, negli episodi di violenza che subiamo, sono i nostri primi soccorritori, i medici. Non puoi infatti continuare a parlare solo con quelli che sono d’accordo con te. Devi mostrarti ovunque. E l’opportunità in quell’occasione era quella di non dover essere temuti. La paura è la cosa che ha guidato tutto sino a ora. È la paura che ha portato Trump alla Casa Bianca. Non dovevamo essere temuti, noi stavamo davvero semplicemente camminando per strada, abbiamo riportato tutto ad azioni molto semplici, e quando abbiamo raggiunto la chiesa abbiamo detto a tutti di mettersi in ginocchio e avere un momento di silenzio. In quel momento il volume dei megafoni era troppo debole per raggiungere chi era più indietro, ma dato che eravamo tutti così uniti attorno a questo momento, siamo riusciti a fare in modo che tutti fossero in grado di avere un momento di silenzio assoluto attraverso questa forte intesa che si era creata dentro il corteo.
Per anni un sacco di persone nere sono state uccise senza motivo e io davvero non so perché l’omicidio di George Floyd è stato quello che ha acceso la miccia. Quando è successa questa cosa le persone sono rimaste sconvolte. La violenza per anni è stata nascosta, negata, sottostimata. Se guardiamo indietro, ai nostri avi, sono secoli che c’è. Non è una cosa nuova che i corpi dei neri siano a disposizione di una violenza estrema, è dall’inizio, dal momento in cui siamo stati portati qua. È interessante perché i neri sono tra i pochi che non sono arrivati qua con una missione, non siamo venuti perché credevamo nel sogno americano, noi ci siamo stati portati. Non so se sapete ma il Ghana, un paio di anni fa, ha fatto una grande campagna rivolta agli afroamericani a cui è stato rivolto in pratica l’invito di ‘tornare a casa’, e questa campagna ha avuto un certo successo, hanno risposto un sacco di afroamericani. Io ho avuto questo confronto di idee con molti dei miei amici, e in particolare con una delle mie amiche più care, che fa l’artista qua, che vive il rapporto che ha con gli Stati Uniti come un rapporto di violenza, e mi chiedeva come io riesca a stare in un rapporto di violenza di questo tipo. Io riflettendoci ho pensato che per me invece questa è la mia casa, io non sarei neppure in grado di tracciare un percorso a ritroso e dire da quale parte dell’Africa provengo, non posso atterrare in Africa – che ha culture, lingue, popolazioni diverse – e dire ‘ehi ciao, sono tornata’. Abbiamo lottato, ci siamo guadagnati questo paese e io non me ne vado da nessuna altra parte. Io sono statunitense, sono americana. Certo, sono assolutamente afroamericana, sono nera, sono orgogliosa di queste caratteristiche, ma per quanto mi riguarda la cosa si ferma qui. Perché il nostro linguaggio d’origine ci è stato sottratto, la nostra cultura ci è stata sottratta, la mia storia mi è stata sottratta, e tutte queste cose sono state reinventate qua. La mia nonna di quinto grado è nata in una piantagione del Mississippi e ha vissuto in una condizione di schiavitù dalla nascita. Io oggi ho il dovere di lottare per il cambiamento perché ho possibilità che lei non avrebbe mai potuto immaginare. Questo pensiero unisce e attraversa tutte le dimensioni della mia vita, quella di attivista, di artista, la mia vita quotidiana, il mio muovermi nel mondo. Tutto quello che faccio ruota attorno a un valore centrale per me, portare avanti il testimone delle generazioni che hanno vissuto in schiavitù e che non potrebbero immaginare le opportunità che abbiamo. Perché per quanto brutte siano le cose – e non sono buone – io comunque ho più opportunità e accessibilità alle cose di quanto ne abbiano avute le generazioni che mi hanno preceduto, perciò è mio compito spingere oltre queste possibilità. Ogni generazione deve conquistare un pezzo in più di libertà.
A me è capitato di chiedere ad alcuni della generazione più anziana, e che hanno marciato negli anni sessanta e assieme a Martin Luther King, cosa pensassero di quello che avviene oggi. E loro mi hanno risposto che sì, oggi è completamente diverso, e uno dei motivi per cui è diverso è che non avevano mai visto così tanta gente che non ci somiglia venire alle manifestazioni e stare dalla nostra parte. Quello che avviene oggi è una sorta di unificazione che mancava negli anni Sessanta, perché la popolazione all’epoca era ancora molto divisa e tutta la pressione e la responsabilità di ottenere i diritti civili dei neri all’epoca era sulle spalle delle persone nere. Quelle rivendicazioni sono state fatte a un governo e a un sistema giudiziario ancora tutto bianco. Perciò quando guardo alla generazione dei miei nonni e vedo che sono pieni di speranza per quello che sta accadendo questo mi dà speranza perché loro negli anni sessanta c’erano.
Credo che la cosa interessante che l’organizzazione Black Lives Matter ha fatto è stata quella di aprirsi alle altre realtà, come il National Action Network [N.d.T: una della più riconosciute organizzazioni per i diritti civili, fondata nel 1991 dal reverendo Al Sharpton], che è una organizzazione molto vasta ed è stata per anni il punto di riferimento – prima di Black Lives Matter – della maggior parte dell’attivismo che è stato fatto in passato all’interno della comunità nera.
Le persone che appartengono al Nan sono molto più grandi, hanno tutti attorno ai sessant’anni e c’è una specie di legame religioso che li tiene legati tra loro. Quel movimento si è radicato su quel terreno perché le persone nere si ritrovavano in chiesa, con persone come Jesse Jackson, con questi reverendi che hanno guidato il movimento. Black Lives Matter invece è un movimento con una composizione anagrafica più giovane e meno fondato sulla religione ma più sull’aspetto spirituale, nel senso che ha meno a che fare con la cristianità e più con le origini. C’è molta mescolanza, e non si può dire che sia composto da una categoria più che da un’altra, questo è il bello. In qualche modo si può dire che Black Lives Matter è una estensione e una evoluzione del National Action Network. Lo spirito è quello di non lasciar fuori nessuno, si va dai dimostranti più giovani a quelli più anziani, tutti assieme, e lavorano tutti con una grossa intesa. Dal punto di vista sociale il Black Lives Matter ha una composizione sociale molto varia, da persone ricche alla fascia media, a gente che lavora nei servizi essenziali.
Quello che si prova a fare è creare uno spazio per tutti, che non rappresenti solo una parte. Dato che sta avvenendo questa sorta di unificazione tra i rivoluzionari più anziani e i più giovani, la gente si sta accorgendo che il movimento nero non è un monolite, non è una esperienza univoca. È molto diverso crescere in California, essere l’unica nera della scuola cattolica che frequenti, essere sempre l’unica nera in tutte le situazioni, come è capitato a me dall’esperienza ad esempio della mia collaboratrice musicale, che ha studiato grazie a un programma gratuito del Bronx riservato a giovani studenti di talento dove la maggior parte delle persone erano o nere o asiatiche, e ha frequentato un college per soli studenti neri. Persino perché l’esperienza dei neri nelle due coste degli Stati Uniti è diversa, così come è diverso se provieni da una zona del Sud rispetto al Midwest. L’identità black non è una sola, è davvero molto complessa e fatta di aspetti diversi.
Nel movimento c’è un modello di leadership condivisa, che è una cosa nuova, che non esisteva in passato. Ci sono molte ragioni che spiegano questa novità. Una delle ragioni è che i leader come Malcom X, Martin Luther King o Angela Davis, la gente li ha visti o assassinare o far fuori in qualche modo. Inoltre c’è una riflessione sull’equità nel movimento, che in questo caso ha preso la forma della condivisione degli oneri e delle responsabilità. Nessuno si deve prendere la responsabilità da solo. Oggi esistono certamente delle icone del movimento ma credo che sia molto diverso dal passato, perché la scelta del modello di leadership condivisa, oltre a essere più equa, è messa in atto per proteggere il movimento. Qualcuno potrebbe riuscire a eliminare uno di noi ma non riuscirebbe a eliminarci tutti. È un modo per far crescere la leadership ovunque. Perché quando un movimento ha un unico leader è molto facile, colpendone la testa, mandarlo in pezzi per intero. Credo che questa sia una delle lezioni che abbiamo imparato. Le icone ci sono, sono ancora in vita esponenti delle battaglie per i diritti civili originarie, quelle degli anni sessanta, noi nutriamo rispetto e deferenza nei loro confronti ma hanno fatto il loro tempo. La rivoluzione non è incarnata da una sola persona, ma deve esprimersi in ogni cosa: nel cinema, nell’arte, nella cultura.
A sostenere il movimento c’è anche una grossa spinta culturale a ripensare la storia e il racconto che ci è stato fatto del Paese. Quando studi a scuola, tu assumi il punto di vista di chi ti sta insegnando, per cui quella per te è la Storia. E invece stiamo spingendo perché si ragioni su qual è la Storia che è stata sempre raccontata e ripetuta. Che storie sono? Quali sono le storie che raccontano i fatti? Che sono state raccontate così tante volte da diventare la struttura stessa della narrazione e stanno lì al posto dei fatti? E quali storie invece non sono state raccontate? Così come sulla Storia, c’è una grande spinta adesso nel mondo della danza perché il curriculum della danza venga de-colonizzato affinché per essere scelti da una compagnia non vengano più prese a modello solo le pratiche estetiche europee e si guardi invece alle tradizioni asiatiche, latine o africane. Si sta cercando di inquadrare cioè la questione dell’uguaglianza anche attraverso questi aspetti. Molti statunitensi non sanno cosa sia il Juneteenth: non solo i bianchi, ma persino una parte degli afroamericani del Nord e della costa non la conoscevano, perché è una celebrazione molto legata agli stati del Sud degli Stati Uniti. Un sacco di gente dice che come festa della libertà si dovrebbe scegliere tra la ricorrenza del 4 luglio [N.d.T: Independence day, Festa nazionale degli Stati Uniti che celebra l’indipendenza dalla Gran Bretagna] e quella del 19 giugno. Ma perché non celebrarle entrambe? Io e mio marito per esempio celebriamo entrambe le date. E siccome mio marito è bianco celebriamo anche il Loving day [N.d.T: Loving day, ricorrenza della comunità afroamericana che cade il 12 giugno e celebra la storica sentenza che il 12 giugno del 1967 la Corte Suprema della Virginia pronunciò a favore dell’abolizione delle leggi, ancora vigenti in sedici Stati degli Usa, che vietavano il matrimonio tra persone bianche e nere] invece che il San Valentino, e non perché creda che sia una brutta festa, semplicemente non me ne è mai importato nulla. Però celebriamo il Loving day perché è stato il giorno in cui la Corte Suprema ha deliberato che i neri e i bianchi potessero sposarsi, perciò questa è una riforma importante per noi, se non fosse mai successo io e mio marito non saremmo potuti stare assieme, sarebbe stato illegale,
Ci sono così tante azioni dentro la mia vita che se le avessi fatte in passato sarebbero state illegali, ad esempio amare chi amo, votare, far sentire la mia voce nello spazio pubblico. Anche rispetto alla scelta di sposare mio marito, e persino adesso, ho dovuto ascoltare frasi del tipo: ne sei sicura? Perché questa cosa renderà la tua vita più dura. La mia risposta è stata: noi ci amiamo, e questo è quello che abbiamo intenzione di fare. Tutto questo è ancora molto nuovo perché ci sono state leggi che hanno tenuto le persone completamente separate, e sino a tutti gli anni sessanta. È solo negli anni settanta, con la guerra in Vietnam, che cominciano a succedere una enorme quantità di cose in questo paese, per cui l’idea di una reale integrazione è ancora relativamente nuova ed è davvero molto allarmante per le persone.
Molti degli obiettivi concreti del Movimento ruotano attorno alla diminuzione dei finanziamenti destinati al corpo di polizia. Questo è un aspetto di un’importanza gigantesca perché regola i rapporti tra comunità nera e polizia. Quando parliamo di diminuire i finanziamenti alla polizia non stiamo dicendo che la polizia debba rimanere senza denaro, ma che non c’è bisogno che la polizia risponda a tutta una serie di cose a cui risponde oggi e che invece debbono essere investiti soldi nelle organizzazioni della comunità che già esistono, che già lavorano bene con i casi di abuso, di violenza domestica, che intervengono nelle controversie personali. Faccio un esempio: la polizia attualmente è incaricata di occuparsi della sicurezza fuori dalle scuole. È evidente che non dovrebbe essere la polizia a occuparsene, che dovrebbero essere i custodi della scuola. C’è anche una grossa spinta a che i poliziotti vivano nelle zone in cui lavorano, in modo che capiscano come sono fatte quelle zone, che non abbiano paura perché entrano in zone che non conoscono, o interagiscono con gente che non conoscono. Se dove lavori è anche dove vivi, allora molto spesso anche le tue reazioni saranno completamente differenti. Per fare un esempio, se i poliziotti che ci sono ad Harlem fossero di Harlem, allora conoscerebbero la tal persona, saprebbero che se quella persona sta camminando con il cappuccio alzato non è perché li sta minacciando, semplicemente se ne sta andando a scuola, o al campetto, sta solo vivendo la sua vita. A questo si aggiunge poi la questione della documentazione e dei verbali. Quando viene compiuto un assassinio di persone sotto la custodia della polizia, tutta la documentazione al riguardo deve diventare pubblica. Adesso invece si svolge tutto dietro un sacco di porte chiuse e con una forte segretezza, non c’è nessuna autorità esterna che si prenda carico di queste indagini, tutto viene fatto internamente alla polizia stessa. Questa è una questione aperta molto grossa, i documenti che hanno tenuto traccia di quello che è successo devono essere pubblici e si deve affidare a una autorità esterna le indagini, in modo che la gente possa sapere cosa sta succedendo. Queste sono le questioni più grosse sul piatto, la riforma della polizia e come la comunità nera è controllata.
Poi c’è la questione delle armi. C’è questa idea che se hai la pistola ti puoi difendere, ma è provato che non è vero, come è provato che la maggior parte delle persone non sa come utilizzare in maniera corretta le armi da fuoco. È una questione enorme e le lobby delle armi sono un gruppo di potere inarrestabile e qua nessuno riesce a capire quale sia la strada per fermarli. L’idea di essere armati è così radicata nella cultura degli americani, per cui in certi stati no, ma in altri le puoi indossare apertamente. Per noi della compagnia di danza quando viaggiamo in un altro stato è sempre scioccante, che ne so, andare a prenderci un caffè e trovarci accanto a uno che ha una pistola nella cintura. Perché? Perché hai bisogno che la tua pistola venga con te a prendersi un caffè? Ma questo è parte del “folklore americano”, dell’idea dell’America. Per quanto ci sia stata molta riflessione su questo non c’è una forza contraria alla Nra [N.d.T.: National Rifle Association, la potentissima lobby delle armi], per tutto il potere che sono riusciti ad accumulare e conservare da quando esistono. Quando si cerca di rimettere in discussione la questione delle armi in questo Paese si arriva a un punto morto.