Bambini randagi nella Russia sovietica

di Luciano Mecacci
incontro con Rodolfo Sacchettini
È un popolo di bambini e ragazzi, che si muovono senza adulti nella Russia ferita dalla guerra, dalla rivoluzione, dalle carestie. Furono chiamati i besprizornye. Fuggono dalle case, dove hanno visto morire i loro genitori o dagli orfanotrofi, dove si muore di freddo e di fame. Sono decine, centinaia di migliaia e infine alcuni milioni. Luciano Mecacci, già ordinario di Psicologia generale all’Università di Firenze e membro dell’Associazione italiana degli slavisti, tramite un rigoroso lavoro da storico, ricostruisce, nel suo ultimo libro Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) (Adelphi 2019; adesso in traduzione per l’editore tedesco Hanser), questa orribile pagina del Novecento, conosciuta solo parzialmente, a lungo censurata da uno Stato che non poteva ammettere un simile sfacelo e poi rimossa fino a tempi recenti. Ciò che colpisce non è tanto la scientificità dello studio, quanto l’abilità nell’offrire una prospettiva interna al fenomeno. Grazie a testimonianze dirette, a documenti dell’epoca, spesso trascurati, e a testi di moltissimi poeti e letterati, il libro di Mecacci è un saggio avvincente, che ci fa precipitare nella società sovietica. È come se il lettore, pagina dopo pagina, riuscisse ad ascoltare la voce di questi bambini abbandonati, impegnati all’esclusiva sopravvivenza. Allo stesso tempo il lettore è invitato a confrontarsi con la ricezione che questi fatti ebbero nella cultura sovietica ed europea. La capacità di offrire un punto di vista interno e allo stesso tempo di evocare un immaginario collettivo sono tenuti assieme da una scrittura chiara e appassionante che mescola le tecniche dell’inchiesta sociale con le qualità del miglior saggismo (ad esempio Carlo Ginzburg). Già con il libro precedente La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile (Adelphi 2014), Mecacci aveva stupito per la competenza non solo nel gestire una quantità enorme di documenti, scovarne di nuovi e associarli in maniera inedita, ma anche nel disporli abilmente in una narrazione dal sapore poliziesco. Neppure in quel caso si trattava solo di un saggio storico. Negli anni del “giglio magico”, così com’era giornalisticamente chiamata la corte che ruotava attorno a Matteo Renzi, le pagine della Ghirlanda fiorentina suonavano sinistre, perché raccontavano di una città con molte zone d’ombra e del rapporto opaco tra intellettuali e potere (di destra e di sinistra).
Con Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica Mecacci si conferma voce autorevole di oggi e anche tra le più originali nel proporre, in entrambi i libri, una sorta di “contropelo” alla Storia. Mecacci ha una biografia culturale e politica che lo lega, in maniera dialettica e anche duramente critica, alle vicende del Pci italiano. È perciò “da sinistra”, e soprattutto “sulla storia della sinistra”, che Mecacci conduce la sua lucida analisi, irrobustita dal desiderio di svelare, o almeno discutere ferocemente, alcuni tabù novecenteschi.
La Marina e il ’68
Ho studiato in un importante liceo classico di Roma, il Tasso, dove si è formata molta intellighencija romana e nazionale. Poi ho frequentato Filosofia all’università La Sapienza, iniziando nel 1965-1966. Ho visto, insieme a una mia compagna di liceo, gli attimi immediatamente successivi a quando fu buttato giù dalle scale il giovane Paolo Rossi. Ho partecipato alle occupazioni, come tanti ragazzi dell’epoca. Se penso a quel che ho fatto dopo – l’iscrizione al Partito comunista e i lunghi periodi in Unione Sovietica – è evidente che il percorso sia iniziato quando ero studente. Però in quel periodo ho passato anche due anni in Marina: è stata un’esperienza molto formativa perché ho conosciuto un ambiente completamente diverso che mi ha permesso di avere, lo dico con un po’ di presunzione, una visione più completa del mondo sociale, politico, culturale e a volte di essere prudente rispetto a certi movimenti. Ero critico verso gli atteggiamenti troppo spontaneistici. Se l’idea di aver rovesciato una camionetta della celere sembrava allora una conquista, io, conoscendo le possibilità di intervento delle forze dell’ordine – ero al Reparto operazioni dello Stato maggiore della Marina – capivo che poteva esserci una forma di autoinganno, di autoillusione. Mi sembrava una cornice che aveva previsto tutto e che includeva anche forme di tolleranza verso la contestazione, ovviamente fino a un certo limite, e questo limite era previsto e calcolato. Questo punto di vista mi distingueva rispetto, non dico ai dirigenti, ma agli altri compagni del Pci.
Lo svelamento dei tabù. Da sinistra
Quando a venticinque anni, nel 1972, arrivai in Unione Sovietica, all’Istituto di psicologia, che si trova davanti al Cremlino, rimasi impressionato dalle grandi istituzioni e dagli ingenti finanziamenti, ma anche dall’assenza di libertà di espressione e di informazioni. Ho continuato ad andare in Urss fino agli anni Ottanta e la situazione, dopo il disgelo del post-stalinismo, andava aggravandosi. Le cose stavano in maniera molto diversa dai racconti di Botteghe oscure. Dormivo nell’albergo dell’Accademia delle scienze, insieme ad altri undici stranieri, ero l’unico italiano. La mattina scendevo a fare colazione, ma non c’era nulla da mangiare. Prendevo la metropolitana e scoprivo una società ben lontana dalle rappresentazioni che ci arrivavano in Italia. I resoconti dei giornalisti di quegli anni erano falsi, ipocriti, sia da destra sia da sinistra. Da psicologo ho avuto diversi scontri con il partito. Te ne posso raccontare uno, che è documentato, e riguarda l’uso della psichiatria come strumento di repressione della dissidenza in Unione Sovietica agli inizi degli anni Settanta. Viene organizzato un convegno alla Scuola delle Frattocchie, nel 1978. Partecipano autorevoli personaggi della cultura del partito e poi alcuni giovani, compreso me. Allora curavo i libri di psicologia che uscivano per gli Editori Riuniti. Avevo pubblicato nel 1972 l’antologia L’inconscio nella psicologia sovietica, due anni dopo la seconda antologia La psicologia sovietica 1917-1936. Nel 1977 avevo invece pubblicato la mia monografia Cervello e storia con prefazione di Aleksandr Lurija, il grande psicologo, per me una figura fondamentale. La mia relazione s’intitola L’uomo nuovo sovietico, slogan negli anni dello stalinismo. Dico che l’uomo nuovo non si è realizzato in Unione Sovietica e che gli psicologi e i pedagogisti, cioè coloro che dovevano “costruire” quest’uomo nuovo, sono usati e si fanno usare per diagnosi di devianza così da giustificare l’internamento negli ospedali psichiatrici e la “riabilitazione” nei lager. La relazione fu, nonostante tutto, pubblicata insieme alle altre. In quel momento il Pci voleva staccarsi dall’Urss e aveva bisogno di persone che dimostrassero l’esistenza di una dialettica interna. Il problema grosso avvenne, sempre nel 1978, quando ci fu a Bucarest la conferenza di tutti i partiti comunisti dei paesi del Patto di Varsavia e di Francia, Italia e Spagna sui problemi della società contemporanea. Io rappresentavo il Pci. Consegno il testo agli interpreti. Prima del convegno arriva il traduttore rumeno che mi porta dal viceministro dell’Interno. C’è un problema, la relazione così com’è scritta non può essere pronunciata di fronte ai compagni sovietici. Rispondo, mentendo, che la relazione è stata approvata dalla direzione del partito e che non la posso cambiare. È stata una situazione molto imbarazzante. Poi si arrivò al compromesso di mantenere il testo integro togliendo il riferimento specifico alla realtà sovietica. Non gradirono, per lo stesso motivo, nemmeno a Roma.
Ho continuato ad andare in Urss fino agli anni Ottanta e la situazione, dopo il disgelo del post-stalinismo, andava aggravandosi
Manicomi e scuola
In quel periodo partecipavo a molte riunioni del partito sulla chiusura dei manicomi e sulla scuola. Per quanto riguarda la discussione su quella che sarebbe divenuta nota come “legge Basaglia” ero critico che si ragionasse su un piano essenzialmente teorico e non, complementarmente, su quello pratico. Una volta chiusi i manicomi che cosa sarebbe successo? Che cosa si prevedeva in concreto, ripeto in concreto? Sulla scuola ero ancora più critico, soprattutto rispetto a quella che allora si chiamò la “legge sugli handicappati”, e a proposito pure dell’abolizione delle classi differenziali. Si faceva riferimento a quel poco che si sapeva all’epoca delle opere di Vygotskij, in parte da me curate per gli Editori Riuniti. Intanto dicevo che nel caso di Vygotskij il progetto teorico si era sviluppato insieme alla sua realizzazione pratica. E poi Vygotskij sosteneva che il bambino handicappato avesse delle capacità, delle potenzialità che andavano studiate di per sé in un contesto specifico. Se oggi Vygotskij sentisse dire “non vedente” per cieco o “non udente” per sordo, salterebbe per aria. Perché per lui il bambino cieco va valutato e valorizzato per ciò che è, non per ciò che gli è “rimasto” rispetto al “vedente”, preso come parametro normativo. Altra cosa è la questione dell’integrazione sociale, dei rapporti umani, della crescita morale. E simile discorso potrebbe oggi valere per la società multietnica, si pensi alla grande presenza dei bambini di altre culture nelle nostre scuole. L’esempio fondamentale è la spedizione che Vygotskij e Lurija fecero nel 1931-1932 in Uzbekistan, di cui si seppe qualcosa solo dal 1972. La necessità era di offrire una scuola a tutti i cittadini dell’Unione Sovietica, ma il problema era che, oltre ai russi, vi erano gli abitanti delle coste del Pacifico, i lettoni, i georgiani… i cattolici, gli ortodossi i mussulmani… Agli inizi degli anni Trenta Stalin impose la lingua russa obbligatoria per tutti e la scuola unificata. Vygotskij e Lurija andarono in Uzbekistan, dove la popolazione era nomade, i bambini non avevano l’abitudine di stare fermi in un luogo fisso per la formazione, seduti sui banchi, non vi era nemmeno una lingua scritta realmente diffusa. Come organizzare una scuola? Evidentemente bisognava considerare queste caratteristiche specifiche. Invece il comitato centrale bloccò tutto, perché altrimenti si sarebbe differenziato, disarticolato, il modello unico della scuola. Quando cadde l’Unione Sovietica, crollò anche l’intero modello scolastico. Nelle varie repubbliche si ritornò alle proprie culture, alle proprie lingue. L’esperienza della scuola sovietica fu quindi solo una lunga parentesi. Questo fenomeno lo riscontriamo oggi anche in Italia e nei paesi occidentali, nei quali le varie comunità condividono alcuni princìpi e regole di massima, ma continuano a essere fedeli alla propria religione e ai propri valori che derivano da tradizioni millenarie.
All’inizio degli anni Ottanta uscii dal Partito comunista: non mi ritrovavo in molte prese di posizione su aspetti cruciali della società italiana, mi sembrava che si inseguisse il consenso immediato invece di delineare una progettualità di lungo periodo. Penso soprattutto alla scuola. A mio avviso i problemi attuali della scuola e della ricerca scientifica in Italia hanno origine in quegli anni quando il Pci e la sinistra appiattirono l’entusiasmo rinnovatore degli anni Settanta in una routine amministrativa.
Quando i numeri aumentarono e molti besprizornye divennero veri e propri delinquenti, intervenne Stalin che abbassò a dodici anni tutte le misure della giustizia penale
Besprizornye e pedagogia
Ciò che ricaviamo dalle esperienze pedagogiche, e in generale dall’esperienza comunista, nell’Unione Sovietica, e che ha qualche analogia con la società italiana degli anni Settanta, è pensare di risolvere sul piano ideologico-intellettuale quello che invece ha una problematica strutturale di fondo. Perché non regge il progetto pedagogico di Anton Makarenko? Perché i bambini besprizornye erano milioni e non c’era da mangiare. Un insegnante di questi orfanotrofi, lo si legge chiaramente in un documento, disse che era inutile che i funzionari del partito venissero a spiegare il governo sovietico, la parità dei sessi, la lotta di classe. I bambini avevano semplicemente fame. Quando i numeri aumentarono e molti besprizornye divennero veri e propri delinquenti, intervenne Stalin che abbassò a dodici anni tutte le misure della giustizia penale, compresa la pena di morte. Mi è stato fatto notare in un dibattito pubblico: ma Stalin che avrebbe dovuto fare? E sebbene certe decisioni non siano giustificabili, in qualche modo sono comprensibili. In Russia c’erano grandi pedagogisti, ma mancavano le minime condizioni materiali. La questione Makarenko sarebbe davvero lunga da affrontare. Però bisogna tenere presente che Makarenko innanzitutto operava all’interno delle Comuni dirette amministrativamente e controllate dal ministero dell’Interno. È come se Don Milani avesse operato nel carcere di Sollicciano. E poi Makarenko – anche la sua morte improvvisa è sospetta – avrà riabilitato qualche migliaio, forse dieci, al massimo ventimila bambini. Ma qui si parla di milioni.
Se non si tiene conto dell’infanzia, non si può capire cosa sia stata l’Unione Sovietica. La società russa fece molto per i bambini, ad esempio con gli asili nido per le mamme lavoratrici, anche se gli asili nido rispondevano più all’esigenza di far lavorare le donne, che non alle esigenze dei bambini. D’altronde tra guerre, lager e fucilazioni gli uomini erano pochi ed erano le donne che dovevano farsi carico dei problemi familiari. Oggi non riuscirei più a vedere la psicologia e la pedagogia sovietica senza considerare i milioni di besprizornye. In Russia ci sono libri e articoli sui besprizornye. Però di solito prevalgono le statistiche, i numeri, i dati scientifici. Nel mio caso ho voluto recuperare documenti che potessero il più possibile dare voce a questi bambini. Perciò ho inserito molti testi di poeti e letterati e anche interviste, testimonianze.
Negli anni Sessanta uscirono libri pensati per le elementari e le medie, che raccontavano il processo di emancipazione di alcuni besprizornye. Ma a me non interessava sapere se un bambino su un milione era diventato un generale o un grande funzionario del partito. Gli altri che fine hanno fatto? Oggi dire besprizornye è un’offesa, è come dire “negro”. Non se ne parla. Avevo un caro amico, allievo di Lurija, che quando gli ho chiesto dei besprizornye ha interrotto i rapporti. Molti hanno un parente che è stato un besprizornyj. Infatti non tutti sono morti nei lager. Tanti sono entrati nella società, piano piano, soprattutto nelle forze armate, e nella polizia. Ma in che modo i besprizornye hanno rappresentato una componente della società russa? È un argomento molto importante, da approfondire, e sarà interessante capirlo se il libro sarà recensito o tradotto in Russia.
Disegno tratto da Sniff di Antonio Pronostico e Fulvio Risuleo (Coconino press 2019)