Autunno caldo: un’agenda

Veniamo da un’estate di record di calore: la temperatura degli oceani è arrivata a +5° sopra la media, quella terrestre a +8/10°C; a fine luglio certe regioni d’Italia hanno visto picchi di 47°C. Il 3 luglio il pianeta ha raggiunto la temperatura media più alta mai registrata, 17,01°C – record poi battuto diverse volte nei giorni successivi. A inizio giugno abbiamo superato la soglia di +1,5°C rispetto all’era pre-industriale: solo per qualche giorno, però fa effetto.
Ma primavera ed estate, per l’attivismo climatico, sono state anche e soprattutto stagioni di record di repressione – almeno per gli standard europei.
L’inverno 2023 è iniziato con l’uccisione dell’attivista di ventisei anni Manuel Esteban Paez Teràn da parte di un poliziotto, mentre difendeva la South river forest ad Atlanta. Ad aprile in Italia il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che prevede sanzioni penali e multe da 20 a 60mila euro per chi distrugge o rende “inservibili” beni culturali e da 10 a 40mila euro per chi «deturpa o imbratta» questi beni. Era una risposta alle azioni di Ultima Generazione che negli scorsi mesi ha “imbrattato” con vernice lavabile il Senato e la fontana della Barcaccia a Roma, la statua di Piazza del Duomo a Milano, Palazzo Vecchio a Firenze. A giugno Città del Vaticano ha stabilito una sentenza che prevede 28mila euro di multa e 9 mesi di carcere per tre ambientalisti che si erano incollati con l’Attack alla base del Laocoonte. In Svezia Greta Thunberg e altri attivisti intanto rischiavano il carcere per resistenza a pubblico ufficiale mentre bloccavano l’ingresso e l’uscita del porto della cittadina di Malmo: alla fine dovranno pagare “solo” una multa.
Soprattutto, il 21 giugno il ministro degli interni francese Gérals Dermanin ha ufficialmente annunciato la dissoluzione del movimento Les Soulevements de la Terre, accusato di mettere a rischio “la sicurezza pubblica” in seguito agli scontri avvenuti a marzo scorso a Sainte-Soline, nella regione Deux-Sèvre, nel corso delle proteste contro i mega-bacini. Scontri durante i quali la polizia ha usato granate lacrimogene e pallottole flashball LBD (considerate illegali nella maggior parte dei paesi europei) provocando 200 feriti, di cui diverse decine molto gravi. A luglio in Val Maurienne i feriti sono stati una cinquantina. Nel mettere fuori legge l’organizzazione, il governo francese parla espressamente di “eco-terrorismo”. Deve aver pensato lo stesso il sindaco di Firenze Nardella (PD) quando a marzo davanti alle telecamere si è eroicamente lanciato contro un ragazzo di Ultima Generazione come si trattasse di un feroce criminale.
Da movimento ben tollerato da tutti i governi di centro o centro-sinistra più buonisti e moderati, quello ecologista, si è trasformato in una minaccia “terrorista”.
Com’è successo?
Davanti alle ennesime promesse accondiscendenti della politica – quel “bla bla bla” sottolineato da Greta Thunberg nell’ottobre 2021 –, i movimenti hanno cambiato fisionomia. Hanno smesso di fidarsi, hanno scoperto la rabbia. Non ne potevano più dell’impotenza, hanno alzato i toni. Non avevano più senso di esistere in quanto bianchi, educati, privilegiati: si sono internazionalizzati, amalgamati con altre lotte, sono diventati transfemministi, decoloniali, antirazzisti, antispecisti. Si sono in certi casi anche avvicinati ai lavoratori: il caso dell’alleanza fra Fridays for future e collettivo di fabbrica ex-GKN è fra gli esempi più belli, un altro è l’iniziativa sindacale “Plus jamais ça” in Francia, legata a Greenpeace e con azioni congiunte organizzate alla raffineria Total Grandpuits.
Ma basta pensare alla trasformazione di Greta, per vedere il cambio di grammatica: prima andava da sola ad affrontare i politici nelle stanze del potere, ora si fa arrestare più volte, insieme agli altri, in mezzo al fango di Lutzerath in Germania, mentre cercano di bloccare l’espansione di una miniera di carbone a cielo aperto. E chi ha bisogno di petrolio saprà che nell’Africa Orientale gli attivisti stanno bloccando con ammirevole efficacia il progetto Total di un oleodotto, l’EACOP, che dovrebbe attraversare Uganda e Tanzania, minacciando di sfollare migliaia di persone e mettendo in pericolo ecosistemi importanti come quello del lago Vittoria. La protesta è partita da Kampala ed è dilagata ovunque: dal Sud Africa all’Europa, al Giappone, poi Hoima, New York, Toronto, Goma, Vancouver. Il risultato per ora è che quattro banche e venti compagnie assicurative si sono tirate fuori dal progetto. Ma si protesta anche contro i mega-bacini in Francia: perché privatizzano l’acqua. O contro le pale eoliche in Norvegia, se poste su terra indigena. O contro le miniere di litio, in Serbia come in Argentina.
Insomma, i movimenti ecologisti hanno cominciato a fare paura, perché – in gran parte – hanno capito che quelle promesse accondiscendenti, quando non espressamente ignorate, prendevano la forma di capitalismo verde. E quelle promesse, quel capitalismo fossile o verde che sia, non sono le risposte che cercavano. Quando si ha un desiderio, a volte ci si mette un po’ a dargli forma, a capire esattamente cosa si desideri. Ecco, nel passaggio fra il desiderio generico di non vedere il mondo in fiamme e l’aver capito che questo implica rovesciare completamente sistemi di priorità, valori, poteri – in quel passaggio gli ecologisti hanno cominciato a fare paura. E sono diventati terroristi. Ed è arrivata la repressione.
Forse c’è un legame fra questa recrudescenza di repressione, questo incattivirsi non solo delle destre apertamente sostenitrici del fossile ma anche della schiera riformista del capitalismo verde, e la necessità di confronto e convergenza che emerge nell’agenda autunnale dei movimenti ecologisti di tutto il mondo.
Fra il 12 e il 15 ottobre a Milano si terrà il primo World Congress for Climate Justice (WCCJ). È un’iniziativa spontanea, nata dal basso, che si propone di riunire fra le aule dell’Università Statale e gli spazi del Leoncavallo movimenti del climattivismo radicale di tutto il mondo. Il comitato organizzativo con base a Milano è composto da esponenti di Ecologia Politica, Off Topic, Fridays for Future, Ultima Generazione, Extinction Rebellion ma anche Comitato Acquapubblica, OurVoice (che si occupa di mafie e quindi anche di ecomafia), e poi collettivi studenteschi e spazi sociali: con l’idea che nella lotta ecologista si uniscano in realtà tutte le lotte, da quelle per il diritto alla casa a quelle contro le mafie, e che l’ambientalismo non possa che essere transfemminista, antirazzista e decoloniale.
Hanno aderito Climáximo e FFF dal Portogallo, Common Ecologies e Stay Grounded dall’Austria, Ende Gaelende International e ums Ganze dalla Germania, e poi Rise-up movement Africa dall’Uganda, Convergence Gobale des Luttes pour la Terre, Eau et les semences paysannes Ouest Afrique dall’Africa Occidentale, Defend Atlanta Forest e il Public Power New York movement dagli Stati Uniti, El Sur resiste dal Messico, colectivo YASunidos dall’Ecuador e altri ancora. Delegati da tutto il mondo e da movimenti anche molto diversi e lontani fra loro si riuniranno in seminari e assemblee per parlare di strategie comuni. Costruire rapporti di solidarietà e sinergia è sempre più urgente e per farlo c’è bisogno di incontrarsi, confrontarsi e contaminarsi.
Negli stessi giorni si terrà anche il Counter-Summit of social movements di Marrakech: un contro-vertice dei movimenti sociali concomitante all’incontro annuale in Africa di Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. A Marrakech si discuterà dell’ingiusto sistema monetario internazionale e di come raggiungere la giustizia climatica, a ribadire come questi discorsi siano legati a doppio filo. Il Counter-Summit è organizzato da CADMT (comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi) ed è previsto un collegamento online con il WCCJ venerdì 13 ottobre. A livello globale, il tema della cancellazione del debito, anche a fronte del debito in forma di emissioni che dovrebbe invece pesare sui paesi occidentali, si fa sempre più forte ed era già stato portato lo scorso anno a Cop 27. Sarebbe interessante se il ponte fra WCCJ e CADMT portasse anche l’attenzione dell’ecologismo occidentale su questo tema.
Di appuntamenti comunque ce ne saranno diversi in autunno. La stagione in Italia si apre con il Venice Climate Camp dall’8 al 10 settembre incentrato sull’opposizione alle Olimpiadi di Milano Cortina 2026, che si preannuncia una delle questioni centrali dell’autunno e dei prossimi anni. La Francia riprenderà le lotte contadine e rurali attraverso una protesta su più giorni contro la costruzione di un enorme deposito nucleare nella regione del Grand Est. La Germania dal 5 settembre aprirà con una protesta contro la produzione di automobili (in generale, anche elettriche). Il 15 settembre sarà il momento del Global Climate Strike organizzato da Fridays for Future e il 6 ottobre, a pochi giorni da WCCJ, seguirà lo sciopero per il clima di Fridays Italia. Per fine ottobre in Inghilterra è prevista un’ampia mobilitazione di Just Stop Oil, a Roma un appuntamento nazionale di Extinction Rebellion Italia. Altri appuntamenti sono in via di definizione.
A novembre sarà il momento della Cop28 di Dubai: già nella tana del lupo, sarà addirittura presieduta dal direttore generale della principale agenzia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti (ADNOC). Anche la Cop 27 in Egitto era stata molto problematica per lo scarsissimo margine di protesta lasciato agli attivisti e per lo stretto controllo riservato ai giornalisti, ma la Cop di quest’anno si preannuncia ancora più chiusa ai movimenti di lotta per il clima e scandalosamente aperta alle lobby fossili. Una Cop che si terrà subito dopo questi momenti di convergenza potrebbe gettare benzina sul fuoco di una rabbia già accesa e forse resa più fertile da mesi densi di eventi e condivisione di cause, idee e lotte. Impossibile saperlo con certezza, ma le condizioni per una nuova impennata di attivismo ambientalista sono buone.
È probabile che contemporaneamente le maglie della repressione continuino a stringersi. Se ci si espone a decine di migliaia di euro di multa per della vernice su un monumento o per un blocco stradale, non rischia, per esempio il governo italiano, che gli attivisti decidano che tanto vale alzare i toni? Spesso la repressione è riuscita a spegnere i movimenti, basti pensare al G8. La crisi climatica però avvicina talmente tante cause apparentemente lontanissime nel merito e nello spazio, dissoda così profondamente certezze che parevano inscalfibili, persino il produttivismo che non veniva troppo attaccato nemmeno dal marxismo, ha un orizzonte così concreto e prossimo, fra isole come Tuvalu già prossime alla sparizione e siccità, ondate di calore e alluvioni che sperimentiamo in tutto il globo sempre più spesso, in Emilia Romagna come in Pakistan o in Nigeria, da poter essere considerata una lotta diversa dalle altre. E anche il Covid forse ha aiutato a rendere un filo meno necessario il postulato di fisheriana memoria secondo cui sarebbe più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo.
Anzi, ora che dentro la “fine del mondo” (come lo conosciamo, con le regole e gli equilibri che conosciamo) un po’ ci siamo già, forse si vede più nitidamente come questo sistema produttivo, economico, di priorità e valori sia dannoso e non necessario. Speriamo che i momenti di incontro e confronto previsti in autunno siano occasioni per discutere della possibilità di altro, del fatto che non si lotta solo contro qualcosa ma anche per qualcosa: per la bellezza del pianeta in cui viviamo ma anche per vivere vite migliori tutti, vite non estrattiviste ma basate sulla cura – cura della terra tanto quanto dell’umano.
Sarà interessante anche vedere, in questo autunno denso, davanti a questioni così immense e delicate insieme, dove si collocherà tutto quell’attivismo che finora ha tenuto i piedi in due scarpe, appoggiando progetti come la transizione all’auto elettrica in Europa al 2035 senza guardare sotto il tappeto delle terre rare estratte in territori non europei; senza chiedersi con cosa verrà prodotta tutta la plastica che sarà necessaria; senza chiedere invece (se i governi sono l’interlocutore) di ripensare tutto il sistema, di immaginare, per esempio, un enorme sharing europeo, in modo che non servano quasi più macchine personali e riducendo infinitamente la produzione, anziché aumentarla. Tutto quell’attivismo insomma che finora non si è sbilanciato troppo e si è convinto che per salvarsi (almeno nel nord del mondo) sia auspicabile mantenere questo sistema di produzione e consumo, sostituendo solo il fossile con l’energia “pulita”.
Forse sarà tempo di chiedersi anche se poi i governi sono sempre il giusto interlocutore, se presentare “richieste” a chi non le ha mai ascoltate sia poi così utile, o se invece guardare ai risultati interessanti ottenuti in Uganda contro l’oleodotto Eacop.
Come si dice spesso, in una lotta immensa e sfaccettata come questa serve tutto, o quasi tutto.