Atto di scrittura. Un saggio di Ginevra Bompiani

C’è, in L’altra metà di Dio, il saggio che Ginevra Bompiani ha dato di recente alle stampe, una formidabile dichiarazione di guerra alla scrittura. “La scrittura” afferma l’autrice “è l’alleato più potente che il mondo maschile abbia avuto. Ha reso possibile, stabile e creativa la patriarcalità. L’ha resa anche poetica”. Ma la scrittura, praticata da Bompiani con un’eleganza, una perspicacia e una passione di conoscenza che non mi pare abbiano uguali nella produzione saggistica italiana di questi ultimi anni, sembra smentire proprio quell’assunto categorico.
Cos’è dunque che alla scrittura viene rimproverato e cosa a essa riconosciuto nelle pagine di un testo che arditamente si dà per titolo alcune parole che l’uso ha nel tempo usurato, “l’altra metà di Dio”, vale a dire il femminile o meglio la potenza femminile e la sua familiarità con il sacro o il divino che, non solidificati nella scrittura, svaniscono, evaporano o muovono altrove? Se l’oralità è la lingua che accoglie la fluidità dell’esperienza, il perpetuo divenire dei corpi, la vicenda metamorfica della specie umana, la scrittura li pietrifica, li imbalsama, convertendo in ombra quella “metà” e ammutolendola. Le storie non tramandate dalla scrittura non diventano Storia e al più persistono come un alone attorno a essa, facendosi mito, ma anche brusio, diceria o altissimo silenzio. Segno che non significa se non attraverso il proprio tenace permanere, crittografia di una lingua perduta.
È per queste storie cancellate, di cui le tracce appaiono a tratti sotto l’intonaco stratificato della Storia, che l’autrice dichiara il proprio interesse. Per le storie, non per gli archetipi. Per le metafore, non per i simboli. Perché ciò che le sta a cuore è il nostro immaginario, “capire come sono nate certe nozioni che quasi non sappiamo di avere, in che modo si sono incrostate nella nostra mente e nel nostro corpo”. Di quante coltri di polvere è andato ricoprendosi il nostro immaginario, a quali soppressioni è stato esposto, quali mutilazioni ha subito, per approdare al triangolo mortifero di cui siamo tutte/i oggi prigionieri, un triangolo ai cui vertici ci sono le figure non più apocalittiche, ma reali, della distruzione (nella sua forma creativa, meglio nota come “progresso”), della punizione e della mistificazione.
In apertura del “ri-epilogo” che sigilla il testo, Bompiani dichiara: “Questo libro nasce dall’ansia”. E l’ansia – la sua, ma probabilmente anche quella di noi lettrici e lettori – nasce dalle “ombre del contemporaneo” che, al pari di lei, sentiamo “dense sopra la nostra testa”. Sono ombre politiche, va da sé, ma la Politica, come la Storia, non basta a spiegare perché il monco pensiero e le zoppe emozioni che ci muovono siano andate incrostandosi nel nostro immaginario. Che cosa è andato perduto e perché, in un mondo che pensa il tempo come una freccia scoccata verso il futuro, la vita come un bene riservato ai pochi, la natura come una riserva da saccheggiare, la forza come un diritto e la debolezza come una colpa? Senza mai dichiarare apertamente il proprio debito/adesione nei confronti della teoria e della pratica femministe o dei movimenti ambientalisti, l’autrice ci propone un’ipotesi che ha a che vedere con entrambi, suffragandola con una messe incantata di storie, miti, favole, narrazioni tratte dalle culture e dalle religioni a lei familiari. “La possibilità che sia esistito un mondo in cui i valori maschili non sopraffacevano quelli femminili”.
Che non si tratti dunque di immaginare un altro mondo possibile, ma di ricostruire, al buio e aprendosi un varco nel silenzio in cui si è inabissato, un altro mondo che già è esistito.