Assistiti e assistenti, un nuovo ciclo
Parole stridenti
Vi sono parole che stridono nella mente con una capacità di evocare mondi e storie, teorie e concetti, emozioni e turbamenti, racchiudendo in sé il potere di rappresentare realtà complesse. Assistiti e Assistenti sono parole che m’inquietano. Ho incontrato il sociale in anni e in contesti in cui parlare di assistiti e assistenti richiamava mondi tra loro conflittuali. Alla fine degli anni Settanta ci si impegnava in esperienze e sperimentazioni di contrasto all’istituzionalizzazione come ricovero totale, dove la condizione di assistito si presentava come dipendenza totale dall’assistente. Ricordiamo tutti le proposte e le esperienze nate con Basaglia in ambito psichiatrico e quelle della Comunità di Capodarco con le persone con disabilità, finalizzate ad appianare questa relazione conflittuale e a dare dignità umana e professionale ad assistiti e assistenti.
Dopo aver trascorso l’adolescenza in un gruppo scoutistico, mi sono ritrovata a vivere in una comunità di persone con disabilità che lottavano per conquistarsi una vita dignitosa e di giovani in cerca di scelte di senso, tali da rendere ragione allo slogan con cui eravamo cresciuti nello scoutismo: “lottare per restare, restare per costruire”, anche in Calabria. Tra giovani e persone, con e senza disabilità nasce un’alleanza forte e trasgressiva verso un futuro che sembrava richiederci uno sforzo d’immaginazione, l’audacia di osare a mutare norme, comportamenti e relazioni sociali, e il mettere in campo energie creative per intraprendere esperienze singolari e concrete. Un laboratorio di sperimentazioni e ricerche e una fucina di incontri, dibattiti sui massimi sistemi e sulle vite quotidiane. Inimmaginabile, all’epoca, pensarsi assistenti e assistiti, specialisti e malati. Alla ricerca di nuovi linguaggi si evitavano definizioni.
È cosi che mi imbatto, da giovane calabrese, nel tema dei diritti: parola dura e urtante, pretenziosa e altezzosa che si arroga il potere di affrancarsi da una cultura basata sulla subalternità e nel meridione anche sul clientelismo. La solidarietà era il tema col quale eravamo stati formati, accomunandoci a tanti altri giovani, in Italia e nel mondo, inseriti in movimenti educativi e sociali. Mentre i diritti sono stati per me una grande scoperta, intrufolati nella mia mente nei giorni in cui insieme ad alcune persone disabili abbiamo occupato la direzione dell’Unità Sanitaria Locale, trascorrendovi anche delle notti, per ottenere il diritto alla riabilitazione, un diritto sancito per legge. Scontri, conflitti, denunce ai tribunali, la determinazione a pretendere un diritto (perché i diritti nessuno te li regala), rappresentarono per me il vero inizio di lotta a una cultura di sottomissione e di retaggi feudali di cui la mia terra era imbevuta. Un conto era vedere le diseguaglianze dal punto di vista delle passate esperienze di solidarietà, altro era aggiungerci la comprensione dei diritti sociali che davano dignità, uguale trattamento per tutti, libertà di sviluppo umano.
La Calabria assistita “senza dignità” si raffigurava in alcune immagini di abbandono molto forti: strutture per disabili dai muri fatiscenti, strutture che avevano avuto come “assistenze” degli aiuti finanziari, ma che non erano state mai accompagnate verso una propria autonomia, spesso avviate attraverso megaprogetti senza il presupposto della creazione di un sistema territoriale di politiche sociali capaci di garantirne la continuità. Quella cultura arcaica, clientelare e familistica permeava anche le relazioni tra chi assumeva il ruolo di “assistente” e chi quello di “assistito”. Ho davanti agli occhi immagini di assistenti con i camici e di disabili vestiti con stracci, soprattutto quando questi, come accade nella disabilità mentale, non hanno consapevolezza e parola per pretendere un abito adatto alle proprie misure. Gli assistenti spesso non avevano titoli di studio o una formazione adeguata, risultando incapaci di stabilire relazioni umane e professionali fondate sulla dignità. D’altra parte anche tante persone con disabilità si ritrovavano prive di strumenti culturali, sociali e familiari che li tutelassero da abusi e soprusi.
E se la dipendenza fosse una relazione che…
Il tema della dipendenza ha caratterizzato lunghe riflessioni fatte con molti amici provenienti da realtà della disabilità e da organizzazioni internazionali, come Dpi (Disabled people’s international). Molte ricerche, a partire dalle biografie e dalle storie delle persone con disabilità e delle organizzazioni, hanno affrontato il tema delle relazioni di dipendenza. In particolare si approfondiva la possibilità di costruire, anche con la disabilità, una vita indipendente attraverso il supporto degli assistenti personali. Si analizzava quanto e come ci si potesse sentire “indipendenti” rispetto al proprio assistente. “Quanto quest’assistente va tenuto a bada affinché non pretenda di governare coi suoi orari e i suoi tempi la mia vita? Saprò io come devo essere presa dalla carrozzina, o forse lui crede di padroneggiare meglio il mio corpo? Ma, d’altronde, la mia vita sarà mai indipendente senza qualcuno che decida di essere il mio assistente? Come possiamo promuovere servizi innovativi che ci aiutino ad ‘abitare in autonomia’ senza mettere in gioco figure, come gli assistenti, che accettino di lavorare in modo diverso, con orari differenti da quelli standard, con una capacità di ascoltare i bisogni che esprimiamo?”. Nasceva la consapevolezza di un percorso di cambiamento da fare insieme. Gli assistenti dovevano diventare anch’essi protagonisti di quei processi di innovazione riguardanti i servizi di promozione dell’autonomia sociale, lavorativa, abitativa delle persone con disabilità.
Molte di queste esperienze ci hanno portato a ragionare e a scriverci sopra. Nella mia esperienza di vita in comune gli episodi di dipendenza e indipendenza si incrociano con le tante interdipendenze quotidiane. E così i principi di libertà e autodeterminazione delle persone si intersecano nell’azione e nella pratica quotidiana con l’evidenza del limite e del riconoscimento reciproco, una specie di inter-indipendenza. La dipendenza quando pone domande apre al conflitto, e il conflitto, se ben sostenuto, può generare opportunità trasformative. Le relazioni tra assistenti e assistiti contengono in sé un potenziale legame di inclusione sociale, così come se lasciate alla rigidità dei ruoli e al mutismo inespressivo, all’incapacità di prendere parola e di attivare processi di dialogo e di responsabilità reciproca, conducono all’inaridimento e alla solitudine personale e professionale, nonché alla rappresentazione sociale dell’inutilità o della pochezza di ciò che si fa nel lavoro sociale e di cura.
Dipendenza viziosa o virtuosa? Vi sono delle dipendenze vitali, necessarie, che supportano e sostengono lo sviluppo, ma vi sono anche dipendenze mortifere che smorzano qualsiasi sforzo di affrancamento verso la crescita e la produzione di benessere sociale. In Calabria, queste dipendenze si sono incuneate in quelle forme clientelari e familistiche fatte di lacci, lacciuoli e stringhe che hanno prodotto – nei sistemi della pubblica amministrazione e in quei luoghi in cui si dovrebbe governare la programmazione delle politiche e dei servizi sociali – forme di ricatto, relazioni di dipendenza mortificanti, distribuzione di benefici particolaristici per il mantenimento di consensi e di legami subalterni. Assistenti e assistiti si sono strutturati in ruoli “burocratizzati”, ad esempio: gli uni gestendo i servizi come fossero elargizioni, per ricevere consensi o piccoli poteri, e gli altri, a causa di un bassa cultura del senso civico, ritenendo che un’assistenza domiciliare o una terapia riabilitativa fosse un favore da richiedere a un funzionario o dirigente del servizio pubblico e non un diritto.
Operatori sociali e operatori di advocacy
Nella Calabria dalle mille contraddizioni, col tempo, si affacciano esperienze di innovazione, spinte anche dalle aggregazioni di persone con disabilità insieme a familiari e gruppi del terzo settore, e si introducono pratiche che a volte hanno la forza di assurgere a rilevanza nazionale e anche internazionale. L’Università della Calabria è stata la prima in Italia ad aver introdotto la consulenza alla pari tra persone con disabilità (i cosiddetti peer-counselor) al fine di sostenere i processi di inserimento degli studenti universitari con disabilità. I primi provvedimenti regionali sull’assistenza di aiuto alla persona sono state deliberate dalla Regione Calabria, e così le sperimentazioni di servizi per “abitare in autonomia”. L’attivazione di reti internazionali tra donne con disabilità e il coordinamento dei centri per la vita indipendente, la formazione di operatori di advocacy e i primi servizi e gruppi nati per la promozione di azioni di advocacy vengono organizzati dai movimenti delle persone con disabilità in questa regione. Insomma, anche la Calabria ha esperienze significative da cui poter apprendere.
Accanto alle storiche figure professionali, negli anni Novanta si delineano due nuove figure nell’ambito dei servizi di aiuto alla persona: gli operatori sociali pian piano si professionalizzano e si articolano nel dare risposte specifiche ai differenti bisogni delle persone; gli operatori di advocacy, sostenuti dai movimenti delle stesse persone con disabilità, acquisiscono competenze promuovendo empowerment nelle persone e nei gruppi e tutelandone i diritti. In sostanza, assistenti e assistiti assumono nuovi ruoli, si professionalizzano e si specializzano; talvolta collaborano ma per lo più si posizionano su ambiti e settori di intervento diversificati. Ciascuno nel proprio ambito e settore apprende metodi, tecniche, competenze, capacità di relazione, modelli organizzativi.
Sono anni che mi ritrovo a fare formazione e consulenza agli operatori sociali, a insegnare agli studenti universitari “come fare il lavoro sociale”, a ricomprendere le relazioni di aiuto tra assistenti e assistiti quando il welfare tradizionale viene ridefinito da parole come big society, prosumer, cliente, presa in carico, eccetera; a portare avanti ricerche e studi con donne, con responsabili di organizzazioni e movimenti di persone con disabilità, sui temi dell’empowerment e dell’advocacy, sulle politiche per la salute e le pari opportunità. Anch’io mi barcameno tra ricerca e operatività, interpellata e coinvolta da assistenti e da assistiti.
Ma chi mi sta “smantellando”?
Siamo arrivati al presente, a oggi, dove la prima sensazione appare quella di un ritorno indietro, di una spoliazione di ciò che col tempo ci pareva acquisito. Il lavoro sociale entra in crisi tra dibattiti e riflessioni: ci si chiede se tale crisi sia riferibile puramente a una questione di scarsità economica o di finanza alterata, oppure dovuta a un ritorno di teorie e speculazioni che ignorano o giustificano le diseguaglianze nel Paese. Le risorse economiche di fatto diminuiscono, tanti perdono il lavoro o faticano a trovarlo, si assiste a continui tagli in diversi settori occupazionali. Ma il lavoro sociale avverte qualcosa di più insinuante: la perdita di valore di ciò che esso è. Forse si ritiene che possa essere eliminato, smantellato, reso insignificante? In questo caso l’assistente perde non solo il lavoro ma anche l’identità professionale, le motivazioni e gli investimenti su cui ha costruito una vita. E gli assistiti si trovano a ricadere nel baratro della povertà e dell’umiliazione del divenire, di nuovo, oggetto di carità pelosa (con nuove forme, ma uguali nella sostanza), precipitando nell’impossibilità di influire sulla propria vita, deprivati da risorse adeguate per poter “stare al mondo” (tramite le cure e l’assistenza) e parteciparvi prendendo parola come qualsiasi cittadino. La brutta sensazione è quella di assistere alla dilapidazione di patrimoni, svenduti senza ritegno e senza preoccuparsi per le vite presenti in quei patrimoni.
In una Calabria travagliata si fluttua tra tagli a voci del bilancio regionale in cui vengono quasi annullate quelle riferite al sociale e sospetti di “finte economie”, tra spostamenti “ballerini” da un capitolo a un altro, tra la chiusura di servizi territoriali per aprire nuove Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) in cui si ritorna ad accumulare assistiti dentro colossi murari e a scaricare il problema sulle famiglie già appesantite dalla crisi. Tutto ciò con grande lungimiranza (!) sul futuro di bimbi e ragazzi a cui vengono tolte chance di vite migliori. E si sa che a essere poveri fin da piccoli si avranno conseguenze negative per tutta la vita con poca o nulla scolarizzazione, peggioramenti nelle condizioni di salute, bassa professionalizzazione lavorativa. Tutto ciò, ancora, con pericoloso rallentamento delle pratiche di debellamento delle culture mafiose che ancor di più trovano spazio per elargire protezione alla popolazione bisognosa e ricattabile. E anche in altri luoghi, come l’università, vengono chiusi corsi di laurea per professioni sociali per essere trasformati in altro: sono scelte lungimiranti o leggi di mercato? Si spengono laboratori di ricerca e studio sul lavoro sociale che avevano visto solo pochi anni addietro un potenziale di cambiamento e di sviluppo economico e sociale.
Che fare?
Una bella domanda da porsi. Ma forse ancor prima potremmo provare a capire. Lo scenario per assistenti e assistiti si prefigura come una vita da “precari” sulla quale costruire un futuro faticoso. Uno dei rischi su cui porre l’attenzione è l’iniziare a pensarsi impotenti e incapaci di influenza sui processi sociali in atto, assorbendo la crisi in modo solitario e assumendo comportamenti depressivi e da sconfitti. Per entrambe le categorie di assistenti e assistiti, posizionarsi in una condizione di isolamento fa scivolare lentamente in una sfera di marginalità, chiamandosi fuori. Un altro rischio è quello di pensare di poter riuscire a difendere le posizioni raggiunte, arroccandosi nel mantenimento di ciò che individualmente, come servizio o come organizzazione, si è conquistato negli anni, salvaguardando solo i propri diritti. In altro modo, in generale, tutelare i propri diritti soggettivi significa anche saperli collocare in forma dialogante con quelli delle tante altre persone che contemporaneamente potrebbero trovarsi in condizioni di marginalità ed esclusione. Non è più tempo di arroccamento sui diritti come privilegi di singoli, con occhi puntati solo su se stessi, ma di agire con la visione della cittadinanza a salvaguardia della convivenza sociale e dei legami di un territorio. Il lavoro sociale non appartiene agli assistenti e agli assistiti o alle loro famiglie. Bisogna che lo si collochi nei contesti sociali e territoriali per ricomprendere come affrontare sofferenze e disagi e tutelare e promuovere i diritti. Insomma siamo chiamati a promuovere cittadinanza per tutti, dove è necessario prendere la parola e far sì che anche altri la prendano; costruire competenze di cittadinanza perché questa possa essere agita. C’è bisogno di comprendere, riflettere insieme, allargare il cerchio delle persone con cui confrontarsi, fare ipotesi, elaborare e magari anche lavorare su se stessi per distanziarsi da alcuni modi di vedere che non vanno più bene e che oggi non sono nemmeno realizzabili, ma che ci ostacolano nell’intravedere altre possibilità di vita.
Eugène Enriquez, psicosociologo francese, ci sprona a non perdere di vista il pensiero: la crisi per essere affrontata ha bisogno di pensiero; pensiero capace di trasgredire l’esistente, senza farsi bloccare. Sostiene che la trasgressione, o meglio le pratiche trasgressive – che non vanno confuse con le perversioni o gli atti illeciti – sono oggi difficilmente praticate. Ovviamente non tutte le trasgressioni hanno una valenza ed esiti trasformativi, infatti alcune sono rituali (ricordiamo la frase tratta dal romanzo Il Gattopardo: “cambiare tutto per non cambiare niente”), altre sono trasgressioni autentiche capaci di stravolgere e ri-costruire.
Ho la sensazione che si stia attivando un nuovo ciclo in cui la trasgressione potrà tradursi anche nel cominciare a rompere i recinti esistenti tra mondi che finora hanno poco dialogato e lavorato insieme. Per fare tutto questo vi è bisogno che assistenti e assistiti si liberino anche di quelle “gabbie” mentali che impediscono loro di pensarsi e proiettarsi nel futuro con modalità differenti da quelle che già conoscono; che aprano delle brecce e costruiscano passaggi che li aiutino a transitare. Tuttavia non si nega che ci siano, contemporaneamente, da reggere anche incertezze e insicurezze dentro se stessi e verso gli altri. Credo che sia bene dialogare insieme anche sulle paure e sulle ansie, senza farsi travolgere da queste, ed entrare in relazione con altre realtà, imparare da altri mondi.
Il contesto di vita, dove sto al mondo, mi ha portato in questi tempi a riflessioni collettive, alla costruzione di relazioni tra assistenti e assistiti insieme ad altre realtà e ambiti di vita. Ho visto, così, intersecarsi mondi differenti. Ho visto piccoli agricoltori che inseriscono persone con disabilità nelle proprie aziende; operatori sociali e sanitari che si interfacciano coi familiari e organizzano mercati della frutta, promuovono gruppi di acquisto per vendere i prodotti di queste aziende; società che operano nel settore ambientale che fanno partneriati con pubbliche amministrazioni e piccole imprese non profit gestite da persone rom e disabili mentali; una finanza etica che dialoga con tali mondi per dar vita a microcrediti o per fondare sistemi di comunità, a partire da diversi soggetti della società civile per produrre lavoro, cura e assistenza; figure del mondo agricolo locale costruire società agricole in Uganda insieme a donne africane. Insomma, se c’è una cosa che ho compreso è che non è più tempo di fossilizzarsi in modo solitario su letture, ricerche e pratiche da parte degli assistenti (incentrati sulla propria professione e disciplina), e nemmeno che gli assistiti si trincerino in difesa delle proprie lobby. Bisogna piuttosto mobilitare processi collettivi, creare connessioni, tessere reti tra vicini e lontani.
In Calabria non è mai esistita un’età dell’oro. La crisi attuale non fa che rendere più visibili contraddizioni, fatiche, scelleratezze. Anche qui, a sud dell’Europa e a nord delle coste africane, possiamo e dobbiamo misurarci coi cambiamenti. Questi non evocano sempre certezze di miglioramento, di sicurezza per il futuro. Ma, riprendendo un concetto di Jürgen Moltmann oggi, qui, da questo luogo dove sto scrivendo, non posso non avere come riferimento un’Etica della Speranza (Queriniana 2011) e questa si declina tra il resistere e l’anticipare. Per “resistere” intendo qui l’intraprendere forme partecipate di resistenza umanistica, tra assistenti e assistiti, esercitandoci a coinvolgere cittadini vicini e lontani nello sviluppo di strategie di cura e di sostegno; sostenere i conflitti sociali con l’accortezza di non cadere in connivenze e protezioni di chi gioca a trappole e nascondini per esorcizzare gli effetti della crisi o tutelare gli interessi individuali e di singoli gruppi. Per resistere dobbiamo aumentare gli sforzi, riconoscendo i nostri limiti, nel prendere parola e articolarla, nel fare pressioni – ad esempio nei confronti delle amministrazioni e dei decisori politici, debitori di trasparenza nei confronti di assistenti e assistiti – pretendendo trasparenza su ciò che tagliano al sociale; ampliare la partecipazione nella definizione delle priorità nelle programmazioni dei servizi e delle finanziarie. Per “anticipare” intendo qui attivare nuove forme auto-organizzate di convivenza sociale tra assistenti e assistiti, in cui questi ultimi siano sempre meno utenti e più cittadini e gli assistenti più cittadini e meno specialisti; inventarsi pratiche mutualistiche che mettano insieme fasce di vulnerabili accompagnandole in processi di partecipazione e di autoaiuto per fronteggiare insieme le difficoltà sociali ed economiche che devono sostenere quotidianamente. Prevedere e anticipare alcune possibilità future, ci richiede di mettere insieme generazioni e culture differenti, risorse sociali ed economiche (anche se poche) e puntare a innalzare il livello della responsabilità civile e politica verso il futuro di tutti.