Après nous le déluge?
traduzione di Emanuele Dattilo
Recuperiamo da un vecchio numero di “Esprit” del gennaio 2017, una delle poche riviste europee ancora vive, e cioè presenti ai nuovi tempi, che aveva per titolo “Où sont les prophètes?”, il breve editoriale che lo introduceva. L’argomento è appassionante, e ci torneremo.
Mai come ora ci sembra che tutto possa accadere e di non avere alcuna presa sul mondo a venire, sulla storia in corso. L’aver rinunciato alle grandi fedi, che vantavano una storia ben migliore, non è certo una novità. Il nichilismo ci tormenta dalla fine del diciannovesimo secolo, e la grande narrazione secolare se la passa anch’essa piuttosto male, mentre la religione riprende piede sotto forme esplosive e apocalittiche. Inoltre, questa perdita di un rapporto felice con il tempo – qualora sia mai esistito – si accompagna alla constatazione del sentimento di impotenza di fronte alla storia che scorre sugli schermi. O si guarda la storia come regressiva, con la tematica dell’antropocene, per cui l’attività umana di dominio della natura porta danni irreversibili per la terra, e rappresenta una minaccia mortale per l’umanità che la abita; oppure si subiscono i colpi degli avvenimenti successivi al 2001 (Aleppo, Brexit, Trump…) come fossero catastrofi storiche accidentali, che ci appaiono ancora peggiori in quanto soccombiamo di fronte al flusso dell’informazione continua e delle previsioni. Noi siamo dei sondatori permanenti, e ciò vale tanto per la politica quanto per il mercato, ma la storia è più che mai imprevedibile, e dunque ingovernabile. La potenza tecnologica, che non conosce altro linguaggio se non quello dell’innovazione esacerbata, va di pari passo con un sentimento di impotenza, condiviso da coloro che non soccombono di fronte ai deliri scientisti.
Dobbiamo decretare una disfatta ideologica, quando gli intellettuali – ormai confusi con gli esperti in economia – non sono affatto più fulgidi e gloriosi delle politiche? Una volta constatato che gli ideologi sono entrati nei circoli del potere dobbiamo interrogarci sul nostro desiderio di dare un senso alla nostra storia presente. Tra il mondo dei grandi racconti indeboliti e quello dei piccoli racconti narcisistici, che sono il premio di ciò che chiamiamo oscuramente “postmodernità”, non c’è altro da immaginare, non ci resta che accontentarci di tutti i deliri tecnologici che non conoscono altro se non l’uomo “profetico” annunciato da Freud circa un secolo fa?
Rivista piuttosto ottimista negli anni novanta, gli anni che hanno seguito la caduta del Muro e propugnato lo slogan di un nuovo ordine mondiale, mentre il mercato imparava a coabitare con i regimi autoritari (Singapore, Cina, Turchia, Emirati, Arabia Saudita…), da qualche anno “Esprit” ha consacrato alcuni approfondimenti all’apocalisse e alla catastrofe. La riflessione che proponiamo in questo numero, e che tocca specificamente i profetismi religiosi e non, non vuole essere un remake dei precedenti né proporre un catalogo di veri o falsi profeti d’oggigiorno. La questione è piuttosto: “se il profeta non è un messaggero dell’apocalisse e della fine del tempo, che cosa ci può insegnare allora in un mondo laico?” .
Bisogna innanzitutto ricordare che i profeti non si riducono alle figure religiose che si trovano nella Bibbia, a Cristo o a Maometto che ha ricevuto sotto dettatura un testo chiamato Corano. La vita politica ha conosciuto i suoi profeti di felicità e sventura alla fine del diciannovesimo secolo, con il socialismo utopico, e gli intellettuali al giorno d’oggi divergono sul senso e il ruolo del profetismo (si veda nel numero il testo di Jean-Claude Monod su Max Weber e la polemica che oppose Derrida e Bourdieu, così come i chiarimenti di Guy Petitdemange sugli esponenti della scuola di Francoforte). Ma più sovente sono gli scrittori che incarnano la figura del profeta, il quale si adopera per lasciare delle tracce scritte. Sin dalla sua fondazione, “Esprit” è stato segnato da autori come Péguy e Bernanos, e Camille Riquier cerca di restituire tutto il loro significato per il lettore di oggi. Mentre l’articolo di Anna Dujin ha il grande merito di fornire un approccio storico, con il cantante poeta premio Nobel Bob Dylan, e geografico (Pablo Neruda, Octavio Paz in America Latina).
Riannodare con il tempo e con la storia. Evocando tali figure, questo numero speciale si pone come scopo principale quello di precisare la maniera in cui il profeta si inscrive nel tempo e nella storia. Ciò implica la precisazione di alcune nozioni, per non fare di tutta l’erba un fascio: in particolare le differenze tra escatologia, apocalisse e profetismo. Inoltre, ci è sembrato decisivo fare una deviazione passando per la Bibbia, al fine di comprendere chi sono i profeti dell’Antico Testamento e che cosa ci possono insegnare sulla storia e sul potere. Jean-Louis Ska ricorda così che il profeta se la prende con la politica e gli eccessi della ragion di stato, e Jean-Louis Schlegel tenta di comprendere la fortuna attuale dei “saggi” e il discredito relativo dei profeti, mentre la teologia cristiana della seconda metà del secolo scorso ha tentato di restituire appieno il ruolo all’escatologia profetica, in riflessioni troppo poco note in Francia. Dal canto suo, Olivier Mongin sottolinea l’apporto dei testi di Paul Ricoeur sul profetismo.
Con questa deviazione, si vuole testimoniare la necessità di una ripresa della riflessione biblica, senza però istillare l’idea di un ritorno obbligato alla Bibbia in tempo di fine della ragione. A ciascuno le sue letture e le sue inclinazioni. Resta il fatto che oggi sono numerosi gli autori che incrociano la nozione di messianismo in vista di una riconsiderazione della ragione storica. Non è un caso: François Hartog, storico della Grecia e teorico del presentismo, mostra in apertura come sia necessario ripensare la nostra memoria del Ventesimo secolo, quella che inizia con le trincee del 1914, e che deve essere riannodata con un’esperienza del tempo della storia. Tramite pensatori come Walter Benjamin e Paul Ricoeur, fa appello a un’altra concezione del rapporto con il passato, a una relazione tra tradizione e modernità che non sia sinonimo di rottura.
Reinventare l’avvenire porta allora ad attingere, come i profeti, alle promesse non mantenute della storia passata. I nostri debiti verso i morti di ieri non devono impedirci di fare del passato una mina che permetta di rifigurare il mondo. Se bisogna distinguere i veri dai falsi profeti, bisogna anche ascoltare i profeti che dicono che le minacce che pesano sul “domani” devono anche essere l’occasione di immaginare in maniera diversa questo domani. È l’ideologia della rottura e della vulgata progressista (oggi più tecnologica che politica) a essere qui radicalmente messa in causa. Ciò non giustifica la sacralizzazione del passato, come fossimo vecchi reazionari, né il cedimento alla rivoluzione conservatrice, ma porta a scegliere, davanti al male, ciò che è “bene” nel mondo di ieri. Questo è il profeta: colui che reagisce ai mali imminenti, al di là dei lamenti e dell’impotenza, per agire.