Apprendistato in una casa occupata

Avrei incontrato Velania? Qualche volta mi era bastato camminare lentamente lungo i corridoi e lentamente distinguere le spezie e i suoni che cambiano ogni pochi passi, ogni poche porte.
Qualche volta muovendomi da un corridoio all’altro, qualche volta davanti all’ascensore piccolo. Era così naturale attraversare quel pezzo di pavimento gommoso che separa la mia stanza dalla cucina comune, penetrare nei silenzi delle donne che cucinano e avvicinare la mia teglia alle loro tajine.
Ma lei, che vedendomi sorrideva senza sorpresa, sapeva che incontrarsi per caso non era un caso nel nostro palazzo, perché qui le persone non si danno appuntamenti precisi, non usano il telefono per accordarsi, usano le nocche per bussare alle porte e usano la voce per dare una conferma.
Sono le medesime persone che sento parlare la notte, quando il fuso orario coincide con quello dei loro parenti e la tecnologia li illude, innocenti, di essere più vicini a casa.
Ma adesso lei non ci sarebbe stata in cucina o al piccolo ascensore, il suo volto si mischiava ad altre carnagioni, accese dai telefoni o dalle torce cinesi, mentre scendeva le scale per raggiungere un luogo illuminato. Eravamo al buio, il potere aveva staccato la luce.
Adesso lei non era neppure giù all’assemblea, le assemblee sono obbligatorie ma può parteciparvi anche un solo membro per nucleo familiare. Lei non c’era e io, con la mia stanza da falso appassionato di etnicismi e il viso da studente universitario che non sono mai stato, non sarei andato a cercarla a casa. Niente nocche, niente voce. Preferivo incontrarla dietro al tavolo del picchetto o seduti su una delle panchine costruite dal falegname Daniele, o curvi su Ernesto, l’unico gatto del palazzo. Anche il suo nome non è casuale.
Non era casuale essere rimasti senza elettricità in quel maggio politico, al termine di una stagione culturale che nessun posto della capitale aveva saputo offrire. I suoi abitanti puniti invece che premiati. Ed erano lì, incatenati al groviglio dei fili di tutti i telefoni affidati al gruppo elettrogeno, stavano in cerchio come una tribù attorno al fuoco.
E tu, Velania, andavi lì per giocare coi bambini, per raccogliere le biciclette, alzare chi cade, ed eri contenta se qualche volta mi sporgevo dalle scale a osservare. Perfino al buio, appoggiato coi gomiti al corrimano ad alimentare il mio vizio con un accendino, osservavo che non c’erano tappeti o lenzuola stese su quelle scale, vedevo solo stendini spogli, perché non si possono lavare i panni senza elettricità. Senza elettricità ci si sporca più facilmente.
Marco lo sapeva. Marco nel viso porta con sé la vita, e spero anch’io un giorno di “portarla” allo stesso modo. Spero di poter evitare le parole per comunicare. Marco sapeva che sua figlia non giocava più come prima perché aveva percepito che qualcosa non andava, respirava anche lei quel malessere comune. Marco si sarebbe preso la responsabilità, avrebbe riallacciato la luce, ma non sapeva come fare. Marco sapeva fare il factotum, ma anche l’antieroe.
Camminavo senza cercare, pur sapendo che chi cammina in un palazzo con oltre 400 inquilini, non può non incontrare qualcuno, non può non inciampare in storie. In realtà non soltanto le storie, ma anche le persone sono inciampate e cadute. Persone cadute a terra perché le candele non erano sufficienti per illuminare ogni gradino e ogni ostacolo.
Velania, ogni persona che camminava nel silenzio e nel buio potevi essere tu. Al buio eravamo tutti uguali, non c’erano più musiche e profumi di spezie, perché le nostre piastre elettriche non funzionavano e perché nessuno ha voglia di ballare al buio. Anche se abbiamo cantato.
Ormai senza nessun ascensore, tutti lasciavano le biciclette in cortile e un arcobaleno di passeggini vicino al suo ingresso. Il cortile triangolare coi suoi sanpietrini violacei, l’unico luogo del palazzo dove il cielo vale più di ciò che si trova ad altezza uomo. È un cielo triangolare, diviso in altri piccoli triangoli dai fili delle antenne. Attraverso quei cavi passa la primaria fonte di alfabetizzazione di chi emigra in Italia.
Maria era scappata dalle promesse non mantenute del Venezuela. E quando l’ho vista piangere contro la finestra della scala piccola, pensavo piangesse perché eravamo senza elettricità da giorni, invece piangeva perché qualcuno l’aveva spinta fuori dal tram insultandola. Quiero volver a mi paìs mi disse e io non seppi abbracciarla perché il palazzo è un piccolo paese con le dinamiche del piccolo paese di cui temevo il giudizio.
So che un giorno sono arrivato qui, so che per mesi avevo vissuto senza luce e gas in un appartamento in costruzione in fondo alla Tuscolana. Ricordo che facevo quello che fanno gli altri quando non ti senti a tuo agio ad accogliere amici in una casa che non senti tua, quando non vivi in una Casa. Vivi vite altrui, racconti fantasie, percorri un sentiero più lungo per rientrare a casa perché i compagni di scuola o i colleghi non ti vedano. E qui a Santa Croce molti fanno così. Sentono addosso il giudizio del mondo esterno.
Mi sono accorto subito che per vivere il palazzo come avrei voluto, avrei dovuto cominciare a non chiudere più la porta a chiave, chiudere invece gli occhi e, dormendo a terra, assorbire le energie che avevano depositato in quell’ufficio le anime di passaggio che avevano riposato lì, l’ingegnere che ci lavorava e le persone che ha servito, fino agli operai che lo hanno costruito.
Mi chiedo spesso se il pubblico che ci frequenta è composto anche da loro, gli ex dipendenti o gli ex clienti dell’Inpdap che tornano in sordina al loro palazzo d’uffici per fruire cultura, per uno spettacolo teatrale, per un film, per una pizza o un piatto di zighinì. Un paradosso stimolante.
Alcuni avranno guadagnato la pensione, molti avranno una casa in cui sentirsi cittadini. Qui nei giorni senza luce molti anziani degli ultimi piani, non potendo affrontare la moltitudine di scalini andata-ritorno, avevano sostituito le loro abitudini della passeggiata lungo le vetrine del quartiere, passeggiando nel proprio piano, affacciandosi alle vite altrui debolmente illuminate. Avevo capito che nel passeggiare lungo le vetrine o nel frequentare lo stesso bar non vi era alcuna precisa intenzione se non un esercizio per sentirsi cittadini perché n’ se pò vive senza ‘no stato a cui appijasse. Senza uno Stato che si accorge di te.
E forse ciò che chiamavamo accorgersi l’uno dell’altro, Velania, era la candela che reggevi tra le mani accanto alla busta del pane del sabato, quello donato al palazzo da un panificio amico. E proprio quel sabato, quando ormai la brezza notturna soffiava sul palazzo una calma pioggia di rinunce e litigi, mentre stretti tra coinquilini scendevamo i piani come lucciole intermittenti, l’elettricità tornò.
E tornò nei bagni l’odore dei vestiti puliti perché le poche lavatrici condivise erano tornate a lavorare a tempo pieno. Ricominciavo a sentire le spezie, ricominciavo a sentire la cumbia e i telegiornali ad alto volume e capivo che quell’intiepidirsi dei corridoi dato dalle stufette e dai fornelli era il tempo, il tempo che si rivelava materialmente, e ci avrebbe separato di nuovo Velania. La luce era tornata e aveva cancellato ogni scusa per fermare gli impegni e i mestieri; quando non c’era, molte vite del palazzo erano rimaste sospese, come in pausa, e in quell’incertezza collettiva, io ti percepivo maggiormente, ci guardavamo e sentivamo che quello era ciò di cui parlano sempre gli anziani.
Manomissione
Konrad Krajewski conosceva già il progetto in corso nel palazzo di Santa Croce. Aveva i suoi testimoni e i suoi intuiti da utilizzare come strumenti per la sua missione.
Si presentò con lo sguardo del lupo etiope che nasconde il piacere del rischio, il sorriso obliquo che portano gli uomini di epoche passate. Il rischio era un dovere (è un dovere) nel progetto di vita dell’elemosiniere del Papa. Quel sorriso fu contagioso, ne regalò moltissimi prima di compiere la manomissione che riportò la luce.
Un atto di disobbedienza civile di fronte alla necessità di salvaguardare i fondamentali bisogni vitali delle persone, i diritti umani, agito da una delle più alte cariche della Chiesa, quasi a testimoniare che la carità verso donne, uomini e bambini non si può fermare neppure di fronte a precise norme di uno Stato sovrano nel suo territorio.
Secondo i quotidiani, l’intervento di Konrad ha soltanto restituito dignità e una quotidianità accettabile alle molte persone direttamente coinvolte. Ma quel gesto ha anche riscaldato i cuori, riacceso le speranze, risvegliata una fiducia nel prossimo e nella comunità delle occupazioni che era da tempo sopita, quasi dimenticata e, a malincuore, abbandonata.
La consapevolezza che esiste un fuori non solo indifferente, distante, giudicante e ostile, ha illuminato nuovamente il cammino degli ultimi. Solitudine e isolamento, emarginazione e indifferenza annientano le persone più di quanto possa farlo una malattia debilitante. L’avere percepito la solidarietà e il sostegno di una comunità che è presente, anche se spesso assuefatta alla sopraffazione e alla prepotenza, ha avuto un effetto rigenerante e prolifico di energie nuove.
Ciascuno, sotto i riflettori a volte mal tollerati, ha trovato il coraggio di raccontare la propria storia, e, rafforzato dai tanti altri racconti, si è sentito e riscoperto forte, parte di una storia più grande e importante che comprende anche la sua e che, assieme a tante altre, in fondo costituisce una unica grande storia, una storia importante e degna di essere considerata e rispettata. Così, finalmente, ha alzato la testa, non più china, passiva, silente; ma fiera e sicura.
La percezione che anche gli ultimi, “i perdenti” possano risultare, inaspettatamente, vincitori di grandi battaglie, ha rafforzato non soltanto gli abitanti del palazzo, ma tutte le persone che vivono nella precarietà abitativa e non solo, in balia di eventi non governabili e a loro sconosciuti.
Dove
Lo stabile sito a Roma, al civico 55 di via Santa Croce in Gerusalemme, è l’ex sede dell’Inpdap (le cui funzioni sono state assorbite da Inps), abbandonata nel 2011.
Questo stabile nel 2004 è stato cartolarizzato da Tremonti insieme ad altri immobili del demanio ed enti pubblici previdenziali. Fa oggi parte del fondo Fip della società InvestiRe Sgr, di proprietà della banca Finnat.
Il palazzo è stato occupato nell’ottobre del 2013 dal movimento di lotta per la casa Action.
È spesso citato come Spin Time Labs, che è il nome dell’associazione che ne coordina le attività culturali, un’associazione c he vanta tra i soci onorari anche Papa Francesco e Sergio Mattarella.
Dei circa 22mila metri quadri di superficie, circa 5mila sono dedicati alle numerose attività culturali e ai servizi per il territorio.
Oggi, coi suoi 182 nuclei familiari (circa 450 persone di 18 nazionalità) è considerata una delle occupazioni più grandi quantitativamente parlando. Sono 91 gli stabili occupati a Roma per esigenze abitative, essi ospitano complessivamente più di 8mila persone. Un problema che Roma mantiene irrisolto da quando è diventata capitale.