Antologia: metà studio e metà lavoro
Il testo che riproponiamo è tratto da una lunga introduzione scritta da Vittorio Foa nel 1969 per l’inchiesta I lavoratori studenti. Testimonianze raccolte a Torino, pubblicata da Einaudi e curata da Giorgina Levi Arian, Giovanni Alasia, Adalberto Chiesa, Pietro Bergoglio, Letizia Benigni. È stato successivamente ripubblicato in una raccolta di saggi di Foa, La cultura della Cgil. Scritti e interventi 1950-1970 (Einaudi, 1984).
Commentando le interviste raccolte tra gli operai che frequentavano i corsi serali, Foa si concentra su una serie di conflitti (politici, sociali e culturali) che attraversano l’esperienza dei lavoratori-studenti. Tra questi, il fatto che l’emancipazione culturale venisse ricercata attraverso la cultura “borghese” e che il sistema scolastico proponesse un sapere del tutto avulso dall’esperienza quotidiana. Foa è molto netto al riguardo, e sostiene che occorre
Partire dal dato che lo studio del lavoratore, anche quando è chiaramente inutile o mistificatorio, è una forma specifica di lotta contro la divisione estremizzata del lavoro nelle condizioni del capitalismo organizzato. Rifiutare la comoda critica della cultura inutile da parte di chi è saturo di cultura inutile al punto di annoiarsene a fondo. Sapere che è giusto l’atteggiamento operaio di sognare, di volere il libro, anche quando il libro è bugiardo. La cultura e il libro si criticano possedendoli, non già rifiutandoli a priori per poi delegare la direzione delle proprie lotte ai rampolli dei capitalisti.
E ancora, con notevole anticipo sui tempi, viene messa a fuoco la questione del “merito”, individuato come uno degli strumenti che – nella scuola come in fabbrica – concorrono alla costruzione delle gerarchie sociali:
la demistificazione del merito, che non è virtù individuale e originaria, ma è frutto di una collocazione di classe, porta alla demistificazione di tutti i criteri di selezione vigenti. Ma se li abolisci e promuovi tutti, non fai che trasferire la sede della selezione. Dove non sceglie la scuola serale sceglie il padrone. Dove non sceglie la scuola nel suo insieme la scelta sarà requisita, con varietà di metodi, dalle istituzioni della classe capitalistica: sceglierà magari la Fiat, e non solo gli operai e i tecnici, ma anche gli avvocati e i clinici e gli architetti e gli storici. Anche in questo caso la contraddizione non si risolve ignorandola o predicando un avvento in cui essa sia automaticamente risolta, bensì agendo al suo interno per renderla acuta ed esplosiva.
Al termine della sua analisi, Foa riprende e fa sua una proposta che – articolata in modi diversi – viene dai lavoratori-studenti intervistati: creare un sistema misto e retribuito di studio e di lavoro. Foa sottolinea la dimensione utopistica della proposta, e non manca di elencare una serie di possibili obiezioni alla sua attuazione. Rileva, però, il suo carattere positivo, la sua potenzialità di sollecitare l’azione, stabilire un livello più avanzato di analisi e strategie, tradurre la critica radicale avanzata dal movimento studentesco nel ‘68.
Tra gli obiettivi polemici dell’autore, due conservano intatti la propria attualità: la sottovalutazione della funzione formatrice del lavoro e la rigida divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Rileggere oggi queste pagine introduce un elemento di distanziamento che può essere utile per affrontare con spirito critico il dibattito attuale su scuola e lavoro e cercare di rompere schemi consolidati. (Mauro Boarelli)
Il sindacato potrà aprire una pagina nuova (…) quando porrà in termini di unificazione l’esperienza dello studio con quella del lavoro. Unificare significa lottare contro l’opera di divisione gestita col “merito” scolastico e col “merito” capitalistico in fabbrica. Unificare ciò che la scuola, ciò che il padrone divide. Demistificare, nella scuola come nella fabbrica, la cogestione, l’efficienza capitalistica, la produttività, il merito, tutto l’armamentario della divisione. (…)
Si è discusso molto se e come gli studenti possono lavorare sui problemi operai e sindacali, ma non si è mai parlato della cosa più importante ed è che la classe operaia, coi modi e le forme che sono ancora da sperimentare e costruire, deve entrare nella scuola per dirigerla, per farne strumento della propria lotta, per cambiare idee e metodi tradizionali che si fondano sulla sottovalutazione della funzione formatrice del lavoro, per superare in concreto la scissione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra direzione ed esecuzione, per unificare la classe operaia nel lavoro e nella scuola. Soggetto di questo impegno devono essere i lavoratori come classe, e in primo luogo i lavoratori che studiano, per il modo in cui pongono i problemi dell’unificazione delle esperienze, del passaggio dalla lotta economica a quella politica e del superamento delle divisioni attraverso il lavoro collettivo e la lotta comune. La proposta unificante, che ricorre in continuazione nelle interviste qui raccolte, è quella delle quattro ore di lavoro e quattro ore di studio, pagate otto ore e per tutti, così per gli attuali giovani lavoratori come per gli studenti, “perché la scuola non è scuola, è appunto lavoro”. L’operaio aggiunge subito: “non sto parlando di cose attuabili o meno”, come a dire che non gli importa l’accusa di utopia, se la linea di fondo è giusta, e che in ogni modo non bisogna aspettare che la rivoluzione sia fatta prima di battersi per obiettivi rivoluzionari. Un torinese ventenne, operaio alla Fiat Motori Avio, articola la proposta: “lo studente non deve essere solo studente, ma anche lavoratore, nello stesso tempo il lavoratore deve essere studente; quindi bisogna fare programmi che permettano allo studente di vivere sia nell’ambiente scolastico che nell’ambiente di lavoro. Il vantaggio dei serali sui diurni sta nella esperienza del lavoro, che la scuola non può dare: allo studente ci vorrebbero quattro ore di lavoro perché capisca i problemi del mondo del lavoro. Uno studente non sa assolutamente che un operaio è sfruttato. Nessuno lo sa. Forse non lo sanno neppure i professori e persino i nostri governanti. Cioè non riescono a rendersi conto come viene sfruttato un operaio in una linea o in un lavoro a cottimo. Questa è materia di cultura”.
Alcuni operai, invece delle quattro ore di lavoro e quattro di studio al giorno, propongono tre giorni di studio e tre giorni di lavoro ogni settimana, altri ancora propongono una preparazione teorica con laboratori a scuola e poi negli ultimi mesi lavoro a tempo pieno, ove si viva come gli altri. Comunque la tesi dominante è quella della eliminazione della differenza fra giovane lavoratore e studente. “Così la scuola si aggiornerebbe rispetto al lavoro”. “Non dovrebbe esistere lo studio serale”. “Tutti dovrebbero formarsi attraverso lo studio e il lavoro”. “Uno studente deve provare a lavorare alle dipendenze di un padrone, perché così completa la sua formazione, dato che lo studio gli può dare la formazione solo in un senso, non una formazione totale”. “Se lo studente lavora viene a contatto con un altro modo di vita, con un’altra concezione di vita”. Qui non vi è affatto l’etica del lavoro, vi è solo la volontà di unificazione delle esperienze. Un calabrese di ventinove anni, impiegato Fiat, scende su un terreno molto pratico: “La scuola serale deve sparire perché è antisociale. Il diploma è un sottoprodotto quando è ottenuto in una scuola serale. Anche lo studente diurno che lavora è considerato menomato. Questo non dipende da un pregiudizio sul livello di preparazione, ma da un pregiudizio di classe. Il fatto che contemporaneamente allo studio uno abbia lavorato è la prova che la sua origine non è borghese”. Qui il passaggio dalla protesta professionale a quella politica è immediato e manifesto. E naturalmente si conclude con quattro ore e quattro ore. Il fattore discriminante di classe opera nei meccanismi che stanno all’interno della stessa classe sfruttata e si riproduce attraverso le riforme. Si può decidere all’università di promuovere tutti ma il lavoro sarà offerto agli studenti noti, che sono quelli che frequentano, che sono quelli che non lavorano. Si può decidere che la formazione scolastica sia tutta politica, e tutta decisa dagli interessati, ma si scoprirà che la decisione è presa da una parte ristretta di interessati, che è selezionata proprio in base ai criteri che si sono voluti eliminare. […]
La proposta di un orario complessivo di lavoro e studio giovanile, quale sale dalla base dei lavoratori studenti, ha prima di tutto il valore simbolico di affermare la priorità della esperienza di lavoro come sfruttamento e quindi della necessità di una unificazione politica che sia in grado di mutare la natura delle due esperienze oggi divise e di mettere in crisi così la scuola come il rapporto di lavoro. È questo significato ideale della proposta quello che non ci consente di soppesare in puri termini quantitativi le pur rilevanti obiezioni.
È fin troppo facile anticipare le obiezioni che si possono muovere a quella proposta. È un’utopia. Si potrà fare solo dopo la rivoluzione socialista e non è nemmeno sicuro che si possa fare allora. È mascheratura apparentemente progressista di un progetto riformistico, che consiste nel lavoro part-time, voluto dai padroni per adattare il lavoro disponibile alla massima utilizzazione del macchinario con l’introduzione di cicli continui o semi-continui o comunque con una razionalizzazione dei turni. Il lavoro degli studenti sarà obbligatorio o facoltativo? Nel primo caso avremo il lavoro forzato, nel secondo caso non avremo il lavoro, in ogni caso avremo trucchi e finzioni. Il lavoro degli studenti ostacola l’alto impegno richiesto per la formazione dei ruoli direttivi. Esso rende inoltre ancor più dequalificato di quanto sia oggi il livello di massa degli studi. Che lavoro faranno gli studenti? e chi glielo troverà? non finirà il tutto in una parata del regime? Come si può pensare, se si vuole che il lavoro degli studenti sia serio, di gettare sul mercato del lavoro una nuova enorme offerta, in aggiunta a quella già prevista per l’esodo dalle campagne e l’abbandono del Mezzogiorno? E gli operai, che lavoreranno solo quattro ore, quanto saranno pagati? Chi pagherà la differenza che essi chiedono? La proposta non equivale forse a una richiesta di raddoppiare i salari orari? Come la mettiamo col Mec [Mercato comune europeo], col mercato mondiale e la competitività? L’elenco delle obiezioni potrebbe continuare per pagine intere. Qui ci interessano solo quelle che in un modo o nell’altro rivelano il carattere utopistico della proposta e al massimo la legittimano come una soluzione postrivoluzionaria.
È incontestabile che la proposta è utopistica nel senso che non sono oggi configurabili le condizioni per la sua realizzazione. Ma è anche vero che si tratta di un’utopia che non ferma il movimento, ma lo suscita e lo promuove, cioè si tratta di un’utopia positiva. E ciò proprio in quanto si inserisce su una linea politica unificatrice delle esperienze dello sfruttamento. Certo l’azione sindacale dei lavoratori studenti e dei lavoratori che aspirano a studiare riguarderà i problemi dell’orario di lavoro, dei turni, dei permessi, dei congedi, dei trattamenti economici e i risultati saranno quelli che l’azione potrà dare. È probabile che le rivendicazioni saranno ancora per molto tempo modeste, tradizionali, gradualiste, e non perché sia preferibile la gradualità all’immediatezza, ma perché le rivendicazioni che muovono sono quelle che sono plausibili, attendibili agli occhi di chi le sostiene con la lotta. Quindi, in primo luogo, le rivendicazioni saranno quelle che i lavoratori vorranno che siano, e non vi è nulla da inventare in proposito e tanto meno da fare fughe in avanti, come elusione del problema.
Ma una cosa è anche certa ed è che solo rifiutando i limiti posti dalle attuali compatibilità, dall’attuale assetto produttivo, solo assumendo una dimensione più vasta, cioè una dimensione politica, solo proponendosi di mettere in crisi le vecchie routine, è possibile mettere in movimento delle grandi forze. Solo se insieme con l’istituzione è messo in discussione anche il sistema, la lotta contro l’istituzione diventa attendibile.
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