America latina: Il virus contro i movimenti sociali
Alcune hanno messo all’angolo premier e dittatori, costringendoli all’addio. Altre hanno stracciato leggi e affossato Costituzioni. Altre ancora sono state stroncate dalla dura reazione dei governi o si sono risolte in un nulla di fatto. Le piazze sono state le protagoniste assolute del 2019 mondiale, con rivolte di massa in quindici Paesi di quattro Continenti. Poi, con l’incalzare del 2020, è arrivato il Coronavirus. E ha fatto in un paio di settimane ciò che i governi contestati avevano fallito per mesi. L’epidemia ha spazzato via le manifestazioni dagli spazi urbani nel modo più radicale: ha confinato i protagonisti all’interno delle case. Sono scomparsi i cortei. O almeno così sembra. I dati dell’Armed conflict location & event data project (Acled) – uno dei più attenti osservatori del conflitto sociale globale – rivelano, però, un panorama più complesso. Il “picco” della protesta è coinciso con le prime fasi della pandemia, all’inizio di marzo. Quando l’emisfero australe rientrava in piena attività dopo la pausa estiva. Dall’Iran al Cile, dal Libano a Hong Kong, alle ragioni originarie della rivolta s’è sommato lo scontento per la gestione dell’emergenza. Poi, la forza delle dimostrazioni è calata di pari passo alla crescita del contagio. Il 14 marzo, a Parigi, si è svolto l’ultimo raduno dei Gilet gialli, tre giorni prima che il presidente Emmanuel Macron decretasse la quarantena. Due giorni dopo, in Libano, la dichiarazione dello stato di emergenza ha stroncato nel giro di 24 ore la “zaura”, l’ampio fermento rivendicativo in atto da ottobre. Il 20 marzo, il movimento algerino Hirak – protagonista della lotta anti-Boutefika – ha deciso una “tregua sanitaria” dopo 56 venerdì di protesta ininterrotti. Sette giorni dopo, i manifestanti cileni hanno salutato la piazza Italia di Santiago, ribattezzata “Plaza de la dignidad” e scelta come bastione dell’insurrezione in corso dal 18 ottobre. A Hong Kong, la necessità di contenere il contagio ha fatto saltare il mega evento organizzato per il 3 aprile, anniversario della legge sull’estradizione, detonatore della rivolta contro Pechino. E il 19 aprile, quest’ultima ha approfittato dell’emergenza per mettere in cella i protagonisti della rivolta.
La variegata rivoluzione anti-establishment è stata davvero sconfitta dal più imprevedibile degli avversari possibili? A giudicare dall’agitazione che pervade le reti sociali, monitorata con rigore da Acled, la risposta sembra negativa. Nell’impossibilità di concentrarsi fisicamente, gli attivisti hanno traslocato sul web. Da grande aggregatore e amplificatore, quest’ultimo s’è trasformato in generatore di emergenza della protesta. Almeno in attesa del ritorno in piazza che, a partire da maggio, pian piano, inizia a verificarsi in tutto il mondo. Come dimostrano i fermenti in Francia, Libano e Cile.
E, nei prossimi mesi, l’intensità potrebbe essere ben maggiore rispetto al 2019. Non solo i nodi che hanno generato l’insurrezione – crescita della diseguaglianza e corruzione – sono rimasti irrisolti. I danni collaterali all’economia internazionale rischiano di renderli ancora più intricati. Se l’impatto riguarda l’intero globo, sul Sud del pianeta il contraccolpo si profila tragico. Tra marzo e aprile, dai mercati emergenti sono fuggiti cento miliardi di dollari di capitali. Il virus ha già tagliato le entrate di due miliardi di esseri umani che sopravvivono alla giornata e ora sono costretti a casa dalla quarantena. Il crollo del prezzo del petrolio ha inferto un colpo durissimo ai Paesi produttori, dall’Iran al Venezuela. Caracas è letteralmente in ginocchio. La tensione sale vertiginosamente dal 16 marzo, quando il presidente, Nicolás Maduro ha dichiarato la quarantena per arginare il contagio da Covid-19 subito dopo la scoperta del primo caso. Da allora, secondo i dati dell’Observatorio sobre la conflictividad social, le manifestazioni sono esplose, al ritmo di 19 al giorno. Solo nelle prime tre settimane di aprile, sono state 507. L’insurrezione e il massacro di 46 prigionieri nel carcere di Los Llanos, lo scorso 2 maggio, ha chiuso, simbolicamente, l’anno della riscossa di Maduro. In cui, dopo il maldestro e fallito golpe di Juan Guaidó di dodici mesi prima, il presidente era riuscito ad avviare una fragile ripresa dell’economia, grazie alla sospensione – di fatto, senza modifiche legislative – dei controlli sui dollari e all’abolizione dei prezzi imposti. La Covid-19 ha stroncato la ripresa sul nascere, mettendo alle corde Maduro.
In Ecuador, il presidente Lenín Moreno, ha appena varato un piano di durissima austerità per far fronte alla crisi post-pandemia. Il rischio di reinnescare la protesta di ottobre è alto. E molti altri Paesi potrebbero seguire la medesima strada, cedendo alla tentazione dei tagli selvaggi. L’esatto contrario di quanto occorre al mondo post-Covid. Nell’interesse anche dei governanti. Se la politica non riuscirà a governare il caos e a impedire che il peso maggiore della crisi continui a ricadere sui più fragili, la “fase 2” della rivoluzione globale si profila imminente. Ed esplosiva.