America America. La morte di Lincoln

traduzione di Mariolina Meliadò Freeth
Riportiamo qui di seguito, nella sua integralità, la conferenza letta dallo stesso Whitman per la prima volta a New York il 14 aprile 1879, successivamente a Filadelfia nel 1880 e a Boston nel 1881. Whitman dedicò a Lincoln molte pagine di prosa e un’intera sezione di Foglie d’erba. Il testo della conferenza apparve nel 1879 sul “ Tribune” di New York e fu in seguito incluso nel volume Giorni rappresentativi (1882). Lincoln fu colpito a morte da un attore teatrale, John Wilkes Booth, durante una rappresentazione al teatro Ford di Washington il 14 aprile 1865 e morì la mattina dopo.
Quante volte, da quel gelido giorno d’aprile, un sabato buio e piovigginoso – sono ormai passati quindici anni – il mio cuore ha sfiorato il sogno, la voglia di manifestare il suo pensiero particolare, il suo ricordo della morte di Abraham Lincoln. Eppure, ora che mi si offre la desiderata occasione, trovo i miei appunti insufficienti (perché mai, per temi davvero profondi, le affermazioni si rivelano così superflue? perché non arriva mai la frase giusta?) e il degno tributo che avevo sempre sognato rimane più inadempiuto che mai. Questo mio discorso oggi non si giustifica tanto per sé stesso o per quello che vorrebbe enunciare, quanto invece per il mio desiderio di far rivivere quel giorno, quel martirio. E per questo, amici miei, che vi ho qui riuniti. Sempre quando gli anni che passano ci riportano a quest’ora lasciate che il pensiero vi si soffermi, sia pur brevemente. Da parte mia, spero e desidero che, fino al giorno della mia morte, ogni volta che il 14 o 15 aprile ritorni, ogni anno, io possa invitare pochi amici per celebrare la tragica commemorazione.
Non una commemorazione limitata a una parte. Essa appartiene a questi Stati nella loro completezza – non il Nord soltanto, ma anche il Sud – forse anzi tra tutti appartiene più affettuosamente e devotamente al Sud: è proprio nel Sud che sono le radici di quest’uomo. Da lì i precedenti che lo hanno formato. Perché non dovrei dire anzi che di lì vengono i suoi tratti più virili – la sua universalità – i suoi modi, il suo dialogare quotidiano abile e disinvolto – e nel fondo il suo irremovibile volere, il suo coraggio? Avete mai pensato, amici miei, che Lincoln, benché trapiantato nell Ovest, è essen zialmente. per personalità e carattere, un contributo del Sud?
Non voglio comunque parlarvi in sintesi della guerra di Secessione questa sera, ma vorrei ricordarvi in breve la situazione generale che precede quel conflitto. Per vent’anni, e quattro o cinque anni prima dell’inizio effettivo della guerra, la situazione degli Stati Uniti, sebbene senza il luccichio dell’eccitazione militare, presentava un quadro che supera finanche il resoconto di una battaglia, o di una lunga campagna o serie di campagne, e persino di convulsioni della Natura. Le accese passioni del Sud – la strana mescolanza, al Nord, di inerzia, incredulità e coscienza della propria forza – lo spirito incendiario degli abolizionisti – la furfantiera e le grinfie degli uomini politici, senza paralleli in nessun’altra terra o epoca. A tali cose non bisognerà dimenticare di aggiungere l’essenziale onestà della massa del popolo dovunque – seppur con tutta la ribollente furia e contraddizione delle loro nature, scatenate più delle onde dell’Atlantico delle più selvagge bufere equinoziali. In politica, quale presagio più infausto (allora generalmente sottovalutato), quale più significativo delle presidenze di Fillmore e Buchanan? Prova conclusiva che la debolezza e la malvagità di governanti eletti dal popolo possono affliggere questo paese non diversamente dai paesi del Vecchio Mondo sotto i loro monarchi, imperatori e aristocrazie. In quel Vecchio Mondo i sotterranei ritornare prima o poi con certezza; mentre in America il vulcano, seppur ancora di natura civica, non bellica, continuava a farsi sempre più convulso – sempre più violento e minaccioso.
Nel culmine di questa eccitazione e caos, ecco comparire, profilandosi dao- pnma ai margini e poi completamente immersa in essa, e destinata a un ruolo di protagonista, una strana, goffa figura. Non dimenticherò facilmente la prima volta che vidi Abraham Lincoln. Dev’essere stato intorno al 18 o 19 febbraio 1861. Era un pomeriggio piuttosto bello, a New York City, egli era appena arrivato dall’Ovest per una sosta di poche ore prima di andare a Washington, dove lo attendeva la cerimonia dell’inaugurazione. Lo vidi a Broadway, vicino alla sede dell’attuale Ufficio Postale. Veniva, credo, da Canal Street, per fermarsi alla Astor House. Gli ampi spazi, i marciapiedi e le strade adiacenti fino a una certa distanza, erano affollati di solide masse di gente, molte migliaia. Gli omnibus e gli altri veicoli erano stati dirottati, lasciando dietro di sé un insolito silenzio in quella movimentata parte della città. Ben presto due o tre vecchi birocci da nolo si aprirono la strada con una certa difficoltà attraverso la folla e si fermarono davanti all’ingresso della Astor House. Dal biroccio al centro scese un’alta figura, sostò calma sul marciapiede, alzò lo sguardo ai muri di granito e all’imponente architettura del vecchio e sontuoso hotel – poi, ristoratosi con uno sgranchimento di braccia e gambe, si girò a studiare con uno sguardo lento e divertito, per più di un minuto, la vasta folla silenziosa. Non ci furono discorsi – complimenti – ovazioni – a quel che potei udire, non una sola parola. Persone prudenti avevano temuto qualche scoperto insulto o offesa al presidente eletto – egli non godeva infatti di nessuna popolarità personale a New York City, e quella politica era scarsissima. Ma esisteva evidentemente un tacito accordo che se i pochi sostenitori politici del signor Lincoln lì presenti si fossero astenuti da qualsiasi dimostrazione da parte loro, anche la stragrande maggioranza, costituita da tutt’altro che sostenitori, si sarebbe astenuta da parte sua. Il risultato fu un aggrottato e perfetto silenzio, quale certamente non caratterizzato in passato una simile folla di newyorkesi.
In quei paraggi ricordo distintamente di aver visto Lafayette, durante la sua visita in America nel 1825. Vari anni più tardi avevo anche visto e sentito di persona com’erano stati accolti, nello stesso luogo, Andrew Jackson, Clay, Webster, l’ungherese Kossuth, Walker il filibustiere, il principe di Galles du rante la sua visita, e altre celebrità nazionali e forestiere – quel magnetismo umano, quell’indescrivibile ruggito, diverso da ogni altro suono in tutto l’universo – le tonanti grida d’esultanza e allegria di un numero incalcolabile di uomini, a gola spiegata! Ma in questa occasione, non una sola voce – non un suono. Dal tetto di un omnibus (spinto fin lì vicino, da una parte, e rimasto bloccato tra il marciapiede e la folla) io mi godevo, devo dire, una vista magnifica di tutto l’insieme, e specialmente del signor Lincoln, la sua figura e il suo modo di camminare– la sua perfetta compostezza e distacco – la sua statura insolita, un po’ sgraziata, l’abito completamente nero, la tuba calzata al- l’indietro, la carnagione d’un bruno scuro, la faccia tutta segni e rughe, ma di uno che la sa lunga, capelli neri e cespugliosi, il collo sproporzionatamente lungo, e le mani dietro la schiena mentre stava lì in piedi a osservare la gente. Spingeva uno sguardo curioso su quell’immenso mare di facce restituiva lo sguardo con la stessa curiosità. Vera, da ambo le parti, un tocco di commedia, di farsa quasi, di quelle che Shakespeare semina nelle sue tragedie più nere. La folla che faceva ressa intorno consisteva, direi, di trenta o quarantamila persone, di cui non una che gli fosse personalmente amica– mentre non ho dubbi (a un tal punto di frenesia erano i fermenti del tempo) che più di un coltello e di una pistola omicida stavano nascosti nelle tasche di pantaloni o giacche, pronti a scattare al primo segno di tumulto.
Ma non vi fu tumulto. L’alta figura si concesse un altro sgranchimento o due di gambe e braccia; poi con passo tranquillo, e accompagnato da un gruppetto di persone che sembravano affatto sconosciute, salì la scalinata centrale della Astor House e scomparve nell’ampio ingresso– e fu questa la fine della pantomima.
Vidi spesso Abraham Lincoln nei quattro anni che seguirono quella gior nata. Egli mutò molto, e rapidamente, durante la presidenza – ma questa scena, e la sua parte in essa, sono stampate indelebilmente nella mia memoria. Mentre me ne stavo sul tetto del mio omnibus, e potevo osservarlo bene, mi occorse il pensiero, allora vago e embrionale, ma divenuto piuttosto chiaro in seguito, che quattro tipi di genio, quattro mani possenti, primordiali, sarebbero stati necessari per portare alla perfezione il futuro ritratto di quest’uomo – gli occhi e la mente e il tocco di Plutarco, Eschilo e Michelangelo, assistiti da Rabelais. E subito – (il signor Lincoln proseguì per Washington dopo questa scena, per l’inaugurazione, che si svolse tra squadre di cavalleggeri armati e tiratori scelti a ogni angolo – il primo esempio di questo genere nella nostra storia – e spero l’ultimo) – subito la rapida successione dei ben noti eventi (troppo ben noti! oggi, credo, non vogliamo quasi nemmeno sentirne parlare) – il fuoco contro la bandiera nazionale a Sumter – la sollevazione al Nord in un parossismo di stupore e rabbia – il caos di pareri divisi–i banditi di coscrizione–la prima Bull Run – l’abbattimento, il trauma, l’inebetito scoramento del Nord – e la guerra di Secessione ha pieno corso. Quattro anni di guerra violenta, sanguinosa, cupa, omicida. Chi dipingerà quegli anni, con tutte le loro scene? – gli scontri all’ultimo sangue – le sconfitte, i piani, i fallimenti – le ore, i giorni foschi in cui la nostra Nazione sembrava sospesa in una nube di dubbi, forse di morte–i mefistofelici ghigni dei paesi stranieri e dei diplomatici – la temuta Scilla dell’intervento europeo, e la Cariddi degli strati sotterranei, terribilmente pericolosi, dei simpatizzanti della secessione in tutti gli Stati liberi (assai più numerosi che non si supponga) – le lunghe marce nell’estate – il sudore bruciante, e i molti colpi di sole, come nella corsa a Gettysburg nel ’63 – le battaglie notturne nei boschi, come a Chancellorsville, sotto Hooker – gli accampamenti d’inverno – le prigioni militari – gli ospedali (ahimè, ahimè, gli ospedali!).
Guerra di Secessione? No, fatemela chiamare guerra dell’unione. Seppure, comunque la si chiami, ci è ancora troppo vicina – troppo immensa, sì da oscurarci – i suoi rami ancora informi (ma certi) e protesi troppo lontano nel futuro – quelli più significativi e più poderosi ancora da nascere. Una grande letteratura dovrà tuttavia sorgere da quell’era di quattro anni, quelle scene – un’era in cui sono compressi secoli di passione nazionale, quadri di prima grandezza, tempeste di vita e di morte – una miniera inesauribile per le storie, il dramma, il romanzo e anche la filosofia dei popoli a venire – invero la vertebra della poesia e dell’arte (e anche del carattere personale) per tutta la futura America – di molto più grandiosa, a mio parere, se affidata a mani capaci, dell’assedio di Troia per Omero o delle guerre con la Francia per Shakespeare. Ma devo abbandonare queste riflessioni e venire al tema che mi sono assegnato e posto come limite. Dell’assassinio del presidente Lincoln, benché se ne sia scritto tanto, i fatti reali probabilmente sono ancora parecchio confusi nella mente dei più. Leggerò dagli appunti che presi a quel tempo, e che da allora ho riveduto spesso e infine sistemato.
Sembra che il 14 aprile 1865 sia stata una bella giornata in tutto il paese buona anche l’atmosfera morale – la lunga tempesta, così cupa, fratricida, piena di sangue e dubbio timore, schiarita finalmente dal sole di una così assoluta vittoria nazionale, e dalla completa sconfitta del secessionismo – quasi da non credere ai nostri occhi! Lec aveva capitolato sotto il melo di Appomatox. Le altre armate, le flange della rivolta, seguirono rapidamente. Era vero dunque? Da tutti i grovigli di questo mondo di dolore, fallimento e disordine, era dunque veramente scaturito, certo e infallibile, il segno di un piano divino – come un raggio di pura luce – di un giusto ordine? Il giorno dunque, come ho detto, era propizio. Spuntava la prima erba, i primi fiori. (Ricordo che, nel luogo dove mi trovavo in quel momento, la stagione es sendo ormai avanzata, v’erano molti lilla in pieno fiore. Per uno di quei ca pricci che entrano negli eventi e li colorano pur senza farne assolutamente parte, mi accorgo che la vista e il profumo di quei fiori mi ricordano sempre la grande tragedia di quel giorno. Immancabilmente). Ma non attardiamoci su cose marginali. I fatti incalzano. Il popolare gior nale pomeridiano di Washington, il piccolo Evening Star, aveva piazzato in terza pagina, dislocandola in modo sensazionale tra gli annunci economici, in cento angoli diversi, la notizia Presidente e la sua Signora saranno a teatro questa sera… (Lincoln amava il teatro. Io stesso ve l’ho incontrato varie volte. Ricordo di aver pensato come fosse strano che egli, per certi rispetti il primo attore nel dramma più tempestoso che il teatro della storia avesse visto per secoli, potesse starsene lì seduto tutto preso e assorbito da quelle marionette umane che si aggiravano nei loro stupidi piccoli gesti, quel loro spirito d’importazione, il loro testo pomposo).
Il teatro era affollato per questa occasione – molte signore in abiti ricchi e allegri, ufficiali in uniforme, molti cittadini importanti, giovani, i soliti grappoli di luci a gas, il solito magnetismo di molta gente insieme, allegria, profumi, musica di violini e flauti – (e su tutto, impregnando tutto di sé, quella immensa e vaga meraviglia, la Vittoria, la vittoria della nazione, il trionfo dell’unione, che riempiva l’aria, i pensieri, i sensi, con un potere esilarante più di qualsiasi musica o profumo).
Il Presidente giunse per tempo, e assistette alla rappresentazione insieme alla moglie da uno dei grandi palchi di proscenio, nel secondo ordine, due palchi fusi in uno, e profusamente drappeggiati con la bandiera nazionale. Gli atti e le scene della commedia – una di quelle composizioni singolari che hanno almeno il merito di distrarre completamente il pubblico, tutto preso durante il giorno dal lavoro mentale o l’eccitamento e le preoccupazioni affari, in quanto non fanno il minimo appello al lato morale, morale, emotivo, estetico o spirituale della nostra natura – una commedia (Il nostro cugino d’America) in cui, tra gli altri personaggi, uno yankee, cosiddetto, come certo non s’è mai visto ed è assai improbabile che si veda nel Nord America, viene introdotto in Inghilterra, con un gran pot-pourri di chiacchiere, intrecci e sce nari, e tutte quelle fantasmagorie che vanno nel brodo di un moderno dramma popolare – erano andate avanti per circa due atti quando, nel mezzo di questa commedia o non commedia o come vogliate chiamarla, quasi a farle da contrappeso o per darle il colpo di grazia, quasi che la Natura e la nobile Musa volessero farsi beffa di quei poveri mimi, s’interpolò quell’altra scena, che non potrà mai veramente essere descritta con esattezza (sulle centinaia di persone presenti, infatti, sembrerebbe aver lasciato a tutt’oggi non più di un’immagine offuscata, un sogno, una macchia indistinta) – ma parzialmente sì, come io mi accingo a fare. Nella commedia v’è una scena che rappresenta un salotto moderno in cui due inopinabili signore inglesi vengono informate dal non meno improbabile yankee che egli non è un uomo di grandi fortune, e come tale indesiderabile per chi va a caccia di marito, dopo di che, finiti i vari commenti, il drammatico terzetto esce lasciando per un momento la scena vuota. Fu a questo punto che avvenne l’assassinio di Abraham Lincoln. Per grandi e multiformi che siano le conseguenze che, imperniate su questo fatto, si ripercuoteranno nel futuro per molti secoli, nella politica, nella storia, nell’arte etc. del Nuovo Mondo, nella realtà dei fatti la cosa essenziale, l’assassinio vero e proprio, si svolse con la calma e la semplicità degli avvenimenti più comuni – lo spuntare di una gemma o l’aprirsi di una capsula nella vita della vegetazione, per esempio. Nel brusio generale seguito alla pausa sulla scena, la gente che cambia posizione etc., venne il suono soffocato di un colpo di pistola, che non più della centesima parte del pubblico udì sul momento – e tuttavia lo zittio di un attimo – in eccitazione, un trasalire – poi, dal bordo del palco presidenziale, tutto ornato e drappeggiato con le stelle e le strisce della bandiera, di colpo una figura, un uomo, si issa con mani e piedi, resta fermo un attimo sulla ringhiera, salta giù sulla scena (un salto di forse tredici o quindici piedi), cade male, il tacco dello stivale si è impigliato nell’abbondante drappeggio (la bandiera americana), cade su un ginocchio, si riprende rapidamente, s’alza come se nulla fosse accaduto (in realtà si sloga una caviglia, ma in quel momento non la sente) – ed ecco che la figura, Booth, l’assassino vestito di semplice panno nero, a testa scoperta, con folti, lucidi capelli corvini, gli occhi come di un animale impazzito in cui lampeggia la deci sione, e tuttavia con una certa strana calma, brandisce alto con una mano un gran coltello – fa qualche passo, non lontano dai lumi della ribalta – si volge mostrando in pieno all’uditorio la sua faccia di statuaria bellezza, illu minata da quegli occhi di basilisco che lampeggiano di disperazione e forse di pazzia – lancia con voce solida e ferma il grido Sic semper tyrannis – e a passi né lenti né rapidi percorre diagonalmente la parte posteriore della scena e scompare. Questa scena terribile – che rese grottesca ogni mimica teatrale non era forse già stata provata e riprovata da Booth, punto per punto?
Il silenzio di un istante – un urlo – il grido all’assassino! – la signora Lincoln che si sporge dal palco, guance e labbra di cenere, con un grido involontario, additando la figura che si ritira, Ha ucciso il Presidente. E ancora un momento di strana, incredula sospensione – e poi il diluvio ! – poi quella mistura di orrore, chiasso, incertezza – (da qualche parte, in lontananza, lo scalpitio veloce di un cavallo) – la gente si precipita tra sedie e ringhiere, spezzandole – v’è un terrore, una confusione inestricabile – donne che svengono – le persone più deboli cadono e sono calpestate – si odono molti gridi d’agonia – l’ampio palcoscenico d’improvviso si riempie di una folla multicolore, fitta da soffocare, come per un qualche orrendo carnevale – tutto il pubblico più o meno vi si precipita, o almeno gli uomini più robusti – gli attori e le attrici sono tutti lì nei loro costumi di scena, le facce di pinte, e una paura mortale che trapela sotto il belletto – gli urli, chi chiama, il parlar confuso – raddoppiati, triplicati – due o tre riescono a far arrivare dell’acqua dal palcoscenico fino al palco del Presidente – altri cercano di arrampicarvisi – eccetera eccetera..
Nel mezzo di tutto ciò irrompono i soldati della guardia del Presidente, e altri improvvisamente chiamati sul luogo – (in tutto forse duecento) – prendono d’assalto il teatro, tutte le gallerie, specialmente quelle superiori, in fiammati di furia, letteralmente caricando il pubblico con le baionette inastate, moschetti e pistole, urlando Fuori! Fuori! figli di… – Questa la scena selvaggia, o meglio un barlume di essa, all’interno del teatro quella notte.
Anche fuori, in quell’atmosfera di sbigottimento e pazzia, masse di gente in preda al furore e pronte a sfogarlo in qualsiasi modo, per poco, più di una volta, non uccidono degli innocenti. Uno di questi casi fu particolarmente emozionante. La folla infuriata, per un qualche caso, si scatenò contro un uomo, forse per delle parole che aveva pronunciato, ma forse per nessun motivo al mondo, e senza por tempo in mezzo stava già procedendo a impiccarlo a un lampione lì vicino, quando fu messo in salvo da un gruppetto di eroici poliziotti, che se lo misero in mezzo e lottando si aprirono un varco, lentamente e con gran pericolo, verso la stazione di polizia. È un episodio che ben rispecchia l’intera situazione. La folla che si scaglia e turbina avanti e indietro – la notte, gli urli, le facce pallide, molti, terrorizzati, che cercano vanamente di districarsi – l’uomo che è stato attaccato, non ancora liberato dalle grinfie della morte, con un volto da cadavere – e la mezza dozzina di poliziotti, silenziosi, decisi, senza altra arma che le loro piccole mazze, eppure severi e fermi in mezzo a quegli sciami turbinanti di gente – erano una degna scena di contorno alla grande tragedia dell’assassinio. Riuscirono a guadagnare la stazione di polizia con l’uomo da loro protetto, che misero al sicuro per la notte, rilasciandolo al mattino seguente. E al centro di quel pandemonio, i soldati infuriati, il pubblico e la folla, il palcoscenico con tutti i suoi attori, attrici, flaconi per il trucco, lustrini, lumi a gas – il sangue della vita a poco a poco sgocciola da quelle vene, il migliore, il più dolce della nostra terra, e il siero della morte già comincia a formare bollicine sulle sue labbra.
Tali gli incidenti visibili e le circostanze dell’assassinio di Abraham Lincoln, come veramente si svolsero. Tale la fine della tentata secessione di questi Stati, della guerra dei quattro anni. Ma le cose essenziali vengono sottilmente e invisibilmente dopo, forse molto tempo dopo – non militari né politiche, né (per grandi che queste siano) storiche. Voglio dire che certi risultati secondari e indiretti che seguono la tragedia di questa morte sono, a mio avviso, del più grande valore. Non l’evento dell’assassinio in sé. Non il fatto che il signor Lincoln lega i punti e i personaggi cruciali di quel periodo come perle sull’unico filo della sua vita. O che la sua idiosincrasia, nella sua subitanea apparizione e scomparsa, stampa su questa Repubblica un’impronta più profonda e duratura di qualsiasi altra mai lasciata da un singolo uomo (neppure Washington); ma, insieme a queste cose, l’incommensurabile valore e significato dell’intera tragedia riposa, per me, nei sensi finalmente più cari a una nazione (e qui completamenti nostri) – il senso artistico e quello fantastico – quello letterario e quello drammatico. Non nel significato volgare o basso di quei termini, ma nel significato che è prezioso alla razza e a ogni epoca. Una lunga e varia serie di eventi contraddittori finisce invariabilmente per arrivare al suo più alto scioglimento, poetico, unico, centrale, pittorico. Tutto l’involuto, inafferrabile, multiforme vortice del periodo della secessione perviene a un apice e si riassume in un unico breve lampo di folgorante illuminazione – un’unica azione semplice e feroce. Quella fiera culminazione, e per così dire soluzione, di tanti cruenti e irosi problemi, illustra quei momenti di climax sul palcoscenico del Tempo universale in cui la Musa storica a un’uscita e la Musa tragica all’altra, calando improvvisamente il sipario, chiudono un atto immenso nel lungo dramma del pensiero creativo, conferendogli un potere di irradiazione, una prospettiva drammatica più strana di ogni fantasia. Degna irradiazione – degna chiusa ! Come ama la fantasia, la mente dello studioso, queste cose! Anche l’America le avrà. Perché tra tutte le grandi morti, recenti o remote – non Cesare nel Senato romano, o Napoleone che spira a Sant’Elena durante una furiosa bufera notturna non Paleologo che cade, lottando disperatamente, sulle cataste di decine e decine di cadaveri greci – non il vecchio Socrate che beve tranquillo la cicuta – nessuna supera quella conclusione della Guerra Civile nel chiudersi della vita di un uomo, qui in mezzo a noi, nel nostro tempo – quel sigillo all’emancipazione di tre milioni di schiavi – quelle doglie e parto di una nostra Repubblica finalmente e veramente libera, rinata, e da quel momento pronta a iniziare la sua carriera di genuina omogenea Unione, compatta, coerente con se stessa.
Né potranno mai i futuri Patrioti dell’American e dell’Unione su tutta l’estensione del paese, indifferentemente a Nord o a Sud, trovare una migliore morale per la loro lezione. L’utilità finale dei più grandi uomini di una Nazione non ha, dopotutto, rapporto con le loro imprese in sé, o la diretta influenza sul proprio tempo o paese. L’utilità finale di una vita eroichemente superiore – soprattutto di una morte eroicamente superiore – sta nel suo indiretto filtrare nella nazione e nella razza, e nel suo dar colore e tempra spesso a gran distanza ma inevitabilmente, un’era dopo l’altra, alla personalità dei giovani e delle persone mature di quell’epoca e dell’umanità tutta Ecco che allora esiste un cemento che unisce l’intero popolo, più sottile più basilare di qualsiasi costituzione scritta, tribunali o eserciti – e precisamente il cemento di una morte che si è identificata a perfezione con quel popolo, la morte del capo per amor suo. Strano (non è vero?) che battaglie, martiri, agonie, sangue e persino assassini debbano così condensare – e forse sono i soli che realmente, durevolmente condensano – lo spirito di una Nazione.
Ripeto – le grandi morti della razza – le morti drammatiche di ogni popolo – sono i valori più importanti nella sua eredità – superiori per certi rispetti alla sua letteratura e alla sua arte – (a quel modo che l’eroe è superiore al suo più bel ritratto, e la battaglia in sé alle epiche e ai canti migliori). Non sta forse qui il punto chiave di ogni tragedia? delle famose tragedie dei maestri greci, e di tutti i grandi scrittori? Oh, se gli antichi greci avessero avuto quest’uomo, quali trilogie – quale epica – egli non avrebbe ispirato! Come lo avrebbero celebrato i rapsodi! Con che facilità quell’alta, sgraziata figura sa rebbe penetrata nella regione dove gli uomini umanizzano gli dei e gli dei divinizzano gli uomini! Ma Lincoln, i suoi tempi, la sua morte – grande più di ogni altra, in qualsiasi epoca – appartengono esclusivamente a noi, sono autoctoni. (Talora veramente penso che il nostro tempo, l’America, questa nostra scena – gli attori che conosciamo, cui abbiamo stretto la mano e con cui abbiamo parlato – più fatali di qualsiasi cosa si trovi in Eschilo più eroici dei combattenti intorno a Troia – forniscono alla nostra democrazia condottieri d’uomini più fieri di Agamennone – modelli di carattere inge gnosi e tenaci come Ulisse – morti più pietose di quella di Priamo).
Quando, tra qualche secolo (perché dovranno passare secoli, io penso, prima che la vita di questi Stati, o della Democrazia, possa veramente essere scritta e illustrata) i più eminenti storici e drammaturghi cercheranno un personaggio, un qualche evento speciale, abbastanza incisivo da segnare con l’impronta più forte, e rendere memorabile, questo nostro turbolento secolo Diciannovesimo (non solo in questi Stati, ma in tutto il mondo politico e sociale) – forse qualcosa con cui eguagliare la sfarzosa processione del feudalesimo europeo con tutta la sua pompa e i suoi pregiudizi di casta (lungo corteo di cui noi in America siamo ancora inestricabilmente gli eredi) – qualcosa che identifichi, con identificazione terribile, il passo rivoluzionario senza dubbio più grande nella storia degli Stati Uniti (e forse il più grande del mondo, nel nostro secolo), l’estirpazione totale, l’annientamento della schiavitù negli Stati – quegli storici cercheranno invano un punto di riferimento che meglio serva i loro scopi della morte di Abraham Lincoln.
Caro alla Musa – tre volte caro alla Nazione – all’intera razza umana – prezioso a questa Unione – prezioso alla Democrazia – prezioso in modo indicibile, e per sempre – il loro primo, grande Capo martirizzato.
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