Alice e Pinocchio
Appunti per una conferenza tenuta a Napoli per l’Arn (Associazione Risveglio Napoli) il 7 luglio 2007.
Difficile dire cose nuove su due libri su cui si è discusso tanto. Tra gli altri Chesterton, Eliot, Barthes e John Lennon nel caso di “Alice”, Manganelli, Calvino, Ginzburg, Jervis, Fruttero e Lucentini per “Pinocchio”.
Cercherò di dire le mie impressioni su due libri che amo, ho amato da ragazzo ma forse amo ora diversamente.
Sono libri, si potrebbe dire, che si attraggono e si respingono tra di loro, in parte diversi in parte complementari, sono ambigui, non facilmente definibili come tutti i libri che noi diciamo scritti per bambini e che poi sono letti, spiegati a forza ai bambini e commentati da adulti.
Cercherò di unirli in un tratto. Sono libri scritti da adulti che ricordano, rimpiangono, rivisitano il dolore e la gioia della loro infanzia. Scritti per bambini e per adulti ma soprattutto per il mondo interiore, senza età, dei loro autori.
Veniamo agli autori, ai due Carlo.
Lewis Carroll, ovverosia Charles Dodgson, nasce nel 1832, scrive “Alice” circa a trent’anni.
Collodi, ossia Carlo Lorenzini, nasce nel 1826 e scrive “Pinocchio” sui cinquant’anni.
Tutti e due hanno un’infanzia segnata da periodi di libertà e da altri di studio rigido e oppressivo. Carroll nasce in una famiglia ultravittoriana e religiosissima, il padre è parroco. Ma il giovane Charles vive un’infanzia felice in una fattoria del Cheshire fino a 11 anni, poi inizia un severo periodo scolastico che lui ricorda senza simpatia: alla public school di Rugby e poi a Oxford. Questi studi lo portano verso la matematica, che insegnerà, e al ruolo religioso di diacono.
Lorenzini è di famiglia povera, padre cuoco e uno zio pittore, artista, un’infanzia tormentata segnata da molti lutti e periodi di miseria. Studia in seminario dagli scolopi, e dopo varie vicissitudini (combatte anche a Montanara) sceglie il giornalismo.
Una aristocratica e tranquilla Oxford per Carroll, e una giovinezza povera in un’inquieta Toscana per Collodi. Due mondi abbastanza diversi.
Basterebbe confrontare la scena del tè del cappellaio matto e la pentola disegnata sul muro della casa di Geppetto, il sogno contadino di abbondanza.
Per tutti e due gli autori c’è la cataclisi, il momento che li spinge a questo libro.
Per l’incolore, ubbidiente, balbuziente Carroll è l’incontro con Alice Liddell e le sue sorelle. La sua infanzia nella fattoria, che lui credeva finita, torna, giocosa e ammaliante, sotto forma di tre ninfe. Ma, per favore, lasciamo stare Nabokov. Basta leggere l’inizio di “Lolita”, che è libro di passione dichiarata e senza limiti, per vedere la differenza. Lasciamo agli psicanalisti le interpretazioni sulla passione di Carroll, quella di fotografare bambine. L’eros in “Alice” è, in chi vuole trovarlo, a disposizione del lettore. Tenniel disegna Alice bruttina, Disney, l’ambiguo malvagio geniale Disney, la farà sexy, per quanto potevano le sue tante censure.
Ma Lolita è la rovina di Humbert Humbert, Alice è la salvezza di Carroll.
Dopo aver incontrato Alice il grigio serioso reverendo diventa un affabulatore, un narratore brillante, un creatore di nonsense, finalmente gioca, e vicino alla serietà, alla “spoudè” appare la “paideia”. La sua palandrana sale e corre a gambe nude.
Più difficile è ricostruire l’invenzione di Pinocchio, da quale legno provenga. Lorenzini è stato dipinto come uomo gaudente, mazziniano, polemico, vivace, donnaiolo. Giornalista satirico, con intenti didattici. Traduttore di Perrault. Poi anche lui sembra scoprire un nuovo progetto di scrittura: vuole scrivere per i bambini, ma in modo nuovo. Dapprima scrive un “Pinocchio” a puntate. Per pagare un debito di gioco, sostiene qualcuno. Pinocchio in questa versione muore impiccato, e non in modo sfumato, è una scena violentissima, da libro horror. Poi torna in vita per le proteste dei bambini, e forse per nuovi debiti.
La domanda su questi due libri è sempre la stessa. Sono libri per bambini? Sono libri che hanno come eroi due ragazzini. Ma sono ambigui e non semplificati, non pensati per piacere a tutti i bambini.
Carroll dedica il libro ad Alice, rendendola subito protagonista. Alcune allusioni del libro sembrano quasi scritte alludendo a un segreto privato, un codice tra lui e le bimbe: alcuni giochi di parole, si è detto, potevano essere capiti solo nella Oxford di quei tempi.
Quello che succede in “Alice” non è quello che ci si aspetta da un libro per bambini, “Alice” è un libro complesso e molti bambini lo trovano incomprensibile e irritante (anche tanti adulti…).
“Miei piccoli lettori”, dice all’inizio Collodi, come per rassicurare sulle sue intenzioni.
Però anche lui cambia le regole e va verso qualcosa di sorprendente. Una fiaba realista in cui il primo nemico di Pinocchio non è un orco ma un carabiniere. Sono i libri di due ex-bambini, di due adulti che ricordano terrori e gioie della loro infanzia, la reinventano, la rimpiangono. Due adulti che sono ancora per metà bambini confusi, delusi, avidi, avventurosi, polimorfi, e per l’altra metà razionali, didattici, morali.
Sono libri allegri e pieni di ombre dolorose perché riflettono sulla morte dell’infanzia. La necessaria fine dell’infanzia, che solo se la si racconta può rivivere. Di autori che sanno che il mondo non è fatto per i bambini. Questo è il fascino ambiguo del loro libri, nei quali uno scrittore adulto parla a un bambino e racconta il suo essere bambino ad adulti, oppure uno scrittore bambino si racconta agli adulti.
Passiamo alle differenze.
Carroll è un matematico pieno di fantasia repressa, di nascosta anarchia. Collodi è un giornalista battagliero cui la cronaca, la quotidianità, non bastano più.
Alice è sognatrice. “Let’s pretend”, immaginiamo, facciamo il gioco di sognare insieme è il suo motto.
Alice non è soltanto il sogno solitario, è la fantasia condivisa. Ma nel libro non gioca mai con altri bambini, solo con creature del suo sogno.
Pinocchio è avventuriero, esploratore. Non pensa molto né sogna, parte e poi ci pensa su. è la fantasia del quotidiano, è la pentola sul muro, è il vagabondare del ragazzo di strada. Lui con gli altri bambini ci fa a botte.
Il mondo di Carroll è quello del sogno quindi non è gerarchico, non valgono le misure della realtà. Il professor Carroll, finalmente libero dalla matematica, scatena la dismisura onirica. Alice precipita a rovescio, si allunga e rimpicciolisce, mentre cade non sta zitta un momento. Si è parlato anche per queste visioni di uso dell’oppio e del laudano. Come se fosse necessario un additivo per un normale fantasticare. La rasgressione di Carroll è rendere Alice scandalosamente imprevedibile e smisurata. Nelle modificazioni del corpo e delle leggi fisiche, ma anche nel sabotaggio del senso che sconvolge le filastrocche, le canzoni, i versi e le conversazioni, perfino le materie scolastiche, dove vicino alla matematica appaiono “bucato e svenimento nelle resse” . Di tutto si deve dubitare nel sogno. Con Alice, Carroll sogna tutti i giochi che non ha potuto fare o non può più fare. Girotondi, corse caucus, danze con aragoste, quadriglie, battaglie. Il movimento di Alice è cadere, ruotare, danzare, fluttuare nell’acqua, avanzare come scacchi – tutti movimenti onirici.
Pinocchio è l’esploratore di un mondo reale, che la sua diversità genetica rende fiabesco. è un burattino senza fili, quindi diverso dagli uomini ma anche dai burattini, un polemico come Collodi. Imprendibile. Il movimento di Pinocchio è correre, scappare, essere inseguito. Battersi, venir divorato e divorare. Il movimento dell’avventura di strada.
Alice e Pinocchio hanno ambedue un monologo interiore continuo. Pinocchio ha il grillo come coscienza, ma per tutto il libro dialogano in lui una parte ribelle e una docile. Tutti lo sgridano, ma anche lui si sgrida da solo, pecca e si pente. Non è né buono né cattivo.
Anche Alice ha sempre qualcuno che la interroga, che la mette alla prova, che vorrebbe stordirla, in una parodia dell’invadenza pedagogica vittoriana. Incontra ambigui maestri, anche lei non è né buona né cattiva, non compie cattive azioni come Pinocchio, ma assiste a cattive azioni senza muovere un dito.
Devono andare verso il loro destino infantile, verso la loro meravigliosa curiosità, affrontando il sadismo degli adulti.
Ma non possono andare fino in fondo, essere liberi per sempre. L’infanzia muore. Alice deve dichiarare di aver sognato, deve rientrare nella normalità nel senso. Pinocchio deve diventare bambino, accettare di avere una morale.
Le reazioni dei lettori. “Alice” ebbe successo ma qualcuno la giudicò eccessiva, e qualcosa che non sappiamo fece arrabbiare la madre di Alice, interrompendo l’amicizia con Carroll. Poi venne “Dietro lo specchio”, e qui col meccanismo degli scacchi Carroll cercò di imbrigliare, di regolamentare la sua fantasia. Non tanto da darci però episodi terrificanti come il tricheco, o Humpty Dumpty.
Di “Pinocchio” parecchi dissero che era un cattivo esempio. Il successo non fu immediato. Venne poco alla volta.
Altre differenze. In “Pinocchio” c’è l’ossessione del danaro e del lavoro. Collodi socialista, qualcuno ha detto. La casa di Geppetto è povera, Geppetto scolpisce Pinocchio non per fini artistici, ma per avere un figlio-partner, per andare in giro per il mondo a fare spettacoli, insomma per fare un po’ di soldi. Il danaro c’è sempre, nel libro. Per diventare ricco Pinocchio investe, affronta i capitalisti, vende e compra in continuazione, ha l’ossessione del povero per il baratto, per il mercato: poi non vuole lavorare ma dovrà farlo, lavorerà come una bestia. Farà il cane e l’asino, per guadagnarsi il pane.
In “Alice” di danaro non se ne parla. Non si lavora mai, si gioca a croquet, si fanno girotondi, si preparano cene, si prende il tè, si duella inutilmente, si mettono in scena processi inutili. Addirittura nella scena del tè i partecipanti sono così pigri che pur di non lavare le tazze cambiano posto a tavola. Il cappellaio non fa cappelli, il carpentiere mangia ostriche, il ghiro dorme. Si canta tantissimo e si danza. Solo quando appaiono le carte della regina, ecco entrare in scena i lavoratori, vessati e minacciati.
Caratteristica comune ai due libri è il divoramento.
Pinocchio ha una fame smisurata, ce l’ha per tutto il libro. Ce l’ha Mangiafuoco col suo montone, ce l’hanno il gatto e la volpe, ce l’ha il pescecane. è la fame contadina..
Alice mastica funghetti, torte, biscottini. Ma in tutto il libro c’è il divoramento come ossessione, come notazione sessuale. Si mangia e si beve sempre, in modo esagerato e minaccioso, con nuvole di pepe e furti di torte. Il tricheco e le ostriche è forse l’episodio in cui il divoramento sessuale è più svelato.
Comune è anche l’incontro con gli animali, con le loro pulsioni.
In “Alice” c’è uno zoomorfismo fantastico, araldico, librario e quasi sempre ambiguo, è difficile separare natura umana e animale o minerale.
In “Pinocchio” c’è uno zoomorfismo da fiaba, però da fuoco nel camino. Animali semplici da cortile. Più umani che altro.
Quindi per Alice il dodo, il tricheco mangiaostriche, il liocorno, il grifone, la finta tartaruga, le creature-scacco, il bianconiglio, il bambino maiale, la regina che è una carta da gioco, il bruco zen, il gatto fantasma, e le creature del jabberwocky. E anche un topo e un cerbiatto normali.
Per Pinocchio il grillo, il gatto, la volpe, il falco, i medici gufo e civetta, il can barbone in livrea, il buon mastino, il serpente gigante, il pescecane, la lumaca e tanti asini.
Il rapporto con gli altri. Alice non incontra altri bambini, Pinocchio sì. Ma soprattutto incontrano adulti. E sono spesso ambigui, mascherati.
L’infanzia ricorda i suoi tradimenti, tutti coloro che hanno detto di amarla. I cattivi non sono mai quelli che si presentano come cattivi.
In “Pinocchio”: Mangiafuoco è un burbero cuor d’oro. Il cagnaccio mastino è buono. Il serpentone muore dal ridere; il pescecane lo lascia andare. Lucignolo è un bulletto ma in fondo è un amico.
Il gatto e la volpe invece si presentano come buoni e sono pestiferi. Sono degli speculatori, dei faccendieri. Finiscono male e questo dimostra che Pinocchio è una favola.
Non sono buoni i carabinieri, i dottori saccenti, il giudice gorilla, l’oste, l’omino di burro che canta nel buio. Il grillo è un rompipalle, un po’ noioso, un professorino. Il bruco di Alice è più ironico. La fata si diverte a fingere di morire, appare in una bara, si fa negare. Seduce e scompare. è una sadica. Geppetto, anche se litiga per una parrucca e ha spesso un buonsenso minaccioso, è buono, ma non dimentichiamo che ha creato Pinocchio per lo show, prima di sceglierlo come figliolo.
“Alice”. è un po’ difficile distinguere buoni e cattivi nel nonsense. Tutti la mettono in difficoltà, la interrogano. Se Pinocchio deve cambiare moralmente, Alice deve vagare nel labirinto della sua ambiguità sognante e trovare un’uscita razionale. è uno scontro interno a Carroll.
Il gatto del Cheshire è un gatto beffardo, un sorriso senza gatto, un’immagine dell’humour inglese. Quanto diverso dal gatto di Collodi! Il bruco è un monaco zen che la inizia alle droghe. Il raduno del tè e la corsa caucus sono raduni di oziosi sballati. La casa della duchessa, il croquet, tutta una sfilata derisoria di aristocrazia fantastica.
La regina delle carte, con il suo grido “tagliatele la testa!”, non è la vera cattiva, nessuno le dà retta. Sembra una provocatrice televisiva, tutti sanno che fa parte del gioco, è una travet del ghigno.
I tranelli più insidiosi per Alice sono nascosti.
In “Dietro lo specchio”, molto inquietante è Humpty Dumpty, l’uomo uovo.
Sua la frase più minacciosa del libro, il riassunto dei fantasmi di Carroll.
“Intendo dire”, disse Alice, “che uno non può fare a meno di crescere.”
“Uno forse non può”, disse Humpty Dumpty, “ma due possono. Con un aiuto adeguato, avresti potuto fermarti a sette anni.”
E potremmo continuare la serie “nera” con le tre sorelle nel pozzo di melassa, la favolina del ghiro. E, come già detto, con il tricheco che sbrana le ostriche.
In quanto al jabberwocky non è solo un mostro linguistico. È il mostro non visto, quello dietro la porta. I bambini (e gli adulti) temono ciò che non vedono, ciò che la loro immaginazione renderà pauroso. E Alice immagina: in questa poesia qualcuno uccide qualcuno.
Come la misteriosa bimba morta, in “Pinocchio”. La paura di qualcosa che nessuno ti spiega, la paura solitaria. Il non rispondere al mondo ai bambini. Il silenzio indifferente alle loro domande.
Ce la fanno i nostri eroi?
Per alcuni, no. Manganelli dice che Pinocchio si suicida. Alice deve tornare alla sua noia.
Oppure sì, diventano piccoli esempi di libertà per tutti. Ma a caro prezzo.
Li salva la loro ostinata natura, la loro difformità. L’onnipotenza plastica da cartoon di Pinocchio gli fa passare prove terribili: ha i piedi bruciati, fa a botte, viene impiccato, fritto, imprigionato, mangiato dal pesce, trasformato in asino ma sotto resta legno duro, burattino, è la sua fisicità popolana: resiste a tutto. E alla fine avrà un padre.
Ad Alice viene tolta la misura, la metrica del “perbene”, precipita, viene ingrandita, rimpicciolita, annegata nelle lacrime, minacciata di morte, drogata, non riesce neanche più a ricordare le canzoni. Resiste in quanto sognatrice avventurosa e coraggiosa, riesce a non avere paura, a rientrare dai suoi sogni e riprovare. “Let’s pretend”.
Lo stile. Quello di Collodi è un italiano bellissimo, pieno di fiorentinismi. Come è stato scritto, “senza idiotismi né riboboli”. Comencini ci andò vicino, Benigni pensò solo a un prodotto per americani. Il jabberwocky di Collodi è il discorso del padrone del circo.
In Carroll tutta l’arte del nonsense è squadernata, si gioca tra la matematica e la follia, la letteratura colta e la filastrocca.
Scrivono tutti e due meravigliosamente. Non semplificano per i bambini.
Dove si incontrano? Dove volete voi. Nei Beatles, in Carmelo Bene, in “Zazie nel metrò”, in Leonora Carrington e in Angela Carter. Nei disegni di Tenniel, Mazzanti, Molino. Ovviamente in Walt Disney. Disney fece un Pinocchio fasullo perché Disney non sapeva niente dell’Italia: vedi il grillo che canta come Frank Sinatra. Il “Pinocchio” di Disney sarà “Dumbo”. E “Pink elephants”. Ecco, andate a sentire quella delirante, divertente, minacciosa canzone. Tre minuti di crimine nel codice Disneyano. Forse è lì che si incontrano Alice e Pinocchio. Oltre che in ognuno di noi.
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