Alberto Arbasino. Con un bel punto interrogativo.

“…Ma a Villadeati in quella domenica ormai lontana come Via col vento la banda del paese suonava monferrine da una loggia, e ‘c’era tutta Milano’. Giangiacomo [Feltrinelli] dava le salsicce e il pollo a Wally Toscanini che diceva (come Gadda) ‘che bontà, che bontà’, seduta sul prato, Giannalisa e Inge vestite di rosso si parlavano in tedesco…” eccetera. Arbasino ha scritto pezzi incomparabilmente più di questo assatanati e mozzafiato e farciti di allusioni per vent’anni deliziose a lettori in deficit di ‘classe’. Ma qui si parla della morte di un noto editore, in circostanze feroci e oscure. Allora l’elegia assume un peso proporzionale al giudizio che diamo degli eventi. Sembra scritta da uno che vorrebbe sullo sfondo qualcosa di grandioso e abietto per meglio far rilevare la nobiltà ironica del tratto. Arbasino sa bene che i suoi tic e le sue vivaci moine assumono senso solo se campite su eventi terribili. Eroe della futilità, sembra aver sempre in serbo il ‘viva la morte!’, che gridano i protagonisti alla fine dell’ultimo atto dell’Andrea Chénier. (…) Ma ha un orecchio quasi infallibile per cogliere i mutamenti nella lingua conversativa dei ceti medi e medio-alti”. (F. Fortini, Arbasino, in Breve secondo Novecento, Manni 1998, p. 9).
Scritta nei primi anni Ottanta, questa rapida scheda di Fortini (poi raccolta in Breve secondo Novecento) identifica, con l’aggressività che nasce dalla competizione, due caratteri essenziali dell’identità di Arbasino. Due tratti che equivalgono ad altrettanti segnali della sua diversità rispetto agli altri letterati italiani del suo tempo: una diversità che definirei stilistica e un’altra che definirei morale.
La diversità stilistica è allusa nel cenno conclusivo a quell’“orecchio quasi infallibile per cogliere i mutamenti nella lingua conversativa dei ceti medi e medio-alti”. Per sentirlo all’opera, l’orecchio in questione, basta rileggere l’incipit di Fratelli d’Italia:
“Siamo qui da un’ora all’aeroporto senza colazione aspettando due amici di Antonio che arrivano adesso in ritardo da Parigi; si mangerà un pesce se si farà in tempo sul molo, in un bel posto degli anni scorsi che forse però quest’anno già non va più tanto bene; e non abbiamo ancora avuto un momento per parlare della nostra estate, che ormai è qui. Arrivato a casa sua (…) ho appena fatto in tempo a lasciar giù le mie robe. Una doccia svelta. A dormire: erano le quattro del mattino, lungo l’Aurelia m’ero fermato a far delle piogge nei pineti neri fra Viareggio e Pisa. Fratte, ginepri, mirti, giochi molto sportivi. E già quasi estivi, tutti: e così vanesii, così narcisi… ‘Tante coccole? molto aulenti? certe magari aulentissime?’… Macché, botte da urbi et orbi, e un gran buon odore di gocciole e sventole sulla pelle: un after-shave di caprifoglio appena fiorito, splendido”.
Ecco l’inconfondibile voce di Arbasino, così modulata in ogni singola pagina di ogni suo singolo libro: tono conversevole e acuto, brillante e scorrevole, fa sembrare agevole ciò che per gli scrittori italiani è stato sempre difficile: trasformare in parola letteraria la lingua parlata, la chiacchiera, il gergo, il codice interno della borghesia. E poi la velocità del pensiero, la mobilità delle citazioni e dei nessi (che la sintassi spesso condensa in elenchi di idee e di modi di dire): nelle sue pagine gli interlocutori dopo un po’ scompaiono e rimane solo il colloquio; la vita intera si riduce a cultura, con tutto il divertimento, le scoperte e le rimozioni che questo comporta. Altra e più strutturale forma di mobilità, la capacità arbasiniana di muoversi con disinvoltura fra saperi diversi e lontani: la letteratura, stella polare, in lui si circonda – lo ha notato Roberto Calasso – di altre costellazioni essenziali (il cinema, la Scala, le compagnie di giro; i reportage dai luoghi della cultura – Londra, Parigi, l’America). Da un lato la tradizione letteraria, non solo italiana, assimilata in profondità – qui i rinvii alla Pioggia nel pineto di D’Annunzio (“Tante coccole? molto aulenti? certe magari aulentissime?”); dall’altro, una sensibilità postmoderna, vorace di ogni sapere, che integra la serietà della tradizione moderna con il suo rovescio parodico e ludico: per cui la retorica dannunziana si mette al servizio di un’antiretorica immagine camp (“Macché, botte da urbi et orbi, e un gran buon odore di gocciole e sventole sulla pelle”). Last but not least, sulla scena c’è un eroe intellettuale giocoso e senza complessi, molto diverso da quello suggerito in quegli anni da Pasolini o Penna o Testori. La loro è un’omosessualità tragica, e autobiografica, forte del suo sentirsi esclusa, sensibile all’oltretempo, cioè al mito. Arbasino vi oppone un’omosessualità ironica e pragmatica, incline piuttosto a escludere gli altri; leggera, edonistica, attratta dal presente. Incapace, nel bene e nel male, di ingenuità e di dolore.
Prima di Arbasino, questo stile nella nostra narrativa non c’era (c’era il pastiche di Gadda, nel senso di prosa che rifà un’altra prosa e include insieme il sublime e il pecoreccio: ma con un’angoscia del mondo e una pietà di sé e degli altri che Arbasino non ha mai sperimentato). Dopo Arbasino, questo stile diventa assai imitato e si riduce a moneta corrente in una nicchia – talvolta spogliato di molte mediazioni e mescolato alla vita (come per esempio in Tondelli), talvolta semplificato all’eccesso e privato di humour e grazia. Altre inquietudini, altri tipi di talento, altre stagioni. L’intelligenza di Arbasino ha incontrato, inciampandoci dentro, una faglia della storia: la sua generazione, che è poi quella di Eco e Sanguineti, è stata l’ultima a formarsi nel culto umanistico della letteratura – l’ultima che a vent’anni d’età aveva già letto tous les livres (“uno al giorno e magari due o tre”); ma anche la prima a confrontarsi davvero con l’avvento della comunicazione di massa. Dai padri o fratelli maggiori – come Gadda o Moravia – ha appreso, appunto, l’orecchio, che gli ha permesso di godere della “bellezza stilistica della parola scritta, specialmente in lingua italiana” (così riassumeva Parise); dalla cultura del boom economico ha imparato a considerare plausibile e utile più o meno ogni segno, anche il più inautentico e kitsch, e a farne materia di arte mescolando cultura di massa e cultura d’élite. Il gioco adesso è “sdato”, come direbbe lo stesso Arbasino; in troppi tra artisti e professori ne hanno approfittato, facendo indigestione di pop e giocando al ribasso per produrre bestseller. Lui, Arbasino, è stato il più rigoroso, o il più snob. Il più indifferente al lettore, il più lontano dalla politica, il più soddisfatto, credo, di se stesso; per cui davvero ci si chiede, con Fortini, se la sua sventura non sia stata quella di vedersi sottratta dalla storia un po’ di persecuzione e un po’ di rischio. Certo la sicurezza, e la sprezzatura che ne deriva, non gli sono mai mancate: di qui la puntuta ironia verso tanti suoi compagni di strada (ad esempio Eco, colpevole di avere stravenduto “oggetti apparentemente complessi”), di qui la resistenza a ripetere certe formule narrative degli inizi (Le piccole vacanze, L’anonimo lombardo), che avrebbero potuto avvicinarlo a un pubblico ampio. Da un certo punto in poi Arbasino dismette il racconto e prende a mescolare con totale libertà le forme più diverse, con qualche preferenza per quelle preletterarie e paraletterarie: diario, lettera, intervista, conversazione, recensione, giornale di viaggio, reportage culturale. “Per scrittori così, che tendono a praticare tutti i generi e a reinventarli, più che l’opera conta lo spettacolo dell’autore in attività”, nota giustamente Berardinelli. Dopo il ’68 e dopo la neoavanguardia, mentre il romanzo si abbassava, con suo grande scontento, “al livello del fruitore”, Arbasino taglia via del tutto la sua biografia interiore e si concentra sulla critica della cultura e della società; da quel momento il senso della sua opera si ritrova, più che un singolo volume, nella sua voce in scena; ed è una voce corazzata di ironia.
Arriviamo con questo al secondo tratto essenziale, alla seconda “diversità” di Arbasino. Per meglio far rilevare “la nobiltà ironica del tratto”, niente di meglio che “qualcosa di grandioso e abietto sullo sfondo”. Grandiosa e abietta, per Arbasino (come per il suo gemello diverso Pasolini), è naturalmente l’Italia, gli italiani – amati e odiati sempre, indifferenti mai; enigmatici e ambivalenti fin dai ricordi d’infanzia, e di guerra, a Voghera (“da ragazzini si vedevano degli anziani signori… persone grigie, burocratiche, apparentemente normalissime… che diventavano improvvisamente sanguinari crudelissimi torturatori…”). La guerra negli anni del boom sembra lontana, ma di eventi terribili son pieni i vuotissimi (per Arbasino) anni Settanta; ammazzamenti, stragi, finte rivoluzioni – eccoli, i fatti sui quali campire non solo “tic stilistici e vivaci moine”, ma anche analisi spiazzanti e irriverenti: la distopia di un Paese che non sa più godere. L’Arbasino narratore di racconti e di romanzi si congeda, il suo posto viene preso da una via di mezzo fra un saggista, un aforista, un memorialista settecentesco, un reporter culturale che spesso esagera in tour de force di erudizione anche mondana (“nove decimi del suo sistema di riferimenti e allusioni”, infierisce Fortini, “è destinato a diventare muto o bisognoso di note filologico-storiche”); ma che d’altra parte sa interpretare con originalità e disinvoltura, e senza pregiudizi, quel ruolo di scrittore “civile” che in Italia è spesso a rischio di moralismo, pesantezza ed enfasi.
La transizione è esplicitata all’inizio di In questo Stato, scritto nei giorni del sequestro Moro – l’evento terribile per eccellenza – allo scopo di registrare letterariamente a caldo, e a nudo, “ciò che si stava dicendo e sentendo e scrivendo e vivendo in giro, “negli ambienti più diversi” (…), perché durante i grandi spasimi come questi l’Italia smaschera più sfrenatamente i propri caratteri e connotati più autentici, e i più profondi fantasmi”. I mezzi sono i soliti e i soli a disposizione di uno scrittore, l’intelligenza della lingua parlata e scritta; ma la struttura non è più quella del romanzo:
“Mi sono convinto che la struttura formale più adatta stavolta non fosse un romanzo ‘classico’ e ‘storico’ come Fratelli d’Italia, composto durante il “boom”, oppure un romanzo a “frammenti mobili” come Super-Eliogabalo, composto nel ’68, ma appunto questa performance aperta, spalancata. Registrazione e rappresentazione ‘personale’ e ‘politica’ rimescolata con gli infiniti paragoni e rinvii che emergono spontanei o coatti dalla cultura, dalla letteratura, dai precedenti storici, dalle analogie inevitabili, dalle conversazioni continue fra la gente per questi interi due mesi”.
Forse è opportuno, qui, un piccolo inciso. Sono molto interessanti tempi e modi con cui i letterati italiani si sono occupati del delitto Moro, e degli anni di piombo in generale. Dalla metà degli anni Settanta fino ai primi anni Ottanta, la narrazione scritta della lotta armata è costituita soprattutto da spiegazioni esterne alla letteratura: parlano dell’argomento perlopiù i giornalisti, gli storici, i sociologi. Gli scrittori allora già affermati si misurano col tema in modo quasi sempre timido, innestandolo nel tronco del racconto di introspezione borghese (Moravia, Ginzburg, La Capria) o dell’incipiente fiction postmoderna (Tabucchi, Vassalli, a suo modo Il nome della rosa, di Eco, che nel travestimento allegorico del romanzo storico parla anche di terrorismo). Già all’inizio degli anni Ottanta, quando nelle strade si spara ancora tanto, gli esordienti più giovani e importanti si allontanano ostentatamente dalla cronaca e guardano altrove, il più lontano possibile. In molti libri-chiave di inizio decennio – Seminario sulla gioventù, Altri libertini, Treno di panna – i temi dominanti sono quelli molto arbasiniani del viaggio e della fuga. Insomma, durante gli anni di piombo i romanzieri italiani hanno perlopiù parlato d’altro; la lotta armata diventa una moda letteraria solo molto dopo la lotta armata – all’inizio degli anni Zero, quando se ne impossessano i protagonisti in cerca di redenzione – i memoir dei terroristi, spesso a quattro mani – o le scritture di genere – i thriller, i noir, i gialli con pretese letterarie – o nuovi romanzieri massimalisti e impegnati in cerca di grandi temi, grandi azioni, new italian epic.
Ci sono, naturalmente, due eccezioni – Balestrini e Sciascia. Ma se il percorso di Balestrini non può intersecare quello di Arbasino in nessun modo (Balestrini resta per lui quello che voleva far pubblicare al Gruppo 63 le risoluzioni delle assemblee extraparlamentari…), la parabola di Sciascia – altro gemello diverso – è invece affine, almeno all’altezza dell’Affaire Moro. Qui, come si sa, un’ipotesi sul caso è formulata a partire dall’interpretazione delle lettere spedite dalla prigione del popolo. Arbasino fa qualcosa di molto simile, ma allarga la visuale a tutto il detto e lo scritto nei giorni del sequestro; non si limita a leggere le lettere di Moro (per Sciascia soprattutto tragiche, per Arbasino soprattutto imbarazzanti); legge ad esempio anche quelle, coeve, dei giovani di Lotta continua; mette insieme tutto, e di tutto fa antropologia, come sempre nella sua esplorazione mentale del Paese.
In In questo Stato e in Un paese senza Arbasino fa insomma, ’in diretta’, addirittura il contrario di quello che avrebbero fatto, dopo, più o meno tutti gli altri. Innanzitutto si disinteressa completamente al terrorismo come grande azione epica, come pulsazione irripetibile e sublime della Storia; anzi ne vede il lato orribilmente cancerogeno, e noioso addirittura (con una profezia esattissima su quello che sarà, poi, quasi tutta la nostra letteratura sugli anni di piombo):
“Il terrorismo sarà drammatico, sarà tragico, sarà una tragedia nazionale lunghissima, intensamente sofferta da tutti, come quelle tragedie interminabili dell’età barocca, e soprattutto in un paese così verboso? Ma è “interessante”, o è ripetitivo e noioso, noioso come la sua letteratura, i suoi documenti, i suoi scritti?
Si può morire, di una malattia noiosa. Anzi, di solito si muore per malattie noiose; e che sia il terrorismo o l’infarto o il cancro cambia poi molto? Ma trovare interessante il terrorismo sarà come trovare interessante il cancro, scrivere e leggere romanzi sul cancro, le testimonianze di chi l’ha avuto e ha tenuto diari, con primari di cliniche, e specialisti del cobalto? Forse per questo, generalmente, “si parla d’altro” fino all’ultimo?”
Il terrorismo, per lui, è anche e soprattutto una creazione dell’industria culturale (“Esiste proporzionalmente alla frequenza degli articoli, dell’ampiezza dei titoli, dell’abbondanza dei commenti, alla “filosofia” che traccia collegamenti e raccordi”). E allora vale soprattutto come chiacchiera (“Giornaletti e libretti dicevano: bisogna sparare! E poco dopo: ma si parlava così, tanto per parlare”). Così mentre tutti si concentrano sui fatti, Arbasino si sofferma a riflettere sulle parole, senza cedere a nessuna congettura – “per un’ovvia distinzione tra Memorialistica e Fiction”. Eccoli quindi i giovani di Lotta continua: “un fiume di piangersi addosso per una disperazione che suona indubbiamente autentica” (in lettere in cui “dicono e sanno che ‘non sono riusciti a esprimersi’, benché abbiano già l’età in cui la maggior parte dei poeti ha già espresso tutto”). Ed ecco Moro, autore e protagonista di un romanzo epistolare “di non alto profilo”:
“Nel ‘caso Moro’ era interessante anche l’argomentazione del ‘sangue che ricade su’: la medesima di Misura per misura, dove l’iniquo governatore dice alla virtuosa monaca che se non cede alle sue impure brame il sangue del fratello innocente ricadrà non su di lui ma su di lei. Sugli schemi di ricaduta del sangue, che non segue mai la legge di gravità (ma uno schema di paranco mirabile detto ‘polispasto’, lo si studiava nella fisica antica), sarebbe interessante allestire un grafico o un plastico, per seguirne i funzionamenti e le sindromi (analoghi al ‘se mi drogo è colpa vostra’, o al goliardico ‘De Gasperi, chi l’ha in culo si esasperi!’)”.
Possiamo concludere ricollegandoci all’ipotesi iniziale. Arbasino è stato un eroe della futilità, un virtuoso della goliardia intellettuale, e questo è solo uno dei tanti suoi “Viva la morte”? O il suo è stato un modo diverso ma non vano, crudele ma non sciocco, di registrare, interpretare, attraversare l’Italia e gli italiani – il suo modo di essere scrittore civile? La leggerezza pungente e a volte frivola di Arbasino non è tutto sommato complementare alla pesanteur a sfondo ascetico di Pasolini, Sciascia, Fortini, Morante (“I miei rapporti con Elsa Morante erano pessimi, perché erano ottimi quelli con Moravia…”)? Nel solco di Gadda, che diceva: “Lo stipendio della Rai e in più la coscienza inquieta! Ma sono lussi che la mia generazione non si è potuta mai permettere!”. Sono culture che si escludono, oppure che si integrano?
Resta un bel punto interrogativo. Come nelle parole di Teresa Cremisi, che ricordava Arbasino nove giorni prima della sua scomparsa:
“Alberto Arbasino, quando ancora lavoravo alla Garzanti, mi inviò un manoscritto che lessi. Si intitolava Un paese senza. Era un titolo strano. Gli chiesi: senza cosa o senza chi? E lui mi disse, guarda che l’elenco è lungo e lo trovi nel libro. Senza memoria, senza storia, senza passato, senza grandezza, senza dignità, senza programmi, senza progetti, senza testa e senza gambe. E via di seguito. Alla fine scrisse: senza avvenire? Con un bel punto interrogativo. Gli chiesi se non aveva esagerato nell’elencare i mali italici. Rispose che era il solo modo che conosceva per dimostrare il suo patriottismo e che bisognava guardare le cose come stavano davvero per tentare di porvi rimedio. Rispondere a quell’interrogativo dipendeva solo da noi. Dalla risolutezza con cui avremmo affrontato la tempesta e il possibile naufragio. Mi pare un insegnamento ancora prezioso”.