Afghanistan. Guerra e democrazia
(disegno di Armin Greder tratto da Noi e loro, Else edizioni 2019)
È la storia di una elezione più volte rimandata, poi “sospesa”, infine boicottata e contestata, quella delle presidenziali che si sono tenute il 28 settembre nelle 34 province afghane. Un’elezione che avrebbe dovuto saltare, resa superflua dalla firma di quell’accordo tra i Talebani e l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, che il presidente Usa ha prima cercato e poi invece sabotato con un dietrofront improvviso e inaspettato. Un’elezione i cui risultati sono ancora incerti nel momento in cui scriviamo, ma che entrambi i candidati più accreditati, l’attuale presidente Ashraf Ghani e il “chief of executive officer” Abdullah Abdullah, rivendicano di aver vinto.
Una storia già sentita, per molti afghani e per gli osservatori di questo Paese che ha appena celebrato i 100 anni dall’indipendenza dagli inglesi e registrato i 18 anni dall’inizio dell’intervento militare degli Stati Uniti, quel 7 ottobre 2001 che ha condotto al rovesciamento dell’Emirato islamico dei Talebani, alla più lunga guerra degli americani e a troppe morti civili.
Le dichiarazioni di vittoria di Ghani e Abdullah aggiornano una saga che li vede antagonisti da molti anni. In particolare dal ballottaggio delle precedenti presidenziali, nel giugno 2014. Dopo il conteggio dei voti, entrambi si accusavano di brogli. La temperatura politica aveva raggiunto i massimi livelli. Intervenne il “pompiere” John Kerry, allora segretario di Stato Usa, che minacciò: “fate i bravi, altrimenti ritiriamo soldi e soldati”. È nato così un governo di unità nazionale con Ghani presidente e Abdullah quasi primo ministro (posizione non prevista dalla Costituzione) che ha paralizzato le attività dell’esecutivo e istituzionalizzato il conflitto che voleva sanare. A distanza di 5 anni, a contendersi la poltrona dell’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, sono sempre loro due: il sistema politico non è riuscito a esprimere candidati alternativi sufficientemente forti.
In ballo questa volta però non c’è soltanto l’antagonismo personale tra Ashraf Ghani, il pashtun ex tecnocrate già docente in prestigiose università statunitensi, poi ministro delle Finanze e rettore dell’università di Kabul, accentratore convinto di incarnare lo Stato, e Abdullah Abdullah, l’eterno sfidante, oftalmologo di formazione, già braccio destro del leggendario “leone del Panjshir”, il comandante Massud, e rappresentante del partito a maggioranza tagica Jamiat-e-Islami. In ballo c’è anche la residua legittimità del sistema creato dopo il rovesciamento dell’Emirato islamico, il governo dei Talebani bombardati alla fine del 2001, esclusi dagli accordi di Bonn e poi corteggiati diplomaticamente dagli Stati Uniti: almeno finché Donald Trump non ha mandato all’aria il negoziato tessuto a Doha per quasi un anno dal suo inviato, Zalmay Khalilzad, con la delegazione degli studenti coranici guidata da Abdul Ghani Baradar. Non un barbuto qualsiasi, ma un mullah tra i fondatori del movimento talebano, catturato in Pakistan nel 2010 nel corso di un’operazione congiunta della Cia e dei servizi segreti di Islamabad e rilasciato nell’ottobre 2018 proprio per favorire il processo di pace. Quel processo di pace a cui i Talebani, pur avendo sabotato il processo elettorale con più di 400 attacchi in 29 delle 34 province del Paese, non rinunciano ancora. In attesa che l’amministrazione americana torni a dare segnali politicamente coerenti.
Le precedenti tornate elettorali, al di là della correttezza e trasparenza del loro funzionamento e dei risultati finali, sono state salutate dalla comunità internazionale come puntate di un progressivo consolidamento della democrazia liberale, tappe successive dell’inevitabile democratizzazione dell’Afghanistan post-talebano. Viste attraverso gli occhi degli afghani, hanno un senso diverso: rappresentano i tasselli più evidenti di un sistema strutturalmente corrotto, che non esprime né tutela gli interessi della cittadinanza, piegato invece ai privilegi di pochi. Privilegi che la politica e le elezioni cristallizzano, anziché ribaltare.
Anche per questo il tasso di partecipazione alle presidenziali del 28 settembre è stato molto basso. Dei circa 9 milioni e 700mila cittadini iscritti alle liste elettorali, avrebbero votato soltanto 2 milioni e 600mila. Un quarto dei potenziali elettori. E meno di un decimo della popolazione totale. Dati che rivelano una disaffezione crescente verso il sistema politico-istituzionale, riconducibile a fattori diversi: l’economia che cresce ma senza generare reddito, benessere e lavoro diffuso; la paralisi, conflittualità e corruzione del governo; le minacce dei Talebani; il fatto che tutte le elezioni precedenti siano state contrassegnate da brogli e corruzione (qualcuno però nota che 2,6 milioni di voti veri sono preferibili ai 7 milioni di voti gonfiati registrati nel 2014).
Ma c’è un altro fattore, determinante. L’idea che la politica locale sia perlopiù eterodiretta. Che a decidere siano Islamabad (tradizionale sponsor dei Talebani) e Washington (principale sostenitore, ma sempre più riluttante, del governo di Kabul). Che sia una percezione giustificata lo dimostra, oltre alla nascita del governo di unità nazionale, proprio la vicenda di queste ultime presidenziali: fino a 3 settimane prima del 28 settembre nessuno in Afghanistan avrebbe scommesso che si sarebbero tenute. Perché gli Stati Uniti stavano per chiudere l’accordo con i Talebani, che avrebbe portato a un governo ad interim, facendole saltare. Con un tweet, però, Donald Trump ha cambiato la sorte di 30 milioni di afghani.
Il 7 settembre Trump ha sospeso via Twitter i negoziati tra i Talebani e il suo inviato, Zalmay Khalilzad, rivelando che una delegazione degli studenti coranici era attesa a Camp David per il giorno successivo, così come il presidente afghano, che avrebbe incontrato separatamente. Secondo Trump, l’incontro di Camp David sarebbe saltato a causa della postura militarista dei Talebani, incompatibile con il processo di pace in corso, e in particolare a causa dell’attentato di giovedì 5 settembre a Kabul che ha causato la morte, tra gli altri, del sergente statunitense Elis Angel Barreto Ortiz. Nient’altro che un pretesto. Nominato nel settembre 2018 inviato per la riconciliazione in Afghanistan, Zalmay Khalilzad ha negoziato con i Talebani sulla base di un assunto implicito ma condiviso: guerra e dialogo procedono di pari passo. Così è stato per entrambi gli attori, che hanno aumentato la pressione militare sul nemico, per negoziare da una posizione di forza. Che sia temporaneo, come pare lecito ipotizzare, o definitivo, il dietrofront di Trump va ricondotto dunque ad altre ragioni. Prima di analizzarle, qualche nota sulla posta in gioco.
“Le grandi nazioni non combattono guerre senza fine”. Nel discorso del febbraio 2019 sullo Stato dell’Unione, Trump aveva difeso la politica di disimpegno militare dalla Siria e dall’Afghanistan, ricordando i costi umani e finanziari della guerra e ribadendo la promessa, già fatta in campagna elettorale, di riportare presto a casa i soldati statunitensi. Aveva inoltre dichiarato di aver “accelerato le negoziazioni per raggiungere un accordo politico” con i Talebani. Il mese prima, l’inviato Khalilzad aveva ottenuto il consenso preliminare dei Talebani sull’impianto generale dell’accordo di pace, articolato in 4 punti: ritiro delle truppe straniere, garanzia che l’Afghanistan non tornasse crocevia dei jihadisti a vocazione globale, un cessate il fuoco prolungato o permanente e il dialogo intra-afghano. Un impianto che Khalilzad per lungo tempo ha presentato come “un pacchetto tutto incluso”: prendere o lasciare.
Ai primi di settembre Khalilzad ha annunciato che l’accordo con i Talebani era chiuso, almeno “in linea di principio”. Il 2 settembre l’inviato americano ha sottoposto il testo all’attenzione del presidente Ashraf Ghani, a Kabul. La sera stessa, l’inviato di Trump ha rivelato alla tv afghana Tolo alcuni contenuti specifici dell’intesa, ancora segreta: ritiro entro 135 giorni dalla firma di 5,400 dei circa 14mila soldati Usa, chiusura di 5 basi militari, riduzione della violenza in 2 delle 34 province, Kabul e Parwan. Sui tempi del ritiro del resto delle truppe, nulla di certo – forse in 16 mesi, così da soddisfare le esigenze elettorali di Trump, che nel novembre 2020 ambisce a un secondo mandato. In cambio, Khalilzad avrebbe ottenuto la presa di distanza esplicita dei Talebani da al-Qaeda e la disponibilità a incontrare in futuro gli altri attori politici afghani, inclusi i rappresentanti del governo di Kabul, considerato illegittimo dai Talebani. Meno di una settimana dopo, è arrivato il dietrofront di Donald Trump. Perché?
La prima ragione ha a che fare con il protagonismo narcisistico di Trump, che avrebbe forzato la mano per assicurarsi visibilità e quel riconoscimento da statista e mediatore a cui ambisce con convinta approssimazione. Cercava la paternità anche simbolica dell’accordo di pace, senza tener conto né delle esigenze del governo del Qatar, che per molti mesi ha ospitato i negoziati, né delle obiezioni interne ed esterne, inclusa quella della Rabbari shura, la cupola della leadership talebana, che avrebbe dato il via libera alla propria delegazione a recarsi negli Stati Uniti, ma soltanto dopo la firma, non prima, così da evitare un “suicidio politico”.
La decisione di Khalilzad di rivelare l’intesa, e parte dei contenuti, prima della firma effettiva, ha consentito agli scettici, a Kabul quanto a Washington, di alzare la voce. La scelta di invitare a Camp David, nel Maryland, alla vigilia dell’anniversario dell’11 settembre, una delegazione talebana di alto profilo ha suscitato le inevitabili obiezioni dei Repubblicani conservatori. Che hanno trovato una sponda autorevole all’interno della stessa amministrazione Trump. Per ragioni diverse, hanno sollevato obiezioni anche nove tra ex ambasciatori e inviati speciali degli Usa in Afghanistan. In una dichiarazione pubblica, hanno sostenuto la legittimità della soluzione negoziata al conflitto, chiedendo però “che il ritiro completo delle truppe avvenga solo dopo una vera pace”, non prima, e che il governo afghano venga sostenuto, non tagliato fuori dai negoziati.
Quando Khalilzad gli ha sottoposto il testo dell’accordo raggiunto con i Talebani, il presidente Ghani ha chiesto tempo. Voleva capire fino a che punto Khalilzad avesse tradito l’impegno iniziale: offrire ai Talebani un “pacchetto completo”, che condizionasse la soluzione al conflitto tra la guerriglia in turbante e gli americani all’avvio di un confronto esplicito tra i Talebani e il governo di Kabul. Di fronte alla riluttanza dei Talebani a sedersi al tavolo negoziale con Kabul, l’amministrazione Usa ha infatti avviato un dialogo bilaterale con gli studenti coranici, prima assicurando che l’accordo avrebbe beneficiato anche il presidente Ghani e le istituzioni che rappresenta, poi, però, derubricando il dialogo intra-afghano (i punti 3 e 4 dell’impianto originario dell’accordo) a elementi secondari che gli afghani avrebbero potuto discutere tra loro, in un secondo momento. Quel che si dice “lavarsene le mani”.
Così, dopo mesi in cui si è invocata retoricamente la centralità degli afghani nel processo di pace – un processo che doveva essere “condotto dagli afghani, per gli afghani” – il governo si è ritrovato con le spalle al muro, politicamente indebolito, costretto o quasi ad accettare i termini di un accordo opaco, che non garantiva né la sopravvivenza del sistema politico-istituzionale afghano, né quel cessate il fuoco prolungato o permanente su cui Ghani insiste da anni. Il “pacchetto completo” si era trasformato in due accordi distinti, quasi svincolati l’uno dall’altro: il primo tra Talebani e Usa, il secondo, fumoso, tra Talebani e forze politiche e sociali afghane. Si tratta della quarta ragione che ha portato al collasso del negoziato: il deficit strutturale dell’accordo. L’accordo con i Talebani non ha funzionato perché era squilibrato. Avrebbe dovuto porre fine a un conflitto che contempla tre attori principali, ma era un accordo bilaterale: concedeva troppo ai Talebani, il sufficiente (salvare la faccia) a Washington e poco o nulla al governo di Kabul.
Prevedere quel che succederà ora è difficile. Le posizioni del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, dei portavoce Talebani, così come dei principali attori regionali del conflitto, da Mosca a Pechino, da Teheran a Islamabad, sembrano suggerire che il dialogo potrebbe riprendere in futuro, anche se sarà difficile ricucire lo strappo di Trump in tempi brevi. Trump potrebbe approfittare di questa interruzione per ricompattare parzialmente il fronte interno, nella speranza che il pendolo militare oscilli finalmente dalla parte degli Stati Uniti. Ma le forze in campo rimangono le stesse. Lo stallo militare è destinato a rimanere tale. Gli Stati Uniti non possono sconfiggere i Talebani, e tanto meno il contrario. Salvo che il presidente Trump non voglia perseguire la strada del ritiro unilaterale, un accordo politico con i Talebani è l’unica soluzione alla guerra. Ma la condizione affinché il negoziato conduca, se non alla pace, a una relativa stabilità, è che non venga piegato alle esigenze elettorali degli Stati Uniti, e che la retorica di Washington sulla “ownership afghana” del processo di pace non sia più un pretesto per abdicare alle proprie responsabilità, ma lo strumento per tener conto anche degli interessi della società afghana e delle istituzioni che, per quanto malamente, la rappresentano.
Ecco perché le presidenziali del 28 settembre, la trasparenza del conteggio dei voti, l’esito finale (previsto il 7 novembre), il tasso di partecipazione, sono così importanti. Tutti questi elementi avranno un peso determinante nell’accentuare il forte deficit di legittimità del governo e delle istituzioni oppure, al contrario, nel colmarlo. Un presidente forte di un mandato elettorale chiaro e veramente rappresentativo rafforzerebbe l’esecutivo, in chiave domestica e come argine agli appetiti delle potenze regionali. Un presidente indebolito da scarsa affluenza, controversie elettorali, accuse di brogli, ne uscirebbe malandato. Se l’esito del voto dovesse essere di nuovo controverso, come pare ragionevole ipotizzare a giudicare dalle dichiarazioni dei due candidati principali, allora il nuovo presidente – che sia Ghani o Abdullah Abdullah – ne uscirebbe davvero malconcio. I Talebani potrebbero gridare ancora una volta alla farsa. Le istituzioni tremare, più ancora che sotto le bordate militari degli studenti coranici, sotto il peso del proprio deficit di legittimità, ulteriormente accentuato – paradosso della politica afghana a sovranità limitata – dalle elezioni. Che vinca Ghani o Abdullah, dunque, rimane il vulnus strutturale di un sistema, inaugurato dai cacciabombardieri Usa nel 2001, è sempre più fragile. Aggrappato a un voto che rappresenta il 10% della popolazione. Guerra e democrazia, ci dice il voto afghano, non vanno proprio d’accordo.