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Afghanistan anno zero

Credit Valeria Scrilatti/contrasto
30 Settembre 2021
Giuliano Battiston

“Ci aspettiamo giorni peggiori”, ci dice Timur Hakimyar nel solito ufficio buio affacciato su un giardino assolato, poco distante dall’Archivio nazionale e dal trambusto che porta verso il bazar principale di Kabul. “È la prima volta in vent’anni che mi sento veramente minacciata”, nota Najiba Ayoubi. Nell’ultimo anno, la sede della radio di cui è direttrice, nel quartiere Kart-e-Seh, è stata fortificata. “Sono tempi incerti”, aggiunge Hamidullah Zazai nel ristorante di cui è proprietario, mentre i musicisti battono sui tamburi e i giovani fumano le pipe ad acqua. “Se prendono Gereshk, arrivano anche qui. Sicuro al cento per cento”, sostiene Khakhsar, responsabile della sicurezza in un ospedale per vittime di guerra a Lashkargah, capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand dove i ristoranti come quello di Zazai proprio non ci sono. I Talebani premono alle porte, avanzano nei distretti attorno alla città. I tonfi dei combattimenti arrivavano attutiti, di notte, al di là del fiume. “È solo un controllo di routine, non vogliamo problemi qui. Ora potete andare”, ci rassicurano i poliziotti in borghese all’ingresso della valle del Panjshir, bastione dei tagichi, mai conquistata dai Talebani. Dopo lo stretto ingresso, chiuso tra le montagne, la strada prosegue verso Anabah e poi Bazarak. Si pranza nelle terrazze dei ristoranti popolari affacciate sul fiume. I ragazzini lavano le auto in sosta per qualche afghanis. Qualcun altro, sandali di plastica impolverati, riporta le mucche a casa, seduto sulla groppa di un asino, in mano un bastoncino. A Bagram, a una sessantina di chilometri dalla capitale, residenti e commercianti sbeffeggiano gli americani. “Sono  andati via come ladri, di notte. I russi almeno li abbiamo salutati, quando si sono ritirati. Degli americani abbiamo sentito soltanto gli aerei che se ne andavano”, commenta Raqib. Costruita dai russi negli anni Cinquanta, già fulcro dell’occupazione sovietica conclusa nel 1989, poi di quella a guida statunitense, la base di Bagram è stata il polmone della war on terror in Afghanistan. Da qui partivano gli aerei che per anni, tutti i giorni, in modo incessante, hanno scaricato bombe sul territorio. La visitiamo poche ore dopo che è stata evacuata dagli americani. “Un giorno sono arrivati. Hanno distrutto questo Paese. Poi sono andati via”. Così non va, scuote la testa Mir Salam, barba ondeggiata con sprazzi di bianco.  Vende ciò che rimane di una presenza ventennale. Di fronte a lui una grande bilancia. Tutto intorno metallo. “In genere ricavo 15/20 afghanis per ogni chilo”, circa 15 centesimi di euro. “Sono contento che gli americani sono andati via”, sostiene sicuro. “Siamo musulmani. Non vogliono che ci sviluppiamo”. “Siamo preoccupate ma determinate. Torneremo a scuola. Non ci facciamo intimidire”, sostengono convinte a Kabul le studentesse della scuola Sayed al-Shuhada nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, colpita l’8 maggio con un triplice attentato, non rivendicato, che ha causato quasi 100 vittime tra le ragazze hazara, minoranza perseguitata. “Potrei andarmene, ho un doppio passaporto, ma rimarrò perché dobbiamo contrastare i Talebani”, dichiara la regista Sahraa Karimi, a capo dell’Afghan film, l’ente istituzionale che promuove il cinema, davanti a una tazza di tè in un caffè di Kart-e-Chor, quartiere vivace della capitale amato dagli studenti universitari. “Troveremo un modo per convivere con i Talebani. Io amo il mio Paese, anche loro dicono di farlo”, assicura Hezbullah Sultani, giovane regista che presenta al marchè du film di Cannes un suo documentario su una famosa via del bazaar in cui si vendono uccelli da combattimento. “Voglio mostrare un lato diverso del mio Paese, raccontarlo e non farlo raccontare solo dai media stranieri”. “La pace è un obbligo religioso, un bisogno della politica, la richiesta di tutta la nazione”, ci dice Roshan Siran, attivista di lungo corso, direttrice di un’associazione femminile. Quando la incontriamo il processo di pace tra Talebani e governo di Kabul è formalmente ancora in piedi. Nessuno crede più che possa produrre nulla di concreto. Zalmay Khalilzad, l’inviato speciale scelto da Trump e confermato da Biden, è l’artefice dell’accordo bilaterale con i Talebani sul ritiro delle truppe. Prima veniva considerato un astuto politico con forti ambizioni personali in Afghanistan. Ora, di fronte all’avanzata dei turbanti neri, un ingenuo che si è fatto gabbare. Quell’accordo sbilanciato e tardivo, che ha escluso il governo di Kabul e la società civile, ha rafforzato i Talebani. “Non vogliamo che le decisioni sul nostro futuro siano prese da altri Paesi, da attori estranei alla società. Come donne vogliamo farci sentire, non permettiamo che ci impongano delle decisioni”, continua Roshan Siran, per poi aggiungere. “Dei Talebani non possiamo fidarci. Dicono di combattere per l’Islam, ma di quale Islam parliamo? Non c’è religione che dica di uccidere”. Mary Akrami, direttrice dell’Afghan Women Network, spiega che la popolazione è tra due fuochi. “Non ci rappresenta la compagine governativa e ancora meno i Talebani”. “La pace è tale se è vista come legittima dalla popolazione, altrimenti è fasulla”. 

Voci raccolte in Afghanistan tra giugno e inizio luglio. Poche settimane dopo, a metà agosto, dopo una veloce offensiva militare, Kabul cade in mano ai turbanti neri. Lashkargah conta morti e feriti della loro conquista. La valle del Panjshir si asserraglia e invoca l’aiuto degli stranieri. Il presidente Ashraf Ghani fugge. Le istituzioni della Repubblica islamica, l’architettura post-Emirato, crollano. Tante le ragioni. La prima, più importante, è la mancanza di consenso e legittimità. Il 6 settembre gli studenti coranici vincono l’ultima resistenza, issando la bandiera anche a Bazarak, il capoluogo del Panjshir. Il controllo del territorio è totale. La guerra è finita, dicono. Due giorni dopo, nel tardo pomeriggio di una giornata scandita da manifestazioni di protesta represse con la violenza, l’annuncio del nuovo governo. Nasce l’Emirato islamico d’Afghanistan. Meglio, rinasce. La parabola tra il rovesciamento del primo Emirato, a fine 2001, e l’instaurazione del secondo, nel settembre 2021, è una pagina di storia da scrivere. Un bilancio politico andrà fatto con calma, anche qui sulla rivista Gli asini. Per ora, un punto provvisorio. 

Timur e Hamidullah, che ha ricoperto incarichi governativi, sperano di poter essere evacuati all’estero. Najiba è rifugiata negli Stati Uniti. Khakhsar è al suo posto, all’ingresso dell’ospedale di Laskhargah, dove gli alberi, raccontava a fine giugno, “sono stati piantati da un vecchio medico talebano”. Ha vissuto molti cambi di regimi. Sopravviverà. I poliziotti del Panjshir sono nascosti sulle montagne. Aspettano di poter riprendere la resistenza, se e quando gli sponsor stranieri li aiuteranno. Qualcuno ha deposto le armi e si è trasferito altrove, rassegnato al nuovo equilibrio di poteri. Le studentesse di Dasht-e-Barchi sono tornate a scuola. In casa, madri, padri, zii discutono di quei Talebani che nei racconti sono i responsabili della loro fuga verso Kabul, tanti anni fa. Le famiglie hazara in questo quartiere sono povere. Provengono dalle province di Bamiyan, Ghor, Daykundi. Sono arrivate nella capitale al tempo del primo Emirato o subito prima, “perché i Talebani davano fuoco alle nostre case, impedivano alle nostre figlie di studiare”, ci dicono tanti genitori a fine giugno. A giugno tra gli hazara c’è chi si appella “alle Nazioni Unite, ai potenti del mondo, per proteggerci”. Shaharzad Akbar, a capo dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission, denuncia l’inerzia della comunità internazionale di fronte alla violenza dei Talebani. Invoca verità e giustizia anche per i potenziali crimini di guerra commessi dai soldati stranieri. A Bagram oggi qualche bottegaio ha scaffali più ricchi di prima. Le scorte prima o poi finiranno. Di lavoro non c’è traccia e non ce ne sarà. I residenti rimpiangono i bei tempi in cui la presenza degli americani portava lavoro e soldi. Era la bolla dell’economia di guerra, scoppiata da tempo. Dipendente dall’esterno e drogata di aiuti, scossa dalla rapida conquista del potere dei Talebani, l’economia afghana è in caduta libera. La comunità internazionale è divisa. Non sa che pesci prendere. Il Paese vive una catastrofe umanitaria. Le responsabilità morali cozzano con la volontà politica di archiviare un fallimento conclamato. Non saranno pochi i governi che abdicheranno con la scusa che quello dei Talebani è un governo illegittimo.

La regista Karimi, espatriata, invitata alla mostra del Cinema di Venezia dove ha promosso un appello per il sostegno ai cineasti afghani, farà un film sulla sua fuga, ripresa in parte con un cellulare. Il giovane collega Sultani, che non aveva mai voluto lasciare il Paese e si diceva pronto al dialogo con i Talebani mai incontrati in vita sua, è partito. I ragazzini dei ristoranti lungo la valle del Panjshir hanno ancora la spugna in mano. Lavano le auto per qualche afghanis. La vita per loro è cambiata poco. Per qualcuno altro molto. Per chi ha vissuto nei territori contesi, dove si combatteva duramente. Nelle aree passate di mano in mano, prima i Talebani, poi le forze governative, in mezzo i raid notturni nelle case, gli omicidi ingiustificati, la caccia al nemico degli stranieri, gli Stati Uniti in prima linea. Le torture nelle carceri. Le sparizioni. La vendita di informazioni e persone. Il sospetto e la paura. Gli arei dall’alto. Non c’è più guerra, lì. I Talebani lo ripetono: ora siete al sicuro. Le statistiche dicono che la guerra ha causato circa 3.ooo morti civili ogni anno, ma sono cifre parziali. Nelle città il conflitto arrivava a intermittenza. Con gli attacchi complessi, gli attentati suicidi, la percezione di vulnerabilità. Dentro gli ospedali, nei reparti di maternità, nei teatri, nelle moschee, nelle palestre, davanti ai ministeri, nei caffè per ricchi locali o per stranieri, nelle guesthouse delle Nazioni Unite, nelle hall degli alberghi a quattro stelle, al bazaar. Violenza feroce, ma attutita dalla statistica, assorbita nel contesto urbano. Nelle città la vita cambia, ma per altre ragioni. “Voglio fare l’ingegnere”. “Voglio fare la musicista”. “Voglio diventare la prima presidentessa donna dell’Afghanistan”. Le ambizioni delle studentesse della scuola Sayed al-Shuhada, delle musiciste dell’Afghanistan National Institute of Music, delle ambientaliste, delle frequentatrici dei giardini dell’università di Kabul, sono troncate. Via la libertà, da un giorno all’altro. I Talebani tornano al potere proponendo lo stesso contratto sociale degli anni Novanta: sicurezza collettiva in cambio della libertà personale. Questa volta non basterà. Allora prendevano in mano un Paese nel pieno di una guerra civile, con molte città in macerie. Oggi ereditano uno Stato-rentier, istituzioni corrotte e malfunzionanti ma in piedi, relazioni internazionali maturate nel tempo. Una società demograficamente giovane, dinamica, più istruita, consapevole di ciò che accade altrove. Più esigente. Per i Talebani e per il resto del Paese si apre una fase nuova. Già in corso, fin qui occultato dal conflitto militare, emergerà sempre di più il conflitto sociale e culturale. Quale futuro costruire? Per chi? Come? Quali i rapporti tra politica e società, uomini e donne, confini nazionali e mondo? Conosciamo poco i Talebani a causa del loro carattere clandestino, della loro tendenza introversa, a parlare al proprio interno, più che all’esterno. Ma anche loro conoscono poco la società afghana, un Paese da 36 milioni di abitanti. L’esecutivo annunciato il 7 settembre rivela una concezione monopolistica del potere e della sovranità. Che li danneggerà, ora che da gruppo guerrigliero devono farsi partito di potere politico-istituzionale. L’egemonia politica getterà le basi per il prolungamento del conflitto. I turbanti neri sono preoccupati di tenere coeso il gruppo, non pensano ad aprirsi alla politica e alla società. Sarà sempre più difficile gestire i rapporti con la società, un piano diverso da quello militare che li ha portati alla vittoria. “Qui c’è una società in guerra da 40 anni. Una società complessa. Tante famiglie chiedono giustizia, riconoscimento. Tante persone chiedono libertà”. Se non si soddisfano le richieste di giustizia e libertà, “la guerra proseguirà”, spiegava a giugno Najiba. La nostra amica che ora è rifugiata negli Stati Uniti.  

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