Acquarius
In Le origini del totalitarismo (1948) – testo segnato crudelmente dall’esperienza della seconda guerra mondiale, dei regimi dittatoriali e dei genocidi – Hannah Arendt indica la svolta profonda avvenuta con la proclamazione dei diritti dell’uomo alla fine del Settecento. Negli “Immortali principi dell’89” l’uomo diventa la “fonte del diritto” e il suo fine ultimo. È lì che, per la prima volta, la qualità inalienabile e irriducibile dei diritti umani trova, come in nessun altro codice o ordinamento, la sua prima legittimazione nell’uomo e nel suo solo esistere.
La stessa natura dell’individuo, nel pensiero di Hannah Arendt, non è altro allora che “il diritto ad avere diritti”, e – seguendo ancora la filosofa – “il diritto di ogni essere umano di appartenere all’umanità è garantito dall’umanità stessa”. Dunque, è l’insieme degli individui nel suo complesso che deve farsi carico della dignità di ciascun essere umano che vive sulla terra.
Ritorniamo a queste pagine perché le riflessioni qui raccolte ci offrono la possibilità di ragionare su una questione incandescente, che è di questi giorni. L’uomo che ritroviamo nelle parole appena evocate può apparire un individuo isolato, che porta con sé e su di sé la propria dignità, senza riferimento ad alcun ordine superiore più vasto e la cui qualità umana sta in quei diritti di cui è titolare senza alcuna dipendenza da autorità e vincoli esterni. Sia chiaro: l’individuo può, se lo crede e se lo vuole, vivere in questo spazio di isolamento. Può accogliere la solitudine non come una dannazione, ma come una propria scelta di autonomia e indipendenza assoluta. Può ridurre al minimo le relazioni con gli altri, può ritagliarsi un piccolo spazio sulla terra dove sia incondizionatamente sovrano su se stesso.
Questa scelta, che oggi è limitata a un numero assai ridotto di individui è, almeno in potenza, accessibile a tutti. E in altre fasi della storia umana è stata l’opzione di molti individui e gruppi sociali e ha connotato persino una riflessione filosofica e un’elaborazione teologica. Ma questa scelta della solitudine totale quando e dove incontra il suo limite? Quando inciampa nell’impossibilità di realizzarsi compiutamente e indeterminatamente?
Quando quell’individuo che ha scelto l’isolamento e l’autarchia si trova in stato di pericolo. È esattamente in quel momento – qualunque causa determini lo stato di pericolo – che l’individuo scopre la propria debolezza e la propria vulnerabilità. Allora gli si rivela impietosamente quanto la sua solitudine possa determinare la sua fine. Considerando una simile condizione – peraltro assai frequente nella nostra epoca – arriviamo a immaginarne uno dei possibili esiti: l’intervento di qualcuno, individuo o gruppo, che soccorra colui che si trovi in uno stato di pericolo tale da mettere a repentaglio la sua integrità fisica e psichica. In tal modo si rivela quanto sia fragile e insicura la pretesa di un’autodeterminazione che non voglia incontrare l’altro, che non gli si affidi in caso di necessità e che si rifiuti agli scambi, alle comunicazioni, alle interazioni. La scoperta della propria finitezza e della propria costitutiva vulnerabilità è all’origine della pulsione profonda dell’essere umano di aggregarsi ad altri esseri umani.
La comunità e la società organizzata nascono esattamente da questo e per questo: per rispondere in maniera efficace, attraverso un’attività di reciproco soccorso e di vicendevole tutela, alla rivelazione della debolezza di chi si trovi solo (“ognuno sta solo sul cuor della terra”, nei versi di Salvatore Quasimodo). Qui si trova il fondamento e il fine della comunità umana: io proteggo te perché conto sul fatto che tu proteggerai me. È il mutuo soccorso. Che precede ogni legge positiva e ogni interesse statuale e, ancor più, qualsiasi maggioranza politico-parlamentare e qualunque orientamento di opinione pubblica. Si evidenzia così come, tra le tante ragioni che tengono insieme una comunità – dalla cooperazione economica alla difesa comune contro insidie esterne e interne – il legame primo ed essenziale è quello che nasce dal bisogno dell’altro e della protezione da parte dell’altro.
Se tutto questo è vero, il diritto/dovere al soccorso è un principio assoluto. Che precede le Costituzioni dei singoli stati, che precede gli ordinamenti giuridici dei singoli stati, che precede i codici dei singoli Stati e che prevale su tutto. Assoluto, appunto. Prevale su tutto perché se quel diritto/dovere al soccorso venisse annullato o limitato, a essere messa in crisi sarebbe la stessa idea di comunità umana.
Se ne sono mostrati ben consapevoli i membri del Consiglio costituzionale francese che, valutando negativamente la legge istitutiva di una sorta di reato di solidarietà, hanno scritto che “va protetta la libertà di aiutare gli altri per spirito umanitario, regolare o irregolare che sia il loro soggiorno sul territorio nazionale”. Insomma, non va scordato nemmeno per un attimo che, con Hannah Arendt e con il diritto/dovere al soccorso, stiamo parlando di noi e del nostro tempo. Stiamo parlando, per esempio, della vicenda di una nave, la Aquarius, e del suo peregrinare nel Mediterraneo del 2018, con 629 naufraghi a bordo (così simile, questa storia, a quella della St. Louis carica di ebrei in fuga dalla Germania, nel 1939). Il mancato soccorso verso quelle persone viola non solo la cosiddetta legge del mare, e non solo le convenzioni europee, le carte internazionali e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: mette in crisi l’appartenenza stessa al genere umano come comunità. E dunque l’identità dell’individuo come individuo sociale.
Così si può tornare a Hannah Arendt, alle sue parole più profonde “non la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto è stata la sventura che si è abbattuta su un numero crescente di persone”. E, tuttavia, dobbiamo pensare che la possibilità di “costituirci come comunità umana” non sia ancora definitivamente perduta.