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Accoglienza: le aberrazioni del sistema

15 Giugno 2014
Anna Brambilla

Nonostante la stagione della raccolta delle arance sia sostanzialmente finita, sono ancora migliaia i lavoratori migranti che vivono in condizioni di privazione e di degrado nella Piana di Gioia Tauro, in particolare nel territorio dei comuni di Rosarno, San Ferdinando, Rizziconi e Taurianova.

Nella tendopoli di San Ferdinando, allestita dal Ministero dell’Interno nel gennaio 2012, alle tende blu, che fanno pensare ad un contesto di emergenza, si sono aggiunte baracche di plastica e di legno, che a loro volta evocano scenari da slums metropolitani.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, moltissimi migranti che vi abitano hanno un permesso di soggiorno valido, rilasciato per motivi di protezione umanitaria o internazionale.

L’anno scorso, presso la tendopoli era operativa l’associazione “Il mio amico Jonathan”, alla quale era stata affidata la gestione della struttura e che si occupava anche dell’assistenza per l’iscrizione anagrafica e il rinnovo del permesso di soggiorno.

Oggi la gestione della tendopoli non è affidata ad alcuna associazione ed il rapporto tra le istituzioni e i migranti è prevalentemente diretto, pur continuando a esistere servizi e associazioni che forniscono informazioni e sostegno amministrativo e legale.

Sebbene le condizioni oggettive di vita delle persone che vivono presso la tendopoli siano sostanzialmente simili a quelle dell’anno scorso, i migranti sembrano incontrare nuovi ostacoli nell’esercizio di diritti che prima venivano loro garantiti.

In particolare, i lavoratori migranti presenti sul territorio riescono difficilmente ad iscriversi all’anagrafe, per ragioni che vanno dall’assenza di documenti ritenuti (spesso erroneamente) obbligatori a presunti motivi di ordine pubblico.

Gli addetti all’ufficio anagrafe, spesso carenti numericamente, lamentano difficoltà nei rapporti con l’utenza straniera e sottolineano che l’impossibilità di affrontare nei modi ordinari le pratiche richieste dipende principalmente dall’assenza di un intermediario.

Ora, se è vero che la presenza di un servizio di assistenza nello svolgimento delle pratiche burocratiche può essere utile per tutti, compreso il portatore del diritto, quello che viene da chiedersi è se la sua assenza può giustificare la compressione del diritto stesso.

È possibile che dopo tanti anni da che l’Italia è divenuto stabilmente un Paese di immigrazione non si sia riusciti a trasformare i servizi e non si sia fatto altro che mettere a sistema la delega a sempre nuovi intermediari? È ammissibile che si continui ancora a considerare alcune persone come soggetti di fatto incapaci di agire da soli?

Se è vero che può esserci anche un problema linguistico, il più delle volte a rendere impossibile l’esigibilità di un diritto è un problema di sguardo, di etichettatura, di relazione non paritaria che emerge dalle modalità stesse di comunicazione.

I migranti affrontano violazioni continue, scivolano tra le pieghe di un sistema burocratico, di un “apparato neutro di violenza ineffabile, grigia, banale ma non per questo meno banale, che divora l’esistenza umana” (queste le parole usate da Nadia Fusini per descrivere le riflessioni di Hannah Arendt sulla violenza della burocrazia, in Hannah e le altre, Einaudi 2013) e sono costretti a confrontarsi con persone che, il più delle volte, non si pongono domande e non si assumono o non riescono più ad assumersi responsabilità.

In un mio precedente contributo su questa rivista, cercavo di esprimere il punto di vista sull’Emergenza Nord Africa, concludendo con una riflessione sul mio ruolo di avvocato e sulle criticità ad esso connesse.

A distanza di più di un anno, mi trovo sempre di più a chiedermi se la costruzione di una relazione altra tra operatori e “assistiti” possa essere effettivamente la priorità su cui concentrarsi. In altre parole, se quel “fare bene” sia la chiave di volta produrre dei reali cambiamenti, anche minimi.

In questo senso, due mi sembrano essere le questioni centrali: il tipo di accoglienza offerto e quello che in inglese verrebbe definito come “legal empowerment” delle persone, ovvero il passaggio di conoscenze utili ad esercitare in modo autonomo i propri diritti.

Provo a fare un esempio concreto.

Recentemente mi è stato segnalato il caso di M. un ragazzo del Niger arrivato a Lampedusa nel 2011. Dopo il suo arrivo, M. è stato accolto in un albergo, nell’ambito della famosa Emergenza Nord Africa. Nessuno l’ha mai informato sulla procedura e sui diritti connessi alla domanda di protezione internazionale, inoltrata la quale ha ricevuto un diniego. Dopo aver lasciato la struttura di prima accoglienza, si è recato a Milano. Successivamente è stato arrestato con un’imputazione piuttosto pesante che ha portato ad una condanna alla reclusione. Durante il processo, M. non è mai stato assistito da un interprete e non ha mai avuto spiegazioni precise su quanto gli stava accadendo. Per fatti veramente banali, per i quali si è sempre proclamato innocente, ha scontato un anno in carcere, ha perso la possibilità di chiedere, nell’ottobre del 2012, il riesame della sua posizione e attualmente è privo del permesso di soggiorno.

Se M. fosse stato ben accolto, se gli fosse stata garantita la piena comprensione, anche in termini linguistici, di quanto stava accadendo, se fosse stato preso in considerazione il suo livello educativo e il suo sguardo sul mondo, l’esito dell’audizione in Commissione e delle vicende successive sarebbe stato lo stesso?

Sono in tanti oggi a porre dei dubbi sulla veridicità delle storie che i richiedenti asilo portano in Commissione. Molti commissari sono spesso scettici: svolgono interrogatori più che interviste e puntano il dito contro gli stessi operatori dell’accoglienza, che “costruirebbero” le storie insieme ai richiedenti.

Rispetto a questo, credo che le criticità siano molteplici e non poche le contraddizioni.

Se tra i principali nodi critici vi sono l’assistenza garantita (o non garantita) al richiedente prima dell’audizione e la composizione e indipendenza delle Commissione territoriali, un altro aspetto di rilievo è il tipo di percorso complessivo che il richiedente compie prima di arrivare in Commissione.

Tornando nuovamente al caso di M., la sua storia personale è stata oggi nuovamente raccolta dalle insegnanti della scuola di italiano che frequenta. Grazie anche all’utilizzo di parole semplici, il racconto in prima persona di M. ha una forza eccezionale, dirompente, che consente di cogliere non solo gli aspetti oggettivi ma anche le emozioni e la visione della persona che quei fatti ha vissuto.

Molte storie di richiedenti asilo, anche quelle che io stessa mi sono trovata a raccogliere, non trasmettono questo senso di autenticità, vuoi per l’utilizzo frequente della terza persona, vuoi per il condizionamento spesso inconsapevole che l’intervistatore determina ponendo certe domande in un determinato modo.

La parola usata, ma soprattutto il modo e il fine che conducono al racconto, sembrano quindi avere una rilevanza assoluta.

Da qui la prima riflessione intorno alla “buona accoglienza”.

Far sentire bene l’altro, farlo sentire al sicuro, partire dalla lingua – materna e del Paese ospitante – per costruire prima di tutto una relazione, sembrano essere tappe determinanti per fare in modo che i successivi passaggi avvengano in modo corretto, sotto tutti i punti di vista.

L’altra questione fondamentale è il riconoscimento dell’esistenza privata di ogni singola persona e la restituzione della piena capacità di agire in proprio diritti e libertà.

Come evidenziato all’inizio, troppo spesso i migranti sono considerati persone incapaci di agire in modo autonomo, senza “rappresentanti” italiani, di assumere pienamente delle decisioni, perché privi di mezzi, capacità, conoscenze.

Se è vero che non mancano esempi di auto organizzazione (da quelle che portano all’occupazione di spazi ad uso abitativo a quelle che nascono in ambito lavorativo, come il comitato di lavoratori nato nell’estate 2013 grazie alla mobilitazione di migranti presenti nelle campagne del foggiano), è altrettanto vero che prevale un atteggiamento delle istituzioni che oscilla tra il caritatevole e il repressivo, tanto che ad esempio le persone accolte nei centri di accoglienza non possono nemmeno provvedere autonomamente alla pulizia del centro o alla preparazione dei pasti.

L’aberrazione del sistema è tale che proprio nel momento in cui sto scrivendo giungono notizie che mai avremmo voluto (ri)sentire: l’invio di migliaia di persone sbarcate nelle ultime settimane in Sicilia presso strutture d’emergenza, anche di tipo alberghiero, dislocate su tutto il territorio nazionale, ma esterne al circuito del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar).

Il ripetersi di quanto già visto con l’Emergenza Nord Africa rende veramente difficile concludere positivamente questa riflessione e porta a chiedersi se non siamo noi i primi a dover fare un passo indietro, a smettere di creare false aspettative di accoglienza e di effettiva possibilità di affermazione di diritti. Forse dovremo “limitarci” a fare una piena e corretta informazione, a lasciare le persone libere di andarsene e a liberare le possibilità della protesta e del conflitto.

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