Abiy Ahmed, Nobel per la pace

(disegno di Roberto Catani)
Agli inizi del mese di ottobre, mentre si diffondeva la convinzione che la candidata al Premio Nobel per la Pace 2019 sarebbe stata la sedicenne Greta Thunberg, ispiratrice del movimento ecologista Fridays for Future, l’ambito premio è andato invece, a sorpresa, al premier etiope Abiy Ahmed “per i suoi sforzi di garantire la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua azione decisiva per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea”. La maggioranza della stampa italiana ha semplicemente diffuso la notizia adottando un unanime plauso di facciata per la ritrovata pace nel Corno d’Africa, un angolo di mondo di cui i giornali italiani, a eccezione di “Avvenire” e “il manifesto”, parlano poco e di mala voglia per lo più in occasione di grandi eventi, cataclismi o misfatti.
Nei primi cento giorni di governo, Abiy sorprende tutti mostrando un intuito politico e una capacità di gestione insospettati in un sistema autoritario-repressivo quale quello di cui è parte
L’opinione pubblica italiana è notoriamente poco e male informata sulle sorti del continente africano. Un recente rapporto di Amref (L’Africa mediata, ottobre 2019) ha messo in luce quanto poco l’Africa sia presente nei media italiani. Nei telegiornali serali presi in esame nei primi sei mesi del 2019, la copertura di eventi africani non è andata oltre il 2,4%, arrivando al 10% solo includendo gli africani che vivono in Italia coinvolti in fatti di cronaca o in flussi migratori. Approfondimenti sul Corno d’Africa, dove pure la presenza italiana è stata importante in passato e dove si giocano partite cruciali per il Continente, sono rari al di là di isolate notizie su atti terroristici o carestie. La Libia, da sola, assorbe in negativo quasi il 50% delle notizie sul Continente. Di qui il diffuso afro-pessimismo e la disinformazione sui nostri vicini lontani al di là del Mediterraneo.
Non stupisce quindi che la notizia del Nobel per la pace all’etiope Abiy Ahmed, il premier più giovane del continente africano, sia stato un evento spiazzante sulla stampa italiana. Nel comunicare la notizia, è stato enfatizzato soprattutto il ruolo del giovane leader oromo nell’imporre una svolta decisiva nel tormentato processo di pace lungo il confine con l’Eritrea dopo la sanguinosa guerra del 1998-2000, mai chiusa sul terreno, con il perdurante stato di guerra tra i due Paesi per quasi vent’anni. Di Abiy Ahmed, già ministro della Scienza e tecnologia e leader del partito oromo (Opdo) all’interno della coalizione di governo a guida tigrina (Eprdf), non si è avuta in Italia alcuna notizia fino a quando, nel mese di aprile 2018, a sorpresa, è stato nominato Premier in sostituzione del debole Hailé Mariàm Desalegn, le cui dimissioni erano state precedute da un’ondata di proteste antigovernative e dalla proclamazione dello stato di emergenza. Così è a sorpresa che il lettore italiano apprende l’8 luglio 2018 dell’intenzione di Abiy di chiudere le ostilità tra Etiopia e Eritrea, e della successiva dichiarazione di “pace e amicizia” che i due leader, Abiy e Isaias, firmano solennemente a Gedda il seguente 11 settembre. Parimenti, con lo stesso stile scarno che non approfondisce l’informazione, si dà notizia a fine luglio che in Etiopia sono stati piantati 350 milioni di alberi in sole dodici ore in uno sforzo collettivo contro la deforestazione del continente. Quando però il Premier etiope viene in Italia nel mese di gennaio 2019 in risposta alla visita di Conte in Etiopia e Eritrea nel mese di ottobre, la notizia viene seguita in Italia con pochi lanci di agenzia dedicati soprattutto alle conseguenze sui flussi migratori in provenienza dal Corno. Solo Giulio Albanese su “Avvenire” riprende la questione nel corso dell’estate per mettere in luce l’importanza della “rivoluzione buona” avviata dal leader etiope nella regione e le complesse politiche di pacificazione da lui portate avanti nel Corno d’Africa.
In realtà, quando Abiy va al governo nell’aprile 2018, pochi si aspettano che il quarantatreenne premier, figlio di un oromo musulmano e di una cristiana ortodossa, possa svolgere un ruolo di punta nella melmosa politica etnica dell’Eprdf, la coalizione di governo che ha messo fine al regime sanguinario del dittatore Menghistu Hailé Mariàm nel 1991. Nei primi cento giorni di governo, Abiy sorprende tutti mostrando un intuito politico e una capacità di gestione insospettati in un sistema autoritario-repressivo quale quello di cui è parte. Nei primi tre mesi del 2018 Abiy rivoluziona l’agenda politica del governo federale: dichiara un’amnistia per i reati politici, favorisce il ritorno degli oppositori in esilio, libera i giornalisti imprigionati per reati di opinione, mette in piedi una Commissione per la riconciliazione sul modello sudafricano, stabilisce che il 50% dell’esecutivo debba essere composto da donne e fa eleggere alla presidenza dello Stato Sahle-Work Zewde, la prima donna a ricoprire tale carica in Etiopia. Favorisce inoltre, lui protestante evangelico, il dialogo interreligioso e la riunificazione dei due Sinodi della Chiesa copta ortodossa con l’invito al vecchio Patriarca Abuna Merkurios, in esilio negli Stati Uniti, a rientrare nel Paese contribuendo così a sanare lo scisma che si era creato con la nomina del vescovo tigrino Abuna Paulos alla testa della Chiesa etiopica che aveva spaccato gerarchia e fedeli. Di tutto questo la stampa italiana non si occupa se non saltuariamente e per brevi cenni.
Con l’inaspettato annuncio del Nobel, Abiy viene così ricordato soprattutto per la dichiarazione congiunta di fine ostilità che ha firmato insieme al leader eritreo. Sull’effetto a catena di questo evento, sulla sua reale portata nella regione, e sulle conseguenze per il potenziale consolidamento del regime di Isaias Afewerki ad Asmara, si dice poco o niente sui nostri media proprio mentre la stampa estera, l’“Economist” in testa, comincia a sollevare i primi dubbi. Sia il luogo in cui viene firmata la dichiarazione congiunta di “pace e amicizia” tra i due Stati che il carattere di mero pronunciamento della dichiarazione fanno pensare che la situazione diplomatica sia assai più complessa di quanto ammesso. Ci vorrà tempo e ben altro impegno per smantellare le resistenze interne nei due paesi del Corno dopo la sanguinosa guerra del 1998-2000 che ha fatto 100mila morti, cementando nel sangue il vero confine di divisione tra i due Stati. A distanza di un anno dalla firma della Dichiarazione congiunta infatti, la situazione rimane bloccata sul terreno a causa dall’assenza di misure concrete che regolino l’apertura dei confini. Benché i voli Asmara-Addis Abeba siano stati riaperti, e le persone possano ora visitare i loro parenti oltre confine, le truppe etiopiche continuano a presidiare la cittadina eritrea di Badme che Abiy si era impegnato a restituire, e i valichi aperti all’indomani dell’annuncio trionfale di pace si sono presto richiusi. Ma soprattutto la fine formale delle ostilità non vede l’attesa cancellazione del sistema di coscrizione obbligatoria in vigore in Eritrea per tutti i cittadini tra i 18 e i 40 anni, causa principale dell’esodo di 5.000 giovani uomini e donne al mese, né la fine del governo autocratico del premier eritreo.
La promessa di pace nel Corno d’Africa può essere dunque considerata la cartina di tornasole della nuova leadership di Abiy nella regione, e ne esprime il carattere e le modalità di comunicazione puntati più su pronunciamenti che su misure concrete secondo lo stile profetico-revivalista del premier. Abiy è un alto tecnocrate prestato alla politica su cui ha costruito la sua carriera, ha alle spalle un dottorato in Peace Studies, ma anche un passato da militare e da funzionario dell’intelligence governativa. Soprattutto, è un convinto cristiano pentecostale, una religione che si è molto diffusa in Etiopia negli ultimi trent’anni raggiungendo il 18% dei consensi tra la popolazione (la Chiesa copto-ortodossa è al 44%). Nei suoi interventi Abiy fa spesso appello alla filosofia della riconciliazione e della “sinergia” (in amarico medemer) che è alla base della sua azione politica, una replica in qualche modo del sudafricano ubuntu (essere umani) caro al vescovo Desmond Tutu con in più una componente derivata dal sistema di governo oromo (gada) di democrazia orizzontale e partecipativa. Il libro Medemer (Ida’amuu in oromo) scritto dal premier e stampato in un milione di copie nelle due lingue (amarico e oromo) per il pubblico in Etiopia e nella diaspora, è stato ricevuto con reazioni discordanti, da una parte con il plauso di istituzioni e intellettuali vicini al regime, dall’altra con il rogo in piazza in zone rurali dell’est etiopico, questo sì ripreso da tutti i media. È chiaro che Abiy non è solo il pacifico leader liberale descritto sulla stampa occidentale, ma rischia di essere (o di trasformarsi) in un altro dei tanti “uomini del popolo” di cui l’Africa e la letteratura ci hanno dato molti esempi, non tutti positivi. È tuttavia presto per dirlo.
Con l’inaspettato annuncio del Nobel, Abiy viene così ricordato soprattutto per la dichiarazione congiunta di fine ostilità che ha firmato insieme al leader eritreo.
Due le grandi incognite che si nascondono dietro una personalità politica così magmatica e controversa. Abiy è riuscito finora a dare un’immagine di sé e delle sue politiche di riconciliazione come un politico moderato, aperto, inclusivo. Tuttavia, dietro la facciata sorridente e compiaciuta del politico di successo, si nasconde un populista che parla alle piazze e auspica un futuro comune e “sinergico” – senza partiti, fazioni o scissioni – che rischia di prefigurare un modello di potere in cui l’Eprdf si presenta come un movimento nazionale pan-etiopico, sostanzialmente stabilizzando e consacrando il partito unico di governo come “necessario” per il bene della nazione. Una questione che solleva non pochi interrogativi in vista delle elezioni del 2020.
La seconda questione, altamente complessa, ruota intorno al ruolo strategico dell’Etiopia come paese egemone nella regione con i suoi 110 milioni di abitanti – il secondo più popoloso paese del Continente – arbitro delle sorti e della governabilità dei paesi “minori” nella regione del Grande Corno (Sud Sudan, Somalia, Eritrea, Gibuti) premuti dalle grandi potenze medio-orientali (Arabia Saudita e Emirati arabi da una parte, Turchia e Qatar dall’altra) con le loro mire egemoniche sui porti, rifornimenti, infrastrutture e risorse lungo le coste del Mar Rosso. Al momento, Etiopia e Eritrea si sono schierate a favore dei primi facendosi coinvolgere direttamente nella lunga e sanguinosa guerra dello Yemen che l’Arabia Saudita combatte dal 2015 contro i guerriglieri houthi appoggiati dall’Iran. L’Etiopia, non avendo accesso diretto al mare, ricava molti vantaggi dall’accordo con l’Eritrea per l’uso dei suoi porti e per negoziare una sua presenza commerciale e militare lungo il Mar Rosso. Gli aiuti che l’Arabia Saudita e gli Emirati hanno promesso all’Etiopa di Abiy (tre miliardi di dollari) la incoraggiano ad andare in questa direzione. Di qui la firma della dichiarazione di fine ostilità tra Etiopia e Eritrea voluta da Riyad e ufficializzata a Gedda. Ma di qui anche il rischio di trascinare dentro il Corno d’Africa i non meno strategici interessi dei sauditi e innescare nelle pieghe già martoriate delle sue popolazioni il conflitto di un Islam (presente per il 34% in Etiopia, il 51% in Eritrea) sempre più fortemente diviso tra sunniti e sciiti.
Solo il tempo dirà se queste previsioni e timori si realizzeranno, e se la pace è veramente tornata nella regione del Corno. Al momento, paradossalmente, è la situazione sul terreno a destare nuove preoccupazioni tra gli stessi oromo a seguito dell’esodo di massa (800mila persone) di agricoltori gedeo dalla Regione meridionale respinti da altri gruppi di agricoltori della Regione di appartenenza (West Guji). Parallelamente, a seguito di una forte opposizione ad Abiy da parte di militanti oromo dell’opposizione, alcuni dei quali rientrati dall’esilio a causa delle riforme del Premier, riprendono vita sia movimenti di protesta modellati sul maratoneta oromo Feyisa Lilesa che alle Olimpiadi di Rio 2016 incrociò le braccia sopra la testa inaugurando un gesto che da allora è simbolo di rivolta nell’Etiopia rurale, sia il ripetersi di efferate violenze che rimettono in questione il federalismo su base etnica voluto dall’Eprdf con i confini delle nove Regioni modellati secondo i gruppi maggioritari del Paese. Ne è seguita una nuova stagione di emergenza, di arresti, di detenzioni, e una diffusa incertezza per il futuro in uno Stato che registra la crescita economica più alta del continente (ma anche ingenti spostamenti di popolazioni, accaparramenti di terre, e estrazioni forzate di lavoro e risorse con disuguaglianze sempre più marcate) tra gli Stati africani non produttori di petrolio.
Come ha scritto David Child sull’“Economist” del 19 ottobre 2019, i Nobel per la Pace più controversi sono sempre stati quelli assegnati a politici che avevano appena negoziato processi di pace, dalla coppia Kissinger-Le Duc Tho per la fine della guerra del Vietnam (1973), a de Klerk e Mandela per aver promosso l’abolizione dell’apartheid in Sudafrica (1993), fino a Yasser Arafat (con Shimon Peres e Yitzhak Rabin) per la difficile pace tra Israele e Palestina (1994). Quello assegnato nel 2109 al premier etiope Abiy Ahmed rischia di essere non meno controverso.
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