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Educazione e intervento sociale

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A scuola dall’Isis

“È grazie alla misericordia di Dio l'onnipotente che oggi lo Stato islamico è entrato in una nuova epoca, in cui si pone il primo mattone nell'edificio di una educazione islamica fondata sulla metodologia del Corano, sulla guida del Profeta, sulla comprensione dei pii predecessori e delle loro prime truppe militari, con una visione pura che non è né occidentale né orientale”.
15 Marzo 2017
Giuliano Battiston

“È grazie alla misericordia di Dio l’onnipotente che oggi lo Stato islamico è entrato in una nuova epoca, in cui si pone il primo mattone nell’edificio di una educazione islamica fondata sulla metodologia del Corano, sulla guida del Profeta, sulla comprensione dei pii predecessori e delle loro prime truppe militari, con una visione pura che non è né occidentale né orientale”. Recita così l’Introduzione generale ai libri scolastici del gruppo guidato dal sedicente Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Un gruppo terroristico che rivendica il suo carattere statuale, non solo a parole. Non più una semplice organizzazione (tanzim), un fronte militare come gli altri, ma uno Stato vero e proprio (dawla), dotato di un’architettura politico-istituzionale, messa a punto dopo l’annuncio della nascita del Califfato, nel giugno 2014, e oggi minacciata dalla controffensiva militare.

In quel periodo sono stati istituiti diversi diwan, i ministeri (o dipartimenti), insieme a organi governativi di coordinamento e a strutture locali, provinciali e regionali. Tra questi, spicca il ministero dell’Educazione, le cui direttive sono particolarmente utili per comprendere quale società ambisca a creare Abu Bakr al-Baghdadi, e quanto sia importante l’educazione dei più giovani per la sua longevità politica. Per ogni autorità che voglia apparire legittima, ha ricordato una volta il filosofo e antropologo Ernest Gellner, ancora “più centrale del monopolio dell’uso legittimo della violenza è il monopolio dell’educazione”. Il Califfo l’ha capito.

Così, nelle zone della Siria e dell’Iraq finite sotto il controllo dello Stato islamico, il sistema dell’istruzione è stato prima assorbito con pratiche amministrative, e poi rimodellato con strumenti di legittimazione ideologica. Vale per le scuole primarie e secondarie, ma anche per le università. Gli strumenti sono diversi. Qui ci interessano i libri scolastici in lingua araba, di cui ha fornito un ampio resoconto il ricercatore Jacob Olidort nel saggio Inside the Caliphate’s Classroom. Textbooks, Guidance Literature, and Indoctrination Methods of the Islamic State, pubblicato lo scorso agosto. Olidort analizza soltanto le pubblicazioni successive all’annuncio del Califfato, e nota in primo luogo la capacità degli ideologi barbuti di adottare strategie di costruzione graduale del consenso, legate alle conquiste militari, seguite da una produzione editoriale centralizzata e capillare, affidata perlopiù alla casa editrice Maktabat al-Himma, da cui dipendono anche i testi di orientamento generale: i pamphlet destinati ai combattenti, i trattati religiosi medievali, i vademecum su etica, pratiche rituali e amministrazione politica.

La stagione più prolifica è l’autunno 2015. È proprio allora che vengono pubblicati i testi scolastici, “mattoni nell’edificio dell’educazione islamica”, tra cui quelli di lettura, scrittura, chimica, lingua inglese, computer, storia e matematica per le classi elementari. La data di pubblicazione non è casuale. Dopo le campagne intimidatorie e violente contro i gruppi rivali del 2013, con le riforme burocratiche attuate nel 2014 il gruppo di al-Baghdadi ha gettato le basi per la campagna di costruzione del consenso, legando la diffusione delle i coordinate ideologiche al progetto di State-building. I frutti, nota Olidort, arrivano tra l’estate e l’autunno del 2015, con l’inizio di un sistematico processo di indottrinamento nelle aree controllate, dopo un periodo di transizione in cui il ministero dell’Educazione attua un’attenta riforma dei curriculum. Come dimostra il caso di Raqqa, in Siria.

“I nostri figli sono i boccioli dell’Islam”. È il commento che apre, dopo la tradizionale invocazione ad Allah il compassionevole e misericordioso, uno degli atti amministrativi dello Stato islamico nella provincia di Raqqa. Il documento proviene dal ministero dell’Educazione, risale al gennaio 2015 e fornisce “i dettagli del piano educativo a Raqqa”: cinque anni la scuola primaria, quattro la secondaria. In seguito, selezione per i college. Il documento è un atto ufficiale, provvisto di timbro e firma. Un protocollo amministrativo vero e proprio. È diretto a tutte le scuole della provincia. Molte hanno cambiato nome, dopo che gli uomini del Califfo hanno conquistato l’area. C’è la scuola intitolata a Khalid ibn al-Walid, “la spada di Allah”, il comandante di uno dei primi eserciti islamici e c’è quella dedicata ad Abu Musab al-Zarqawi, il padre putativo del movimento, leader di al-Qaeda in Iraq. La parità di genere è “rispettata”: le scuole per le ragazze portano i nomi delle mogli del profeta Maometto. Gli insegnanti non qualificati, “laureati senza esperienza”, devono seguire un corso di 10 mesi all’Istituto per la preparazione degli insegnanti, così prescrive il documento. Coloro che hanno già maturato un’esperienza di insegnamento, devono partecipare a una sessione di sharia di due mesi. E firmare un atto di pentimento (tawba). Strumento di coercizione e di cooptazione (oltre che di tassazione), l’atto di pentimento è un documento formale che spiega bene la strategia di cooptazione delle strutture esistenti operata dall’Is in ambito educativo, e non solo. Quando viene conquistato un nuovo territorio, chi era affiliato ai gruppi rivali può vedersi risparmiata la vita, se lo firma. Gli insegnanti e i funzionari amministrativi possono mantenere il lavoro, se assicurano il proprio pentimento e se dimostrano di voler essere rieducati, seguendo le lezioni di sharia basate su testi come il Corso sui più importanti aspetti della dottrina.

Il ministero dell’Educazione – ha spiegato il ricercatore Aymenn al-Tamimi – è stato a lungo diretto da un uomo che si fa chiamare Dhu al- Qarnayn, tedesco di origine egiziana già sodale di Abu Musab al-Zarqawi. Ogni direttiva porta la sua firma. Ogni decisione passa per il suo ufficio, dagli annunci di lavoro al bando delle materie considerate contrarie alla sharia. La riforma dei curriculum ha investito anche le scuole superiori e le università. I dipartimenti “non legittimi secondo la Sharia” sono stati chiusi: diritti umani, scienze politiche, arte, archeologia, filosofia; eliminati i soggetti ritenuti impropri: democrazia, cultura, libertà, diritti. Nei corsi di scienza naturale, abolito “tutto ciò che è connesso alla teoria di Darwin, alla selezione naturale e che non venga attribuito alla creazione di Allah l’onnipotente”. La parola patria è stata sostituita con terra dell’Islam, o Stato islamico.

Nelle scuole elementari, i testi di storia spiegano che esistono solo cinque epoche. La prima coincide con la vita del profeta Maometto, la diffusione dell’Islam, le battaglie con le tribù confinanti e altri gruppi rivali in Arabia, nel VII secolo. L’ultima inizia con l’annuncio del Califfato, nell’estate del 2014. Alla base, una visione deterministica e teleologica, che conduce inevitabilmente ad Abu Bakr al- Baghdadi, la cui legittimità religiosa viene ribadita attingendo ai versetti del Corano e agli hadith, i detti del Profeta, accuratamente selezionati dalle raccolte dei religiosi sunniti più autorevoli. Abu Bakr al-Baghdadi è l’uomo che porta a compimento gli sforzi compiuti dai precedenti gruppi jihadisti, che hanno avuto il merito di risvegliare nei cuori dei giovani musulmani lo spirito del messaggio di Maometto, per poi lasciarsi irretire dalla debolezza e dall’indecisione. Il Califfo compie e ribalta la storia. Vendica gli insuccessi, le ingiustizie e le umiliazioni subite dai musulmani. Innalza la bandiera dell’Islam. Che va protetta anche militarmente.

Come mostrano i quiz per accertare le conoscenze degli studenti delle elementari, diventare un buon cittadino dello Stato islamico significa essere pronto a combattere, riconoscere che la violenza è un mezzo di purificazione del mondo, l’atto preliminare per affermare la sovranità divina, esclusiva per definizione: “Che lo studente memorizzi le varie posizioni delle truppe nella battaglia di Badr. Che lo studente ricordi il modo in cui Dio ha aiutato i musulmani durante la battaglia. Che lo studente connetta i concetti di affidamento a Dio, fede, e aiuto divino. Che lo studente comprenda che tra i requisiti dell’esercito islamico c’è il fatto di terrorizzare gli infedeli. Che lo studente riconosca che uccidere famiglie è un requisito a volte necessario, e un modo per restaurare il benessere della società”. La storia non è che una lotta tra il bene assoluto e il male assoluto, “la storia del conflitto tra il popolo della verità e il popolo della falsità”.

Attraverso i testi scolastici, lo Stato islamico fornisce una visione del mondo onnicomprensiva, costruita su un modello binario. Il Califfo – che ha l’obbligo di imporre un’autentica amministrazione islamica sulla popolazione e di combattere chiunque disobbedisca – è il protettore del vero Islam, il portatore e il difensore della verità. Se qualcosa non va è colpa dei nemici, che impediscono il progresso. La comunità internazionale continua a voler sottomettere i musulmani. Il nemico è, a seconda dei casi, miscredente (kuffar), politeista (mushrik), apostata (murtad). I nemici sono sconfitti, uccisi, umiliati, conquistati, le loro azioni e ideologie screditate. Servono a ribadire la superiorità degli uomini del Califfo, a legittimare la lotta. Attraverso l’immagine del nemico, lo Stato islamico precisa dunque la propria fisionomia. Nei testi scolastici l’altro, il nemico, serve a ribadire una concezione manichea del mondo. Le sue depravazioni sono lo specchio in cui riflettere la propria purezza. La linea di confine tra il “noi” e il “loro” è netta. Il contagio va scongiurato. Il mondo è diviso in due campi. Da un lato il campo dell’Islam e della fede (dar al-Islam), dall’altro il campo della miscredenza (kufr) e dell’ipocrisia: ebrei, crociati, i loro alleati e con loro il “resto delle nazioni e delle religioni kufr, tutte quante guidate dall’America e dalla Russia, e mobilitate dagli ebrei”.

I più giovani vanno convinti ad abbracciare la causa, dentro e fuori la scuola. Per farlo, fuori dalle aule scolastiche si ricorre anche alla cosiddetta “socializzazione graduale”. I bambini vengono invitati a partecipare agli incontri pubblici di propaganda. Vengono mostrati loro i successi del Califfo. Le conquiste. I combattimenti. Perfino i gesti più violenti, che desensibilizzano e preparano il terreno per l’atto di fedeltà. L’affiliazione al gruppo è presentata come un privilegio. Il prestigio seduce. A esserne persuasi sono grandi e piccoli. Tra i più giovani, ci sono i figli dei foreign fighters; i figli dei simpatizzanti locali; i bambini abbandonati, trovati negli orfanotrofi dei territori sotto il controllo degli islamisti; i ragazzini strappati alle famiglie; quelli che scappano da casa in cerca di avventura. Usati come spie, in famiglia o nelle comunità; assegnati ai check-point; quelli con la parlantina giusta, i più svelti e convincenti, impiegati come reclutatori, per diffondere il messaggio e convincere altri bambini a unirsi alla causa. La priorità di ogni organizzazione terroristica è assicurarsi la sopravvivenza. Per il Califfo, i bambini sono una forma di garanzia. Devono essere indottrinati e ben addestrati.

Le giovani reclute dei campi di addestramento devono imparare a memoria il Corso sul monoteismo. Diffuso dal Ministero per le fatwa, è stato redatto dallo studioso del Bahrein Turki al- Binali, ideologo di riferimento nella contesa con al-Qaeda – l’altro gruppo egemone nella galassia jihadista – per la legittimità religiosa del Califfato. Il testo attinge alle quattro scuole giuridico-religiose dell’Islam sunnita (hanbalita, shafiita, hanafita, malikita), ma riflette ampiamente la particolare interpretazione di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, l’ispiratore del wahabismo. Indica i passi da compiere per combattere la corruzione morale e purificare la comunità che vive nel Califfato, eliminando l’idolatria e affermando l’unicità di Dio. L’unica identità, recita il Corso sul monoteismo, è quella religiosa. Ogni altra identità, che sia sociale, nazionale o etnica, è rimossa o negata. Il passato – a eccezione di quello degli “antenati devoti”, i pii predecessori, le prime tre generazioni di musulmani – rappresenta una deviazione dalla retta via, un unico, lungo, peccaminoso itinerario di bida, innovazioni eterodosse, e di offuscamento della verità, quella verità che il Califfo ha il merito e il dovere di ristabilire nuovamente. I miscredenti hanno indebolito e umiliato i musulmani “diffondendo i loro accecanti e ingannevoli slogan come civilizzazione, pace, coesistenza, libertà, democrazia, secolarismo, baathismo, nazionalismo e patriottismo”, ripete spesso Abu Bakr al-Baghdadi.

La pulizia culturale, l’idea che sia necessario purificare le terre islamiche da tutte le influenze aliene e infedeli, incluse le pratiche tradizionali sunnite che contrastano con il fondamentalismo jihadista-salafita, nota lo studioso Fawaz Gerges in Isis. A History, è ormai parte integrante dell’immaginario degli attivisti radicali. Lo Stato islamico è però il primo movimento che cerca di rendere operativa tale ideologia. Lo strumento privilegiato per purificare la fede è il takfir. Per Shiraz Maher, l’autore di Salafi-Jihadism. The History of an Idea, il takfir, la scomunica, è una delle cinque caratteristiche fondamentali del salafismo, l’orientamento teologico dell’Islam sunnita che punta alla purificazione della fede e che contrassegna ideologicamente gran parte del jihadismo contemporaneo. Il takfir è un concetto teologico usato in chiave strumentale per tracciare una linea, assoluta, che esclude dall’Islam coloro che si ritene abbiano abbandonato la vera fede. È un mezzo per espellere dall’ecumene islamica quanti lo corrompono e sovvertono dall’interno, per definire cosa sia la comunità islamica, chi ne faccia parte e chi, invece, sia un kafir, un infedele. Per molti salafiti è un meccanismo di protezione dell’Islam che ne salvaguarda la purezza dottrinaria attraverso l’omogeneità di gruppo e un’adesione non passiva; per i jihadisti è invece “una licenza per la guerra interna al mondo musulmano”. Maher ricorda che è negli anni ottanta e novanta del Novecento che i gruppi militanti sunniti cominciano a elaborare la dottrina del takfir, adeguandola ai tempi moderni, ma è solo in seguito all’invasione americana dell’Iraq nel 2003 che si cristallizza “in un’idea più coerente”. È allora infatti che al-Qaeda e i suoi sostenitori nel più ampio ecosistema del pensiero jihadista- salafita sono costretti a produrre una dettagliata mole di lavoro per spiegare, all’interno di una cornice giuridico-teologica, cosa intendessero per takfir. Oggi quell’idea si è fatta ideologia di Stato. E viene insegnata a bambini, giovani e adolescenti nei territori controllati da Abu Bakr al-Baghdadi. “Grazie al favore di Dio, oggi viviamo all’ombra di questo fortunato e benedetto Califfato”, dicono i suoi ideologi. Per preservarlo, la verità va difesa con l’aiuto di una “generazione veritiera e monoteista”.

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