Come si fa un movimento: lezioni francesi
Sono passati ormai quattro mesi dall’inizio della mobilitazione contro la riforma delle pensioni in Francia. Si tratta del più grande movimento francese dal 1995, all’epoca della mobilitazione contro un’altra riforma delle pensioni, quella volta promossa dal governo repubblicano di Alain Juppé. Allora l’ondata di scioperi si scagliò contro l’allungamento dell’età contributiva da 37,5 a 40 annualità e lo slittamento dell’età pensionabile da 60 a 62 anni. Quest’ultimo punto avrà forza di legge solo nel 2010, sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy. L’attuale governo, guidato da Elisabeth Borne, ha proposto di aumentare di altri due anni l’età pensionabile, portando a 43 anni la quota contributiva obbligatoria.
Il governo Borne ha motivato l’urgenza della riforma con un deficit di 10 miliardi, che sarà raggiunto nel 2027 e che entro il 2030 potrebbe arrivare alla soglia di 13 miliardi e 500 milioni. Questo vuoto di bilancio però è stato causato proprio durante questa e la scorsa presidenza di Emmanuel Macron. La soppressione della tassa sul valore aggiunto delle imprese nel 2023 e nel 2024, dimezzata invece già dal 2021, è costata più di 16 miliardi e avrebbe potuto ampiamente coprire il fabbisogno denunciato dal governo. L’Osservatorio della giustizia fiscale, creato dall’Association pour la taxation des transactions financières et pour l’action citoyenne (ATTAC), ha avanzato altre quattro controproposte per finanziare altrimenti il sistema pensionistico: la sostituzione dell’imposta sulla fortuna immobiliare (circa 2 miliardi) con un’imposta di solidarietà sulla ricchezza (tra i 9 e i 12 miliardi); la soppressione della flat-tax per rendere imponibile l’insieme dei redditi finanziari aggiustandoli all’aliquota sul reddito (tra i 2 e i 5 miliardi in più); il rafforzamento dei mezzi contro l’evasione fiscale (tra gli 80 e i 100 miliardi all’anno) per aumentare i risultati dei controlli fiscali (circa 15 miliardi all’anno); la riduzione del numero delle agevolazioni fiscali (sono ben 90 i miliardi andati in fumo nel 2023 grazie a queste scorciatoie).
La riforma delle pensioni e la contestazione in corso non riguardano quindi, come invece si ripete spesso, una semplice questione di due anni in più o in meno, a fronte di paesi come l’Italia in cui l’età minima è di 67 anni. Lo scontro è interamente politico ed esistenziale, come ha spiegato Jean-Luc Mélenchon, presidente de La France insoumise (LFI): «Il tempo non è solo il tempo forzato che è socialmente utile, il tempo di lavoro, ma è anche il tempo libero, della vita di cui disponiamo noi stessi, in cui decidiamo noi stessi di ciò che ne faremo». Nel suo intervento del 21 gennaio scorso, il segretario di LFI ha rivendicato il «vivere umanamente e socialmente, non per fare ciò che altri hanno deciso per noi, ma ciò che noi stessi abbiamo deciso di fare: vivere, amare, occuparsi della propria gente, leggere delle poesie, dipingere, cantare o anche non fare nulla». E ha spiegato la logica neoliberale sottesa da questa riforma: «E loro che vogliono fare? Quel che fanno sempre, trasformare ogni cosa vivente o inanimata in merce. Ebbene, i due anni che vogliono rubarvi non faranno lavorare una sola persona di più, lo so bene; ci saranno più disoccupati, più malati, ma soprattutto ci sarà meno vita». Non si tratta quindi di “due anni in più o due anni in meno”, ma della difesa di una vita liberata dal lavoro che «[i ricchi] vogliono mercificare».
Un’intersindacale inedita: tra ampiezza quantitativa e limiti qualitativi
Al momento in cui scriviamo, si contano dodici giornate di scioperi indetti dal fronte sindacale. Per la prima volta dopo tanti anni, i sindacati sono uniti ormai da quattro mesi contro la riforma. Compresa la Confédération française démocratique du travail (CFDT), che si era distinta nelle scorse mobilitazioni contro le riforme delle pensioni proprio per l’appoggio ai governi precedenti. Il 13 aprile, data del dodicesimo sciopero unitario, il segretario della CFDT Laurent Berger ha annunciato che il sindacato sarà presente per la prima volta al primo maggio per «una grande festa popolare del lavoro».
Per quanto importante e inedita nella sua ampiezza, l’intersindacale non è stata però in grado di generalizzare lo sciopero. I riferimenti sono senza dubbio il 1968 e il più vicino 1995, ma bisogna constatare una grande trasformazione del rapporto tra lavoratori e sindacalismo. Se nel 1968 il tasso di sindacalizzazione era al 18,3% e poi al 19% nell’anno successivo, ad oggi i lavoratori sindacalizzati superano di poco il 10% mentre nel solo settore privato ci si ferma al 7,8%. Questi dati non spiegano da soli il paradosso tra larghezza dell’intersindacale e mancanza di uno sciopero generale, ma aiutano comunque a dar conto della bassa mobilitazione soprattutto nei settori privati. Un altro problema deriva piuttosto dalla stanchezza dei settori trainanti nelle scorse mobilitazioni, come i trasporti, che non intraprendono lo sciopero generale nel loro settore aspettando che ora siano altri a fare una prima mossa.
Nel frattempo, le basi dei sindacati di sinistra come la CGT (Confédération générale du travail) e Solidaires spingono per un’autonomia delle loro organizzazioni rispetto alle strategie dell’intersindacale. È stata proprio la creatività militante e la tenacia delle basi ad aver forzato, tra fine febbraio e inizio marzo, il passaggio di qualità verso lo sciopero a oltranza secondo la formula della grève reconductible. Per dodici settimane si è così votata, nelle assemblee generali delle basi sindacali, la riconduzione dello sciopero per la settimana consecutiva. Uno degli effetti più visibili della creatività militante delle basi sindacali è stato lo sciopero parigino nel settore dei rifiuti che ha riempito di spazzatura le strade della capitale per 23 giorni consecutivi fino al 29 marzo, d’altronde molto utile per le manifestazioni non autorizzate e la costruzione di barricate “incendiarie”. Alla vigilia della riunione del Consiglio costituzionale, la CGT del settore ha rilanciato l’iniziativa di uno sciopero a oltranza, definendolo un «atto 2» per «trasformare le strade della capitale in una discarica pubblica fino al ritiro della riforma».
È proprio in casa CGT che questa spinta soggettiva delle basi si è fatta sentire, durante il congresso nazionale a fine marzo. Il bilancio politico dello scorso mandato, presentato dalla direzione uscente, è stato rifiutato dai delegati. In un clima generale di contestazione della linea pacificante di Philippe Martinez (segretario uscente), il congresso CGT ha scomunicato la candidatura proposta dalla centrale, Marie Buisson, a favore di Sophie Binet. Prima segretaria donna dal 1895 e sostenitrice di un «femminismo di classe» per un sindacato intersezionale, Binet ha rilanciato la rivendicazione della settimana lavorativa di 4 giorni e ha chiarito da subito la sua linea: lo sciopero come arma principale della classe. La nuova direzione della CGT potrebbe segnare quindi un cambio di paradigma rispetto ai rapporti con l’intersindacale, elaborando una nuova strategia da intraprendere per una generalizzazione dello sciopero.
«La jeunesse est dans la rue»
Vista dall’Italia, salta subito all’occhio una particolarità di questa mobilitazione: la capacità collettiva, di massa, di uscire dalla semplice contestazione di una misura governamentale per estendere una critica politica all’intero sistema che essa esprime. Lo si era già visto con il movimento dei gilets jaunes, partito dall’esplosione nelle provincie più remote dell’esagono contro il caro-benzina ed estesosi a macchia d’olio fino a «volerla far finita con la Macronia». È in questa prospettiva che vanno letti questi primi quattro mesi di mobilitazione. La risposta immediata alla riforma è stata difensiva e ha serrato le file di un’intersindacale inedita. Questa posizione è stata mantenuta fino al 16 marzo, quando il governo Borne, su consiglio neanche tanto velato di Macron, ha proceduto a far «passare con forza» la riforma con il ricorso al comma 3 dell’articolo 49 della Costituzione francese: la votazione in Parlamento è stata annullata e il governo ha potuto procedere con un decreto. In quel momento, Place de la Concorde era piena fino all’orlo, divisa dal Parlamento da un ponte interamente militarizzato. La notizia dell’applicazione autoritaria della legge innescò il salto di qualità nel movimento, liberando la spinta soggettiva delle basi sindacali raggiunte dagli studenti. Si sparse la parola d’ordine della presa della Concorde e decine di cortei non autorizzati (manifs sauvages) partirono per tutta la capitale fino a tarda notte.
Questo salto di qualità, che ha segnato il ritorno quotidiano delle sauvages nelle maggiori città francesi, si lega a una creatività simbolica e comunicativa del movimento, che ha però anche un valore politico fondamentale: creare convergenze fra soggettività altrimenti separate e sviluppare un discorso politico intersezionale. A questo proposito, il pink bloc, nato a Praga nel 2000 col movimento altermondialista, sta assumendo un’importanza strategica crescente. In Francia, si è affacciato per la prima volta nel 2010 proprio contro la precedente riforma delle pensioni e poi nel 2016 nel quadro della Loi travail. In questo momento, lo spezzone pink bloc si va ingrossando «per non subire più sessismo, omofobia e transfobia nei nostri luoghi di lavoro».
La politica di intersezionalità e convergenza è condotta anche da altri due gruppi: le Rosies e Alternatiba. Di quest’ultima si è sentito molto parlare anche in Italia, grazie alla figura eccentrica di Mathilde Caillard, assistente parlamentare che si è distinta per i suoi balli in cui rilanciava le parole d’ordine sulle note della techno. Le sue performance, ha spiegato all’emittente BFMtv, «permettono alle persone di riconnettersi con la lotta e di aver voglia di raggiungerla». Una simile iniziativa è proposta dalle Rosies, un collettivo femminista di ATTAC, che propone la danza delle lavoratrici-zombies di cui riportiamo il ritornello: «vivere in buona salute / con loro non è possibile / per i ricchi è ok… / ma i precari creperanno / noi vogliamo vivere / non solo sopravvivere / vivere dignitosamente / vivere decentemente».
Questi gruppi svolgono una vera e propria funzione politica, non solo comunicando i temi di movimento ma anche dando una concezione festiva e gioiosa dell’impegno politico. Un altro esempio di questo tipo è il block challenge, una sfida social lanciata da Louis Boyard, il parlamentare più giovane della LFI (21 anni al suo ingresso). Il deputato ha invitato gli studenti liceali a bloccare i loro istituti, promettendo di scegliere a sorte un gruppo da portare in Parlamento per esporre i problemi della scuola. L’iniziativa dei blocchi di licei e facoltà non è dipesa certo da questa challenge, che però ha sicuramente incentivato molti a impegnarsi anche solo per vedere i propri video rilanciati sui canali social di un deputato. In ogni caso, tra la trovata di Boyard e la provocazione del 16 marzo, gli studenti hanno raggiunto in maniera massiccia il movimento riportando in auge le sauvages. Nel frattempo, si è costituito un coordinamento autonomo liceale, il MALA (Mouvement d’action des lycées autonomes) che ha lanciato la prima sauvage interamente liceale durante la manifestazione del 13 aprile. Nel suo comunicato si legge la necessità di fare del movimento un «49.3 popolare per trasformare il destino di un mondo che distrugge i nostri genitori e uccide per dei bacini di stoccaggio dell’acqua», in riferimento ai duri scontri a Sainte Soline in cui più di 300 persone sono state ferite dalle duemila granate lanciate dalla polizia (dati della Lega dei diritti dell’uomo), che hanno portato in coma due manifestanti. E aggiungono: «vogliono spegnerci con Parcoursup che limita le nostre scelte, ci obbliga a sottometterci agli algoritmi del capitalismo». La partecipazione studentesca non è dunque solo di supporto contro le riforme, ma anche di convergenza fra il mondo dell’istruzione e della ricerca e quello del lavoro. Il discorso sulla vita liberata di Mélenchon è in questo caso declinato nei termini di una vita liberata dagli algoritmi di due piattaforme (Parcoursup e Trouve mon master) che nascondono dietro processi informatizzati e «anonimi» tutta la violenza della selezione sociale, rispettivamente all’ingresso nei corsi triennali e nei corsi magistrali in università. Parcoursup, lanciata nel 2018 con la legge «Orientamento e riuscita degli studenti», e Trouve mon master, creata nel 2017 come portale ministeriale di informazione sulle lauree magistrali, sono due piattaforme di iscrizione alle università francesi, rispettivamente per le lauree triennali e magistrali. Gli studenti che vogliono iscriversi alle università francesi sono obbligati a passare da Parcoursup e Trouve mon master, che nascondono dietro la neutralità algoritmica la violentissima selezione sociale promossa dalla riforma del 2018. Si tratta di due macchine infernali in cui gli studenti e le loro famiglie sono sottoposti a un regime di stress e umiliazione durante dei mesi interi. Per le iscrizioni in triennale, sono disponibili fino a dieci candidature, mentre per i master si arriva fino a quindici opzioni. In questa maniera, la pressione della selezione sociale si traduce in ingiunzione a differenziare le proprie scelte di percorso universitario sia verso diversi istituti sia verso indirizzi spesso lontani dai desideri di studenti e famiglie.
Il grande interrogativo dopo l’adozione della riforma
Sotto la spinta del movimento e di una contestazione diffusa (si parla del 94% degli attivi), la riforma ha dovuto arrestarsi e passare nelle mani del Consiglio costituzionale che si è riunito il 14 aprile. Dieci professori di diritto pubblico dell’Università Paris-Nanterre hanno diffuso nei giorni precedenti un comunicato spiegando le ragioni dell’incostituzionalità della procedura adottata dal governo, che ha presentato la riforma come «una legge per il finanziamento del welfare». Questo avrebbe dovuto far discutere la legge prima dell’emissione della finanziaria, di solito votata tra ottobre e dicembre. Perciò il ricorso al comma 1 dell’articolo 47 della Costituzione, impiegato in virtù di questo bizzarro inquadramento giuridico, sarebbe ingiustificato e antidemocratico. Questo comma prevede una procedura molto serrata: il dibattito parlamentare ha ruotato attorno al solo testo presentato dal governo ed è durato circa venti giorni, superati i quali il governo ha inviato il testo direttamente al Senato che ne ha potuto discutere per soli quindici giorni. Superati i cinquanta giorni complessivi, se il parlamento non si fosse pronunciato, il governo avrebbe potuto adottare il testo a colpi di decreti separati. Tuttavia, mancavano ancora molti giorni a questa scadenza quando il 16 marzo il governo, ricordano i professori nel loro comunicato, «ha preferito tagliare corto e usare il famoso articolo 49, comma 3» per far passare la riforma.Il Consiglio costituzionale ha però legittimato la riforma e ha rigettato la proposta di un referendum abrogativo d’iniziativa condivisa presentato da 252 parlamentari. Nella notte tra il 14 e il 15 marzo, mentre Macron si affrettava a firmare la riforma, le principali città francesi sono state messe a ferro e fuoco. Ora che la riforma è legge, nelle centrali sindacali così come nelle associazioni e nei collettivi universitari e liceali ci si pone il problema di come continuare la mobilitazione che è sempre più un movimento contro la Macronia. Una delle prospettive è la creazione di una nuova dialettica fra movimenti e istituzioni, che sia in grado di esprimere la creatività istituzionale di questo movimento. Una strategia che si urta frontalmente con l’evitamento sistematico dei corpi intermedi e delle istituzioni democratiche, Parlamento incluso, promosso dalla politica governamentale di Macron. Questo allargamento del fronte di mobilitazione potrebbe rilanciare il progetto, proposto da LFI, di una costituente popolare per una VI Repubblica. Tutti interrogativi aperti a cui il movimento è chiamato a rispondere nei prossimi mesi.