Paolo Pellegrin e le sue foto
“Quando ho iniziato a interessarmi di fotografia (ma a volte penso di essere stato “trovato” dalla fotografia) per me è stato abbastanza chiaro che a catturarmi fosse soprattutto il racconto dell’uomo, in chiave antropologica e umanistica. Nel corso degli anni questa direzione si è affinata, diventando più sociale e, in un certo senso, politica. Ho sempre pensato alla fotografia come a uno strumento per testimoniare, per raccontare storie, per investigare. In alcuni casi, per puntare il dito su situazioni particolari. Ed è questo che mi interessa del mio mestiere. Rappresenta, per me, la pietra angolare della fotografia”.
Pochi autori come Paolo Pellegrin sono riusciti a creare con il loro lavoro una sorta di archivio del presente che è già – ma sicuramente lo sarà ancora di più in futuro – utilissimo per non smarrire la traccia di quel che siamo. Nato a Roma nel 1964, Paolo Pellegrin è fotografo da tanto tempo, da quando decise di seguire il suo desiderio di guardare il mondo, e certo non solo per sistemarlo in piacevoli rettangoli visivi ma per conoscerlo, scoprirlo nelle sue pieghe più inaspettate e ribaltarlo con la vista, con il suo sguardo che, a ogni osservazione, diventava più originale, inaspettato. Così, esperienza dopo esperienza, lavoro dopo lavoro, il suo sguardo (come dire, il suo stile) si è andato affinando in un modo personalissimo, preciso e duttile. Pellegrin ha imparato – come nella tradizione del grande fotogiornalismo, di cui è erede indiscusso – a essere compassionevole e delicato, sensibile e curioso, sempre vicino alle persone e ai drammi che testimonia. Ma ha ugualmente imparato che in questo tempo incerto e oscuro in cui divoriamo tonnellate di immagini insulse, per poter rimanere impressa sulla retina della storia, una fotografia deve assolutamente porre degli interrogativi, inquietare l’osservatore, non certo rassicurarlo ma tenerlo sulle spine, stimolare il suo dubbio.
Così, con il suo sguardo obliquo e sempre più inquieto, Paolo Pellegrin segue da tempo l’attualità internazionale. Membro di Magnum, ha raccontato la Cambogia, la Bosnia in fiamme, la Palestina, l’Iraq, l’Iran, il Kosovo, il dramma delle migrazioni nel Mediterraneo, la realtà dei paesi arabi. Il suo lavoro è stato raccolto in importanti mostre e libri e la sua carriera è costellata da innumerevoli premi e riconoscimenti, segno di quanto la forza e l’intelligenza dei suoi lavori si impongano come parti di un’opera universale.
L’emergenza ambientale Paolo l’ha guardata dritto negli occhi molte volte, intrecciata saldamente con i drammi sociali che si trovava a testimoniare, migrazioni, guerre, devastazioni. È successo ad esempio testimoniando le conseguenze dello tsunami del 2005, quando a Banda Aceh, in Indonesia, la terra, il fango, l’acqua, i corpi distrutti diventavano un unico tragico caos magmatico di fronte alla sua macchina fotografica. O nella Louisiana degli Stati Uniti flagellati dall’uragano Katrina, sempre nel 2005, quando negli interni delle case, ormai spogli per la concitazione della fuga, non rimane che l’ombra o la sagoma sul muro degli oggetti e degli abitanti, il simulacro di ciò che furono. L’ha incontrata durante le ricognizioni aeree in Antartide, dove nelle profonde crepe dei ghiacci, nel bianco che finisce per confondersi nel grigiore indistinto dell’atmosfera, l’apocalisse diventa una realtà palpabile. Per ogni storia, come sempre, il suo sguardo ha cercato, e trovato una cifra diversa, una ragione per giustificare quel lo specifico racconto, quella visione di realtà.
Nel 2020, poco prima del dilagare furioso della pandemia da Covid-19, Pellegrin è in Australia per raccontare, con un bianco e nero profondo, le devastazioni del fuoco che ha invaso quasi l’intero paese. La presenza umana è un residuo, una traccia ancora visibile dove la natura, faticosamente, cerca comunque di ricostruire se stessa e di impossessarsi di ettari di terra desolata per poter un giorno farla diventare un nuovo mondo.
Lo sguardo di Walker Evans, padre della fotografia contemporanea, è stato spesso chiamato the hungry eye, lo sguardo affamato, quello che tutto vuole vedere e conoscere e soprattutto che non si accontenta. Anche lo sguardo di Paolo Pellegrin non si accontenta e si muove rapido, mai soddisfatto e consapevole di come esista sempre un livello da oltrepassare, una profondità diversa da raggiungere, un abisso dove entrare per poter sentire di aver fatto in pieno il proprio lavoro, aiutando a costruire quella memoria collettiva che sola ci potrà salvare.
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