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Vladimir Makanin nell’underground

È morto ottantenne poche settimane fa a Mosca un grande scrittore, Vladimir Makanin, autore di molti romanzi editi a suo tempo in Italia da e/o e di un’opera ampia, quasi 600 pagine in grande formato, tradotta da Sergio Rapetti, Underground.
18 Marzo 2020
Sergio Rapetti

È morto ottantenne poche settimane fa a Mosca un grande scrittore, Vladimir Makanin, autore di molti romanzi editi a suo tempo in Italia da e/o e di un’opera ampia, quasi 600 pagine in grande formato, tradotta da Sergio Rapetti, Underground. Makanin ha saputo raccontare come pochi la sua generazione, che ha vissuto gli anni di Stalin e di Breznev, quelli più tranquilli di Kruscev, quelli della fine del bolscevismo e dell’Urss, delle speranze gorbacioviane e degli incubi eltsiniani e putiniani. Appassionato giocatore di scacchi, Makanin sapeva e diceva che esistono pedine bianche e pedine nere nel gioco della vita e della storia, e ha saputo mescolare ora con pazienza ora con insofferenza l’attenzione ai valori quotidiani delle esistenze comuni e gli stravolgimenti nevrotizzanti e spesso criminali della politica. Ha saputo partire da Cechov ma anche da Dostevskij, anche da Gogol. Lo ricordiamo con un passaggio della postfazione di Rapetti a Underground, ringraziando il nostro amico e la casa editrice Jaca Book, che coraggiosamente lo propose ai pigri lettori italiani nel 2012. (g. f.)

(…) Il protagonista di Underground Petrovic è un marginale, scrittore mai pubblicato, bomi (“senza fissa dimora”, homeless), il quale si adatta per vivere a fare la guardia agli appartamenti degli altri; quella della marginalità è per lui una scelta di vita e di filosofia (e anche una scelta estetica) volontariamente e ostinatamente sommersa, e costituisce l’humus nel quale è radicato l’“io narrante” Petrovic (connotato dal solo patronimico, lui e gli altri non ricordano più il suo primo nome). L’umanità brulicante e variopinta con la quale Petrovic si pone in rapporto per lo più abita o comunque frequenta l’obšcaga. I corridoi si intersecano con altri corridoi, le porte sono chiuse e rinserrate su segreti, slanci ideali, miserie e abiezioni, e il tutto è figura del mondo e della contraddittoria condizione umana. Gli uomini che ne abitano i recessi gli confidano i propri problemi, anche i più intimi, le donne gli si danno un po’ e/o per un po’ (lui le attrae come scrittore sia pure presunto, le delude come disadattato che non vuole saperne di “sistemarsi” in una vita ordinata), quasi tutti lo disprezzano come fannullone e parassita. Nonostante ciò lui “si sente amato, e più di quanto non si debba”.

È un paradosso solo apparente. Il fatto è che alla base del rapportarsi con gli altri di Petrovic (del suo criterio) c’è l’“aver cura” di loro, come il “prendersi cura” delle cose (“i metri quadrati” da essi abitati e vissuti) è alla base del suo povero mestiere (cui però lui tiene moltissimo) di custodia-guardiania. Il lasciarsi “curare” da lui, magari poi anche ripagandolo col disprezzo e l’indifferenza, è quanto basta a Petrovic per sentirsi comunque corrisposto.

La sua solitudine è alleviata da solide, e libere, letture: filosofiche, dagli antichi greci a Berdjaev, Heidegger e Sartre; quanto alla letteratura, un critico che “frequenta” da anni Makanin ha scritto: “Del fatto che il romanzo dovesse essere non solo un’enciclopedia della vita russa, ma anche della sua letteratura, Makanin era fermamente convinto” (Andrej Nemzer).

E Petrovic interroga, in modo sommesso e insieme imperioso, la realtà e lo fa mettendosi in gioco, rischiando sempre molto, con la propria vita, con le proprie qualità (anzitutto un’ardente dedizione a chi soffre e piange, ma solo finché questi “umiliati e offesi” restano tali, quando conquistano una posizione sociale anche piccola Petrovic tende a tagliare i ponti; l’odio per qualsiasi compromesso col potere e il disinteresse per il denaro e i beni materiali; una fierezza e un’onestà intellettuale senza compromessi) e gli speculari difetti (un amor proprio ipertrofico per il quale uccide una prima volta; l’ossessione di finire negli ingranaggi della delazione e provocazione poliziesche, per la quale di nuovo uccide). E in folgoranti istanti di verità sceglie e ribadisce che per congiungersi all’esistenza, alla “dolce prosa della vita” si deve rinunciare alla “vanagloria della letteratura”, non solo allo status di scrittore, ma proprio allo scrivere e a ciò che si è scritto.

Ma lo scrittore che non vuole esserlo Petrovic ci assicura di non aver conservato nulla dei suoi scritti e comunque di non voler scrivere più, e in che modo ce lo dice – a noi che qui e ora lo leggiamo? –: scrivendone!

E che cos’ha dunque da dirci il “non-più-scrittore”?: deve raccontarci di sé stesso, vulnerabile e spietato, tenero e cinico, che assimila in sé confessioni, destini, anime, vicende e personaggi incontrati, carpiti in un’ora, un minuto, un istante cruciali facendosi esso stesso testo.

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Questo gioco di rimandi, di specchi, di una complessità e perizia talvolta vertiginose (a – rifiuto di farsi complice e addetto della cultura-letteratura dell’establishment; b – opzione per la “dolce prosa della vita” in cui si stempera l’io ; c – “io narrante” che, carico di vita e di vissuto, si fa testo, e racconta anche questo suo farsi testo) crea lungo tutto il romanzo una vibrazione di un’intensità che non finisce di stupire, anche per la sua tenuta, dall’inizio alla fine, quasi senza cadute di tensione.

Petrovic-Makanin avrà anche rinunciato a scrivere, ma considera uno strumento sempre attuale, per comprendere la vita e l’esistenza delle persone, e anche quella propria, la letteratura russa; essa è certo una fonte di autosuggestione magari vana, ma anche di conoscenza utile e presa di coscienza.

Col sottotitolo e l’epigrafe il romanzo Underground si muove sotto il segno di Lermontov e del suo eroe Peforin. Il già citato Nemzer osserva: “Makanin dice: ‘Petrovic sono io!’ non però come Flaubert di Emma Bovary, bensì come Lermontov di Peforin. Io, cioè non io. Io, tutti noi. Solo perdendo il nome, puoi diventare testo”.

Che cosa ha portato alla cultura e alla coscienza del popolo russo (a tutti noi) dopo l’eroe cinico e morbosamente ripiegato su se stesso di Lermontov e il quasi a lui contemporaneo Gogol’ e poi Dostoevskij, questi ultimi particolarmente vicini a Makanin-Petrovic? Semplificando: la compassione (nel senso etimologico di “soffrire la sofferenza dell’altro”). Nei cosiddetti racconti pietroburghesi di Gogol’ e in molto Dostoevskij – tra altri romanzi, Umiliati e offesi e Delitto e castigo – risaltano motivi come l’attenzione per i diseredati, la purificazione morale, personale e sociale, il pentirsi delle proprie colpe, il reciproco perdonarsi.

A differenza di quello atrofizzato di Pecorin, il cuore di Petrovic (l’abbiamo già accennato) batte generoso e impulsivo. Si riporta qui lo stralcio di un episodio significativo, ambientato nella metropolitana di Mosca:

Petrovic ha detto una buona parola e offerto una sigaretta a una ragazza sconosciuta male in arnese che singhiozzava nell’angolo di un vagone, poi lui la saluta per scendere e lei lo segue e a un tratto: “ (…) lei mi si è precipitosamente gettata sul petto. Un abbraccio del tutto fuori luogo che per giunta sembrava non dover finire mai. Siamo rimasti così abbracciati senza muoverci. Non era un semplice addio, era un addio grandioso, come se il mio transatlantico fosse sul punto di salpare dal molo (mentre invece stavo semplicemente aspettando il metrò direzione Taganka). (…) E, soprattutto, lei non diceva niente, paga di abbandonarsi sul mio petto finché non fosse arrivato il treno. Di notte i treni non passano di frequente. Siamo rimasti così per otto o dieci minuti, un abbraccio che si è protratto fin quasi allo sfinimento”.

Quando Petrovic sale finalmente sul treno, senza poter far altro per lei, le infila una banconota in mano (lei sperava che lui fosse in grado di tenerla con sé):

“Lei ha messo il denaro in una piccola tasca della gonna senza ringraziarmi. Non ha neppure guardato quanto era. Attraverso la porta vetrata del vagone l’ho spiata spasmodicamente cercando di cogliere almeno un barlume di luce nel suo sguardo, possibile non si rendesse conto di quanto le avevo dato (dell’entità della cifra)? … I suoi occhi erano vuoti e incolori” .

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