Vita di un immigrato
Jan Gorczyca è nato nel 1962 a Stalowa Wola, un piccolo centro industriale della Polonia meridionale. Cresce di fatto come figlio unico, con due sorelle molto più grandi e genitori spesso impegnati, nel momento di crisi del regime comunista. Partecipa alle mobilitazioni di Solidarnosć all’inizio degli anni ottanta, viene reclutato nelle truppe polacche d’appoggio all’esercito russo nella guerra in Afghanistan, è impiegato nella manutenzione di una centrale nucleare russa al tempo della crisi di Chernobyl, viene travolto dalla crisi della caduta del muro e decide di trasferirsi in Italia a metà degli anni novanta. Da allora vive per strada. Si appassiona di letteratura da adolescente, sbirciando i libri delle sorelle e dei loro amici. (Christian Raimo)
Arriva luglio e un altro controllo di polizia. Di nuovo ufficio stranieri via Genova. Siamo rilasciati, ma sempre un’altra giornata senza mangiare e fumare solo di nascosto. Non ho mai capito sto tipo di trattamento, perché secondo me se fai un controllo per identificazione non puoi trattare uno come un criminale, perché alla fine anche in questo caso è un trattamento disumano. Secondo le leggi fino a sentenza definitiva sono tutti innocenti.
Mi fermo sui miei pensieri: al momento ho un lavoro, pranzo con il datore di lavoro, ormai siamo amici e faccio la doccia in officina, mi manca solo un posto per dormire. Posso affittare un posto letto. Ma c’è altro, sono innamorato di Marta che attualmente sta in Polonia. Cerco di trovare una casa per quando torna, però ormai faccio parte di questa piccola comunità, e io alla fine non sono tanto diverso. Cerco una via di mezzo. Mi rendo conto che senza appoggio politico o di gente del posto questa specie di occupazione non può durare. A sto punto stringo sempre di più i rapporti con i vicini e anche con i ragazzi che stanno qui, nonostante la differenza di età (circa 20 anni). Loro provengono dalle famiglie benestanti ma vogliono un po’ di svago, così con loro ogni tanto mi faccio una canna. Adesso 20 anni dopo quando ci incontriamo per strada siamo sempre amici.
Sembra tutto tranquillo ma la vita per strada non concede sconti. L’altra figlia di Teresa che finora stava con uno sotto la tenda in un altro accampamento di polacchi scappa da lui e viene dalla madre. Teresa lavora. Con l’occasione scopro che lui (non mi ricordo il nome) la costringeva a aspettare la mamma quando usciva dal lavoro per farsi portare i soldi. Mi incazzo, quando lui viene per portarla via lo meno, e così finisce la love story.
Dopo, due sorelle trovano lavoro in Calabria e partono, ma questa più giovane torna dopo due settimane. Intanto ci sono degli episodi che mi mettono in guardia. La Torre è diventata famosa. Tanti vogliono abitarci, io non posso permettermi di fare un altro centro sociale, perché ovviamente conosco come è andato a finire quello di prima. Dentro, uno che viene con noi prova a andare contro di me. La situazione è sempre più difficile da gestire.
Arriva il momento del ritorno di Marta. Tutti i giorni ci sentiamo per telefono. Proprio nel giorno quando doveva prendere il biglietto per tornare in Italia, mentre fa la spesa in Polonia, un ucraino le strappa il portafoglio. Lei rimane senza soldi. Io sono impaziente, chiamo uno che viene con un pulmino ogni settimana per fare un piccolo commercio di cose. Io non ho mai capito come fa a guadagnare, comunque gli dico di andare a prendere Marta a casa, e che io lo pago qui da Roma.
Arriva sabato, devono stare già qui ma tardano, non ho nessuna comunicazione, il mio primo cellulare si scarica presto. Con il tempo mi preoccupo sempre di più. Solo dopo, tutto diventa chiaro. Non li fanno entrare in Italia con la merce che stanno portando. Arriva domenica e io sono sempre più nervoso. Verso la sera invito Stanislao, il mio amico che ha smesso di bere (ancora oggi non beve). Lo invito al bar che chiamiamo il bar dei laziali. Lì mi conoscono tutti, quindi gli chiedo se mi ricaricano la batteria del cellulare perché alla Torre la corrente non c’è. Così mi ordino una birra dopo quasi due mesi di astinenza. Rimango lì fino alle tre di notte, nessuna notizia, sono sfinito, e anche depresso, pure un po’ brillo per le birre che non conto più. Vado a dormire ma dormo due ore. La mattina mi sveglio, di nuovo nessuna notizia. Chiamo Pino che non vengo a lavorare. Lui vuole convincermi che nonostante tutto devo andare, anche senza lavorare, devo stare un po’ tranquillo. Io testardo sbaglio, lo ringrazio e rimango a casa, per modo di dire. Prendo un nuovo arrivato, Janusz, e andiamo al supermercato. Non mi rendo conto ma non sono più io, compro due bottiglie di vodka, altre due le rubo, torniamo alla Torre e beviamo. Una cosa matematica, a un certo punto casco a letto, con una dose di alcol da stordire un cavallo. Verso le due del pomeriggio qualcuno mi sveglia, io non voglio aprire gli occhi, ma sento una voce familiare. Alla fine apro gli occhi, è Marta. Allora mi alzo, pago questo ragazzo, però lui ha parcheggiato un po’ distante. Vado a prendere l’ultima valigia di Marta con Janusz. Come ho detto già prima, non ci sto con la testa. Arriviamo al pulmino parcheggiato a via Spinoza. Lì vicino ci sono le donne che ogni settimana lo pagano per fare il suo piccolo contrabbando di sigarette, prodotti alimentari e altre cose di poco valore, che davvero come conviene fare tutto sto movimento? A me, come ho detto già prima, viene qualcosa in mente. Finora non sapevo cosa volevo fare. Tiro fuori un coltellino tascabile, cerco di aprirlo, ma le mie condizioni sono pietose. Una di queste donne grida all’autista Stai attento! Lui si gira, mi sferra un pugno, e anche a Janusz. Janusz casca, io no, ma la peggio ce l’ho io. Loro vanno via, noi torniamo alla Torre. Dopo un paio d’ore sento dolore alla mascella, ma ancora sono talmente brillo che cerco di rimetterla a posto da solo. Ma peggioro la situazione. Alla fine chiamo l’ambulanza, e mi portano al Sandro Pertini. Janusz per solidarietà mi accompagna. È un bravo ragazzo ma non parla italiano. Io stremato dall’attesa e di tutti gli avvenimenti mi sdraio per terra. A quel punto qualcuno si interessa. Janusz parla con i medici in lingua tedesca perché in italiano è scarso, ma anche in tedesco non è meglio… Arriva una dottoressa e mi parla in tedesco, io penso che ho un delirio. Alla fine le dico se parla italiano, lei sorpresa dice sì. Perché dovevamo parlare tedesco? A distanza di anni questi ricordi sembrano Le Comiche 3. Dalla lastra risulta che la mascella è rotta e devo subire un intervento chirurgico. Passo una notte al Pertini, dopo sono trasferito al reparto maxillo facciale per essere operato.
Siccome già al Pertini non trovo pace e giro quasi tutta la notte a fumare, prendere caffè alle macchinette. Piano piano passa la sbronza e comincio a ragionare ma mi becco un soprannome, Girandola, e me lo porto dietro anche al San Giovanni.
Il giorno stesso dell’arrivo mi fanno un’ortopanoramica loro, perché quella del Pertini non è valida. Do una mano a una caposala, porto una ragazza di diciott’anni in sedia a rotelle che ha appena avuto un incidente in motorino. Lei scherza: mi chiede se visto che manca il personale, possono assumere me. Chiamo il mio datore di lavoro, Pino, che mi manda un po’ di soldi che mi sono guadagnato, me li porta suo figlio, 100mila lire. Il pomeriggio arriva Marta con Stanislao (Lo Stanislao che non beve, c’è un altro Stanislao di cui parlo più avanti) e Pietro.
Qui rimango per la prima volta sorpreso, mi fanno una visita di cinque minuti e vanno via. Lascio a Marta 50mila però è la prima crepa nel mio cuore. Il giorno dopo vengo operato, ovviamente sto sotto flebo ma non è da me stare fermo, ho voglia di fumare, quindi mi alzo dal letto e vado a fumare, così vado in conflitto con gli infermieri. Troviamo una soluzione: al posto della flebo devo prendere una puntura dolorosa secondo loro ma a me non mi spaventa, basta che non sono legato a ste attrezzature.
Il giorno dopo, visto che Marta non viene a trovarmi (all’epoca i cellulari erano rari), con l’occasione di comprare sigarette, scopro un’uscita senza guardiani che dà proprio sulla strada, di fronte c’è un tabaccaio. Gli domando dove è la stazione più vicina della metropolitana. Loro me la indicano: è vicinissima, Colosseo. Prendo il treno per Rebibbia. Vado a trovare Marta, rimango fino alla sera, poi torno in ospedale, sempre con la stessa strada. La caposala mi vede rientrare, mi chiama in ufficio, mi guarda, non commenta niente, accende il computer, mi fa vedere la mia mascella. Sono due placche di titanio e quattro chiodi. Ci facciamo una chiacchierata, e lei mi dice che mi ha lasciato la cena. La ringrazio e vado a dormire.
La storia delle mie evasioni si ripete tutti i giorni. Dopo la puntura vado via. Alla fine non resisto più a questo ricovero. Mi sento bene, chiedo un colloquio con il primario. Lui mi dice che va bene, ti dimetto, per due settimane devi prendere questo antibiotico, e dopo venti giorni devi tornare per visita di controllo.
Torno alla Torre, e torno al lavoro. Solo adesso capisco che era il primo anello della catena delle mie scemenze. Torno alla realtà. Vado a Due Ponti a trovare un amico, Adamo, che per agosto va in Polonia. Mi metto d’accordo con lui che mi lascia la sua casa per il periodo in cui manca, così credo di staccarmi un po’ dalla Torre. Ma non c’è niente da fare. Bozena è ancora in coma, Arturo il suo ragazzo convince Marta a accompagnarlo da Bozena e provare a parlare con lei. Sono tutti della stessa città, inizialmente non ho niente in contrario, ma dopo mi incazzo. Il giorno dopo lavoro, torno a casa di questo Adamo, le chiavi della casa le ho lasciate a Marta. Busso, non risponde nessuno. Non so che pensare, ma alla fine di mestiere faccio il fabbro, e apro la porta senza scasso. Trovo Marta che dorme con una bottiglia a fianco di lambrusco. La sveglio e già non scherzo: che succede? Lei mi risponde: sono andata con Arturo a trovare Bozena, e non trovo pace. Io non ci penso due volte. Intanto la situazione la conosco meglio di tutti. Le dico: non ci vai più. Alla prima occasione dico a Arturo di stare lontano da Marta. Alla fine sono anche geloso, tutti lo sanno, geloso e anche alle volte preso da furie pericolose.
A fine agosto torna Adamo e noi torniamo alla Torre. Fino a novembre non succede niente di particolare. Ma a fine novembre c’è un episodio. Arturo è un meschino, e combina una domenica di andare a trovare Bozena con uno di Sant’Egidio con la macchina, e chiede a Marta di andare con loro. Marta dice di sì, ma io gli rovino la festa. Capisco bene che questo cretino di Sant’Egidio si è innamorato e vuole convincere Marta a mettersi con lui.
Niente da fare, m’imbarco anche io, altrimenti, dico, Marta non parte. Oppure se ne va per sempre, a lei la scelta. Ci rimangono male ma Marta dice chiaro che senza di me lei non ci va (all’epoca Marta era molto attraente, varie volte ho dovuto proteggerla, perché lei di vita di strada non sapeva niente). Così loro finiscono i loro progetti del cazzo.
Io non ho minimo rispetto per le persone tipo Arturo perché lui prima non ha fatto niente per curare Bozena ma quando questa stava in coma ha sfruttato l’occasione chiedendo l’elemosina sotto la chiesa per lei che non aveva bisogno di niente, era in coma.
Siamo a dicembre, non mi ricordo come ci arriva un altro della città di Marta, Bozena, Arturo. Non mi ricordo neanche il nome, solo un soprannome strano: Shifek. Io alla fine sto in una stanza chiusa a parte la cucina che è comune, ma siccome una bombola di gas basta per una settimana e la pago sempre io, allora faccio una cosa: chiudo la bombola dentro un armadio con il lucchetto, e si può cucinare solo quando ci sono io.
Non sopporto più che devo fare sforzi dappertutto e gli altri pensano che la mia buona volontà può essere un loro diritto. La maggioranza sta con me ma c’è chi a tutti i costi vuole fare dispetti.
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